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L’azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore a tutela della massa dei creditori

Giurisprudenza e dottrina ancor oggi si interrogano intorno ai caratteri dell’azione revocatoria ordinaria esercitata nell’ambito della procedura fallimentare. Se i presupposti della “revocatoria ordinaria collettiva” sono quelli previsti dal codice civile all’art. 2901, molti sono i tratti che la distinguono dalla “revocatoria ordinaria individuale”.

1. Le caratteristiche dell’azione revocatoria ordinaria esercitata in sede fallimentare.

 L’azione revocatoria disciplinata dall’art. 2901 c.c. ha come scopo quello di reintegrare la generica garanzia patrimoniale posta dal codice civile a favore di qualunque credito assunto da una persona (art. 2740 c.c.). In altre parole, il fine dell’istituto è quello di “eliminare” i possibili effetti pregiudizievoli per un creditore causati da un atto di disposizione del debitore, purchè sussistano le condizioni soggettive (consilium fraudis del debitore e dell’eventuale partecipatio fraudis del terzo) e oggettive (eventus damni) previste dalla legge. L’accoglimento dell’azione revocatoria, quindi, non comporta il rientro del bene oggetto dell’atto di disposizione nel patrimonio del debitore, ma la possibilità per il creditore vittorioso di estendere l’esecuzione forzata su quel bene, ormai di proprietà del terzo (per approfondimenti vedi: Bigliazzi Geri, voce Revocatoria (azione), in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991; Cossu, voce Revocatoria ordinaria(azione), nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., XVII, Torino, 1998, 464; De Cristofaro, La prospettiva processuale della pauliana art. 2929 bis (note sull’introduzione del nuovo c.c.) (art. 12 d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132), in Nuove Leggi Civ. Comm., 2016, 431).

Dal tenere letterale dell’art. 66 sembrerebbe proprio che l’azione attribuita al curatore soggiaccia agli stessi presupposti dell’azione prevista dal codice civile, ma è inevitabile che l’istituto subisca le modifiche dovute al suo innesto all’interno di una procedura collettiva, il cui scopo è quello dell’equa soddisfazione di tutti i creditori dell’imprenditore dichiarato fallito (per approfondimenti vedi: Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970; Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 3° ed., 255; Consolo, La revocatoria ordinaria nel fallimento fra ragioni creditorie individuali e ragioni di massa, in Riv. dir. proc., 1998, 391; Guglielmucci, La revocatoria ordinaria nel fallimento, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, vol. II, Torino, 1999, 249; Fabiani, Concorsulaità dell’azione revocatoria ordinaria nel fallimento, in Giur. comm., 2013, 985).

In questo contesto, è sicuramente vera l’affermazione che lo scopo perseguito con tale azione è a favore di tutta la massa dei creditori, come per la revocatoria fallimentare, ma le modalità con cui viene perseguito e l’ampiezza dei risultati conseguibili sono ben differenti.

L’accoglimento dell’azione revocatoria fallimentare comporta l’automatico ampliamento dei beni sui quali tutta la massa dei creditori può soddisfarsi, perché, almeno idealmente, torna a far parte del patrimonio del debitore l’intero bene oggetto dell’atto di disposizione revocato.

La portata dei risultati conseguibili con la revocatoria ordinaria esercitata in modalità collettiva è in diretto collegamento con i suoi presupposti: infatti, solo i crediti che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 2901 c.c. possono giovarsi del “privilegio” di estendere l’esecuzione forzata nei confronti del bene di un terzo, che comunque è estraneo al fallimento ed è stato parte di un negozio giuridico ancora valido. Non sarebbe equo, oltre che contrario alla lettera della legge, consentire alla massa dei creditori di estendere indistintamente la procedura esecutiva su tutto il bene del terzo: se così fosse, il terzo sarebbe costretto a subire un procedimento esecutivo più invasivo in maniera a volte incolpevole, perché ciò dipenderebbe da un evento che riguarda la sfera giuridica del debitore, non la sua e di cui egli potrebbe non aver avuto contezza. Infatti, dalla norma di riferimento non sembra potersi desumere che il giudice debba compiere un’indagine sulla consapevolezza che il terzo aveva dello stato di crisi del debitore, cosi come intesa dall’art. 5 della legge fallim.: l’art. 66 a differenza dell’art. 67 non fa alcun riferimento alla conoscenza o meno da parte del terzo dello stato di insolvenza del debitore. Se pur l’atto dovesse essere a titolo oneroso, sarebbe sufficiente che il terzo avesse la consapevolezza di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore (Cass., 19 maggio 2006, n. 11763, in Il civilista, 2010, 7-8, pag. 90 con nota di Battaglia). L’eventum damni, richiesto per l’accoglimento della revocatoria ordinaria in sede fallimentare, può coincide anche con una semplice incertezza o una maggiore difficoltà o una limitazione della probabilità nella realizzazione del credito (Cass., 6 agosto 2004, n. 15257).

Certo è che se l’atto atto di disposizione ha aggravato o determinato l’insolvenza del debitore, i crediti per cui si ha teoricamente diritto di agire in revocatoria ordinaria sono tutti quelli sorti dopo il suo compimento e anche quelli antecedenti in caso di dolosa preordinazione: quindi, il ventaglio di crediti da prendere in considerazione si amplia notevolmente. Questa verifica, però, va fatta caso per caso perché è l’art. 2901 c.c. a richiederlo.

Il risultato dell’azione va comunque a favore di tutti i creditori: se alcuni di essi si riescono a soddisfare su beni estranei a quelli fallimentari, a giovarne sono direttamente anche i creditori esclusi dai benefici della “revocatoria ordinaria collettiva”, perché c’è più ampia disponibilità dell’attivo fallimentare per tutti.

Se le condizioni per agire sono commisurare alla posizione del singolo creditore, è corretta la visione che vuole l’azione esercitata dal curatore come il cumulo dei diritti potestativi individuali dei singoli creditori, ma non di tutti i creditori solo di quelli che possono esercitarla.

Il vantaggio collettivo che ne può derivare giustifica l’attribuzione al curatore della legittimazione ad esercitare un’azione propria di alcuni creditori, non nei confronti del fallimento, ma di un terzo. Perciò, il petitum dell’azione collettiva sarebbe indubbiamente onnicomprensivo del petitum delle azioni individuali. Altri tratti le distinguono: diverso sarebbe il giudice competente a conoscere l’azione collettiva (il tribunale fallimentare) rispetto al giudice competente a conoscere dell’azione revocatoria individuale; diverso il termine di decadenza (art. 69 bis l. fall.; art. 2902 c.c.). Indubbiamente ognuna delle due azioni avrebbe le sue peculiarità, ma il risultato conseguibile con quella collettiva conterebbe quello raggiungibile con le iniziative individuali.

2. L’eventuale legittimazione concorrente dei creditori e del curatore nell’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria.

Dal tenore letterale della disposizione («Il curatore può domandare …») che il curatore agisca per far dichiarare inefficaci gli atti compiuti in pregiudizio dei creditori sembra essere una possibilità più che un obbligo. È pur vero che, dal momento che l’azione individuale e quella collettiva perseguono, almeno in parte, lo stesso scopo, ci sarebbe una sovrabbondanza di mezzi di tutela nei confronti del terzo per raggiungere risultati tra di loro continenti, ammettendole contemporaneamente entrambe. Perciò, è logico ritenere che l’esercizio dell’azione ad iniziativa del curatore tolga interesse ad agire al creditore individuale. Al massimo, quest’ultimo potrebbe intervenire nel giudizio promosso dal curatore per tutelare meglio le sue ragioni, con una sorta di intervento adesivo dipendente ex art. 105, comma 2 c.p.c.

È chiaro che al singolo creditore non può essere negato il diritto d’azione nel momento in cui il curatore rimanga inerte: il diritto potestativo viene rivendicato nei confronti di un terzo e, perciò, non necessita di essere accertato in sede di formazione dello stato passivo.

Il curatore viene a conoscenza dell’iniziativa del singolo, perché è parte necessaria del relativo giudizio al posto del debitore fallito.

L’eventuale successivo giudizio promosso dal curatore è legato da un rapporto di continenza con il primo; perciò, i due giudizi debbono essere riuniti davanti al tribunale fallimentare, in caso di rilievo d’ufficio o di eccezione di continenza.

Tuttavia, se i due giudizi dovessero trovarsi in uno stadio tale da non poter essere riuniti, l’esecuzione della sentenza a favore del singolo è posposta a quella della sentenza collettiva, che tendenzialmente dovrebbe rendere del tutto inutile il secondo procedimento esecutivo. Se l’esecuzione della sentenza individuale dovesse essere iniziata prima di quella collettiva, lo strumento più conveniente per gli altri creditori, avvantaggiati dalla revoca dell’atto ed i cui interessi sono rappresentati dal curatore, è l’intervento nel procedimento in corso.

Ovviamente non ci saranno ostacoli all’esecuzione della sentenza individuale se l’azione revocatoria ordinaria collettiva dovesse avere un esito negativo.

Tenendo conto della peculiarità propria di ciascuna delle due azioni (la revocatoria ordinaria individuale e quella collettiva) si può dare una soluzione anche al dubbio relativo al possibile subingresso del curatore nel giudizio promosso dal singolo creditore prima della dichiarazione di fallimento.

Nel momento in cui il fallimento viene dichiarato, il giudizio si deve interrompere ex art. 43, co. 3 l. fall. perché parte necessaria di esso è il debitore dichiarato fallito.

Il giudizio può essere proseguito dal creditore individuale citando in riassunzione il curatore in luogo del debitore, ma difficile sarebbe immaginare la prosecuzione dell’azione da parte del curatore nell’interesse della massa.

Il curatore non subentra automaticamente nella posizione dei creditori in virtù dei principi generali che governano il fallimento; infatti, non si tratta di un’azione che compete al fallito, perciò c’è voluta una norma ad hoc.

Sembra forzata la costruzione che gli attribuisce la possibilità di subentrare nel giudizio in corso, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza (così da ultimo: Cass., 17 dicembre 2008, n. 29421, in Foro it., 2009, I, 1063;  Id.,  27 ottobre 2015, n. 21810, in Guida al diritto, 2016, 2, 79).  Se fino all’udienza di trattazione c’è la possibilità dell’ampliamento del petitum per le parti, colui al quale spetta questa possibilità è in verità il curatore, non in veste di debitore, quindi di parte, ma di terzo, portatore di istanze parzialmente nuove. Perciò, il suo utile intervento dovrebbe avvenire entro e non oltre il termine per la costituzione del convenuto, il che appare molto difficile. A queste perplessità si aggiunge un ostacolo a mio modo di vedere insormontabile: la competenza inderogabile del tribunale fallimentare, il cui carattere non può mutare a seconda del momento in cui viene promossa l’azione.

Al curatore, in conclusione, non rimane che iniziare un giudizio ex novo, giovandosi, se del caso dell’iniziativa del creditore individuale che ha evitato, per ciò che è di suo interesse, il compimento del termine di decadenza.

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