Conferma di disposizioni testamentarie nulle, possesso di beni assegnati a titolo di legato e rinuncia all’azione di riduzione
Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza n. 168 del 5 gennaio 2018
Successioni “Mortis Causa” – Successione Necessaria – Reintegrazione Della Quota Di Riserva Dei Legittimari – Azione Di Riduzione (Lesione Della Quota Di Riserva) – In Genere Diritto ad agire per la riduzione delle disposizioni lesive della quota di legittima – Rinunzia – Ammissibilità – Condizioni – Comportamento concludente – Fattispecie.
[1] La conferma delle disposizioni testamentarie o la volontaria esecuzione di esse non opera rispetto a quelle lesive della legittima, in quanto gli effetti convalidativi di cui all’articolo 590 cod. civ. si riferiscono alle sole disposizioni testamentarie nulle: ne deriva che in dette ipotesi non è preclusa al legittimario l’azione di riduzione, salvo che egli non abbia manifestato in modo non equivoco la volontà di rinunciare a far valere la lesione mediante un comportamento concludente incompatibile con la stessa.
Disposizioni applicate
Codice Civile, articoli 551, 557, 564 e 590
[1] Tizio Rossi conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Primo grado, Caietto Rossi, Sempronio Rossi, Mevio Rossi e Caia Bianchi, quali eredi del di lui fratello Caio Rossi, affinché fosse dichiarata la nullità ovvero accertata la rescissione per lesione della divisione contenuta nel testamento di Caiona Rossi (madre di Tizio e Caio), dichiarando pertanto che i beni relitti andavano assegnati ai due figli in quote eguali, ovvero disporre in via subordinata la riduzione delle disposizioni testamentarie, in quanto lesive della quota di legittima spettante all’attore.
L’attore evidenziava che la madre Caiona aveva disposto per testamento dei suoi beni in favore dei figli Tizio e Caio, dividendo gli immobili in parti eguali, ma previa assegnazione in proprietà esclusiva di alcuni cespiti in favore dell’attore ed altri in favore del dante causa dei convenuti, lasciando altri beni in comunione indivisa.
Era tuttavia sorta controversia tra le parti circa la corretta interpretazione delle volontà testamentarie, in quanto i convenuti sostenevano che le assegnazioni dei singoli immobili si configuravano alla stregua di legati, così che l’istituzione in quote eguali tra i fratelli Rossi concerneva solo i terreni.
Ad avviso dell’attore invece, la de cuius aveva inteso, previa determinazione della quota di ognuno dei due figli in misura pari alla metà dell’asse relitto, predisporre una divisione testamentaria, senza che potesse avere rilievo l’utilizzo, in relazione all’assegnazione dei singoli cespiti, di espressioni quali “lascio e lego”.
Aggiungeva che, in ogni caso, la divisione era rescindibile ex articolo 763, 2° comma, cod. civ., in quanto i beni attribuiti all’attore erano di valore inferiore di oltre un quarto rispetto alla quota ereditaria, deducendo altresì, in via subordinata, che le disposizioni testamentarie avevano leso la sua quota di riserva.
I convenuti si costituivano in giudizio deducendo l’infondatezza della domanda attorea, ribadendo che le assegnazioni dei singoli immobili erano da intendersi quali legati.
Il Giudice di primo grado rigettava integralmente le domande attoree, ed a seguito di gravame proposto dagli eredi di Rossi Tizio, anche la Corte di Appello rigettava l’impugnazione, confermando la sentenza impugnata.
Secondo la Corte distrettuale doveva ritenersi corretta l’interpretazione del testamento offerta dal giudice di primo grado, non potendosi accedere alla tesi dell’appellante secondo cui l’istituzione di eredi in quote eguali aveva ad oggetto l’intero patrimonio ereditario. La Corte rafforzava tale sua conclusione con la considerazione circa la forma pubblica del testamento: un documento, dunque, redatto con l’assistenza di un professionista da presumersi particolarmente esperto della materia successoria, dovendosi quindi escludere un utilizzo dei termini in maniera impropria.
Quanto alla domanda di rescissione, riteneva che la stessa non fosse meritevole di accoglimento, in quanto l’attore aveva tenuto comportamenti concludenti che implicavano l’accettazione dei legati. A giudizio della Corte d’Appello, poi, la condotta dell’attore, anche in relazione all’azione di riduzione, equivaleva ad una inequivoca rinunzia alla stessa, attesa l’esecuzione volontaria delle disposizioni testamentarie.
[2] Avverso la sentenza di secondo grado, uno dei figli di Tizio Rossi (nel frattempo venuto a mancare) ha proposto ricorso in Cassazione e la Corte, alla luce dei ragionamenti che si andranno in appresso a richiamare, ha accolto le istanze del ricorrente, cassando la sentenza impugnata.
In particolare, per quanto di nostro interesse e premesso che appare condivisibile l’interpretazione del testamento come contenente attribuzioni di beni a titolo di legato che si affiancano alla istituzione di eredi, il secondo motivo di ricorso è quello che preme analizzare.
Il ricorrente, con tale motivo, ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 547 e 590 c.p.c..
A giudizio della Corte d’Appello, ad impedire l’accoglimento dell’azione di riduzione era, come anticipato, anche la circostanza che il ricorrente aveva tenuto una serie di condotte che implicavano l’accettazione dei legati disposti in suo favore, e dalle quali era possibile ricavare in maniera inequivoca la volontà di rinunciare a far valere la lesione, anche alla luce di quanto prevede l’articolo 590 cod. civ.: “la nullità della disposizione testamentaria, da qualunque causa dipenda, non può essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità, ha, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione”.
Il ricorrente riteneva, invece, che il proprio dante causa avesse reiteratamente, anche nell’immediatezza dell’apertura della successione, manifestato una volontà contraria all’attuazione delle volontà testamentarie. Inoltre, sottolineava come una volta qualificate le attribuzioni dei singoli immobili in termini di legati, non deve dimenticarsi che i legati si acquistano di diritto, così che il conseguimento degli stessi non può essere valutato alla stregua di una spontanea esecuzione delle disposizioni testamentarie, trattandosi di condotta che si connota per la sua equivocità.
La Corte di Cassazione, nella sentenza de qua, ribadisce il proprio costante orientamento, ritenendo “del tutto inappropriato il richiamo compiuto dalla Corte distrettuale alla previsione di cui all’articolo 590 cod. civ., che non è invocabile, al fine di escludere la tutela dei diritti del legittimario”.
Infatti, “la conferma della disposizione testamentaria o la volontaria esecuzione di essa non opera rispetto alle disposizioni lesive della legittima, in quanto gli effetti convalidativi di cui all’articolo 590 cod. civ. si riferiscono alle disposizioni testamentarie nulle, mentre tali non sono quelle lesive della legittima, essendo soltanto soggette a riduzione (cioè, suscettibili di essere dichiarate inefficaci nei limiti in cui sia necessario per integrare la quota di riserva). Pertanto, l’esecuzione volontaria di per sé non preclude al legittimario l’azione di riduzione, salvo che egli abbia manifestato anche tacitamente la volontà di rinunziare all’integrazione della legittima, potendosi però desumersi l’esistenza di una rinunzia tacita attraverso un complesso di elementi concordanti da cui emerga che la parte interessata abbia avuto la consapevolezza dell’esorbitanza della disposizione testamentaria dai limiti della porzione disponibile e tuttavia abbia eseguito integralmente la disposizione medesima”.
Viene, dunque, ribadito il principio secondo cui “il diritto, patrimoniale (e perciò disponibile) e potestativo, del legittimario di agire per la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di riserva, dopo l’apertura della successione, è rinunciabile anche tacitamente, sempre che detta rinuncia sia inequivocabile, occorrendo a tal fine un comportamento concludente del soggetto interessato che sia incompatibile con la volontà di far valere il diritto alla reintegrazione”.
[3] La Suprema Corte non poteva, tuttavia, limitarsi a tali rilievi, dovendo verificare se, nel caso di specie, il comportamento del dante causa del ricorrente potesse rientrare in quella inequivocabile manifestazione della volontà di rinunciare all’azione di riduzione. In particolare, occorre interrogarsi se l’entrare in possesso del bene legato possa configurare una volontà di rinuncia ad agire per ottenere la quota che la legge riconosce a titolo di legittima.
L’Organo Giudicante non ha ritenuto di ravvisare una simile volontà in quanto “posto che, in caso di legittimario non integralmente pretermesso, come nel caso in esame, il diritto all’integrale soddisfacimento della riserva deve essere attuato mediante il riconoscimento, secondo le modalità previste dalla legge in tema di azione di riduzione, di una quantità di beni ovvero del loro controvalore economico in misura tale da perequare quanto già ricevuto con l’ammontare della quota di riserva, l’avere goduto di quei beni già assegnati per testamento, e che per legge sono destinati a comporre la sua quota di riserva, comunque necessitante delle dovute integrazioni, non può in alcun modo essere ritenuta una condotta idonea a concretare una rinuncia tacita alla tutela delle ragioni successorie, ove il comportamento de quo non si accompagni ad altre manifestazioni di volontà espressa ovvero per facta concludentia, che consentano di ravvisare effettivamente una volontà abdicativa del legittimario”.
Infine, la Corte analizza anche l’ultimo dei punti portati a sostegno delle proprie posizioni dai controricorrenti, i quali sostenevano che, per poter agire in riduzione, il legittimario beneficiato da un legato avrebbe dovuto previamente rinunciare a detto lascito. Per la Cassazione tale regola opera, ai sensi dell’articolo 551 cod. civ., solo ed esclusivamente nel caso di legato in sostituzione di legittima. Il legittimario potrebbe, invece, trattenere i legati già ricevuti, e pretendere solo il conseguimento della differenza tra quanto già ricevuto per testamento (ovvero per donazione) e quanto invece riservatogli dalle norme in tema di successione necessaria.
Al di là della logicità del ragionamento della Suprema Corte, sarebbe stato sufficiente il richiamo ad una delle disposizioni fondamentali in tema di azione di riduzione: l’articolo 564, secondo comma, cod. civ.. In base a tale norma il legittimario, che domanda la riduzione di donazioni o di disposizioni testamentarie, deve imputare alla sua porzione legittima le donazioni e i legati a lui fatti, salvo che ne sia stato espressamente dispensato. Orbene, è di tutta evidenza come il conseguimento di un legato non possa di certo costituire (se non in presenza di ulteriori elementi) una manifestazione di volontà abdicativa: se così fosse, il legislatore non avrebbe disposto che, nell’agire in riduzione, il legittimario dovesse imputare i legati ricevuti. E, portando agli estremi la opposta tesi, si dovrebbe arrivare alla (assurda) conclusione che l’esser beneficiato con un legato ed ottenere il possesso del bene oggetto di esso, comporterebbe l’impossibilità di agire in riduzione: questo sarebbe un troppo semplice strumento per aggirare le norme poste a tutela dei legittimari.
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