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Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 5 dicembre 2018, n. 31485

Forte conflitto tra azienda e lavoratore – inasprimento degli animi – mobbing – configurabilità – esclusione

MASSIMA

È da escludere che il datore di lavoro ponga in essere una condotta persecutoria, quando tra le parti vi è una situazione conflittuale protrattasi per lungo tempo, non riferibile in via esclusiva a comportamenti tenuti dal solo datore di lavoro e che trae origine da un complesso contenzioso che aveva inasprito gli animi. Non è ravvisabile un’ipotesi di mobbing se è lo stesso lavoratore che in più occasioni ha contribuito ad accentuare la situazione di tensione tenendo comportamenti che hanno determinato l’irrogazione di sanzioni disciplinari, accertate come legittime.

COMMENTO

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte ha confermato la correttezza delle pronunce dei Giudici di merito che, pur avendo ritenuto illegittimo il licenziamento del lavoratore stante l’insussistenza del motivo oggettivo addotto dalla società datrice di lavoro, aveva respinto la domanda di risarcimento formulata dal lavoratore ai sensi dell’art. 2087 c.c. avendo invece accertato sia la legittimità delle sanzioni disciplinari irrogate al lavoratore sia la sua legittima assegnazione a turni notturni. Per la cassazione della sentenza ha proposto quindi ricorso il lavoratore adducendo diverse argomentazioni, cui ha resistito la società con controricorso. In particolare, ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata era da considerarsi errata per le seguenti ragioni: i) la domanda risarcitoria formulata è connessa non direttamente alla irrogazione delle otto sanzioni disciplinari o alla adibizione ai turni notturni ma, bensì, ad una serie di condotte datoriali mirate ad escludere l’esecuzione di una precedente sentenza con la quale era stato annullato un primo licenziamento irrogato al lavoratore. ii) la spirale di ritorsioni disposta dal datore di lavoro avrebbe integrato un comportamento mobbizzante nonostante la legittimità delle sanzioni disciplinari. La Corte di Cassazione, confermando le statuizioni della Corte di Appello, ha stabilito che una situazione di forte conflitto tra l’azienda e il lavoratore durata molti anni è insufficiente al fine della configurazione del mobbing, in assenza della prova di un intento persecutorio del datore di lavoro. I giudici di legittimità, pur ritenendo provati l’idoneità offensiva, la sistematicità e la durata delle condotte tenute dall’azienda, hanno escluso di poter ravvisare una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nell’organizzazione della prestazione sicché, seppur implicitamente, hanno escluso che si potesse ritenere accertato un intento persecutorio in danno del lavoratore. A parere della Corte di Cassazione, la corte territoriale ha correttamente valutato dagli elementi dedotti la non sussistenza di una condotta datoriale in danno al lavoratore; la Corte, in particolare, ha escluso che il datore di lavoro abbia posto in essere la condotta persecutoria lamentata dal lavoratore dando invece atto dell’esistenza tra le parti di una forte situazione conflittuale protrattasi per lungo tempo e non riferibile in via esclusiva a comportamenti tenuti dal solo datore di lavoro. Per di più, la Suprema Corte accertava che in diverse circostanze il lavoratore aveva contribuito ad accentuare la situazione di tensione tenendo comportamenti che avevano determinato l’irrogazione di legittime sanzioni disciplinari. In definitiva, sulla scorta delle considerazioni che precedono nonchè anche all’esito dell’ampia ricostruzione degli elementi di prova acquisiti dalla Corte territoriale –, la Cassazione ha rigettato il ricorso.

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