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Pegno su titoli: la banca è obbligata a vendere se il titolo azionario precipita

Cass. civ., Sez. I, 14 maggio 2019, n. 12863, sent. – Pres. Didone – Rel. Dolmetta

(art. 1375 c.c.; art. 1176, co. 2°, c.c.; art. 2790 c.c.; art. 2795 c.c.)

Pegno – Pegno di titoli quotati – Custodia effettuata da soggetti qualificati da particolari qualità soggettive – Banche e intermediari finanziari – Dovere di conservazione del valore della cosa data in pegno – Diligenza professionale di cui all’art. 1176 c.c.

[1] La vendita anticipata di cosa data in pegno, di cui all’art. 2795 c.c., è strumento conservativo del valore economico del bene in garanzia che sottende, per sua natura, la cooperazione tra datore del bene e creditore garantito, sicché viola l’obbligo di buona fede oggettiva nell’esecuzione del contratto e di conservazione della cosa ricevuta ex art. 2790 c.c. il creditore garantito che, a fronte di un rischio oggettivo e sensibile di deterioramento del bene in garanzia, non si attiva per procedere all’eventuale liquidazione del medesimo ovvero non dà tempestivo e motivato riscontro alle sollecitazioni di liquidazione provenienti dal datore, che paventi il rischio concreto di deterioramento del bene in garanzia.

CASO

[1] Un correntista citava, avanti al Tribunale di Milano, una Banca, onde ottenerne la condanna al risarcimento dei danni per la mancata vendita di Azioni, di cui la Banca era creditore pignoratizio, “nonostante il progressivo e forte deterioramento di valore sui mercati regolamentati e nonostante egli avesse più volte sollecitato la relativa monetizzazione”. L’attore lamentava che, stante il comportamento omissivo della Banca, prolungatosi per circa due anni, i titoli dati in pegno avevano perso gran parte del loro valore

Il Tribunale, accertata la violazione dell’art. 1375 c.c., accoglieva la domanda dell’attore, condannando la Banca al risarcimento del danno dalla stessa cagionato.

I Giudici di seconde cure riformavano integralmente la sentenza, ritenendo che “non viola il canone di buona fede oggettivo il comportamento del creditore garantito che rimane inerte di fronte al delinearsi di un rischio sensibile di deterioramento del bene preso in garanzia”. Secondo la Corte d’appello milanese, posto che il debitore non aveva né offerto alla banca di sostituire i titoli che si stavano deteriorando con altre garanzie, né aveva assunto egli stesso l’iniziativa della vendita anticipata di cui all’art. 2795 c.c., di conseguenza nessuna violazione del precetto del comportamento secondo buona fede sussisteva nel caso di specie.

La Corte di Cassazione, riformava l’impugnata sentenza, confermando le argomentazioni che hanno condotto il Tribunale ad accogliere la domanda in primo grado.

SOLUZIONE

[1] La Suprema Corte con la sentenza in commento ha affermato i seguenti principi:

– “In tema di pegno, la custodia del creditore, prescritta dall’art. 2790 c.c., si sostanzia nell’obbligo di mantenere la cosa nel medesimo stato e modo di essere in cui si trovava al momento costitutivo dell’obbligo, con la conseguente necessità di adottare tutte le misure al riguardo idonee; in relazione alle circostanze concrete del caso e della relativa perdita e deterioramento il creditore pignoratizio risponde secondo le regole generali. In tale ottica, laddove oggetto della garanzia pignoratizia siano titoli azionari quotati in borsa, la banca ha il dovere di monitorare gli andamenti borsistici e, in caso di consistente deprezzamento, ha l’obbligo di venderli per non intaccare il valore della garanzia offerta”;

– “Nel caso in cui la garanzia pignoratizia sia costituita da strumenti finanziari quotati nel mercato regolamentato e la custodia del bene dato in garanzia sia effettuata da soggetti qualificati da particolari qualità soggettive (banche, intermediari finanziari ecc.), è a alla diligenza professionale di cui all’art. 1176 c.c. che si deve far riferimento per valutare il rispetto da parte del creditore del canone di buona fede oggettiva”.

QUESTIONI

[1] Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 1375 c.c., avendo la Corte territoriale individuato il metro di valutazione della condotta delle parti esclusivamente nelle “opzioni di condotta” previste dall’art. 2975 c.c., mentre l’obbligo di comportarsi secondo buona fede doveva considerarsi come un dovere giuridico di carattere generale.

La norma in questione – rubricata “vendita anticipata” – al primo comma prevede che “se la cosa data in pegno si deteriora in modo da far temere che essa divenga insufficiente alla sicurezza del creditore, questi, previo avviso a colui che ha costituito il pegno, può chiedere al giudice l’autorizzazione a vendere la cosa”. Analogamente, il terzo comma prevede invece che “il costituente può del pari, in caso di deterioramento o di diminuzione di valore della cosa data in pegno, domandare al giudice l’autorizzazione a venderla oppure chiedere la restituzione del pegno, offrendo altra garanzia reale che il giudice riconosca idonea”.

La Suprema Corte, nell’esaminare il primo motivo di ricorso, s’interroga su quale sia la reale portata del principio sancito dall’art. 1375 c.c., ovvero quale sia il ruolo della buona fede oggettiva nella disciplina riguardante la vendita della cosa data in pegno.

Secondo la Corte la vendita del bene in garanzia non ha come finalità quella satisfattiva del relativo diritto di credito, come sembrerebbe emergere dal dettato dell’art. 2796 c.c., rubricato “vendita della cosa”, bensì una funzione di garanzia, una funzione conservativa del valore economico del bene, così da evitarne il decremento o quanto meno contenerlo. In tal senso, infatti, l’art. 2795 c.c. è definito nei termini di “vendita anticipata”.

La vendita con funzione conservativa – secondo la pronuncia che si annota – per sua natura “si atteggia come fenomeno di potenziale cooperazione tra datore del bene e creditore garantito”. La cooperazione in parola è, dunque, ad avviso della Corte, la via da percorrere dinnanzi al rischio del deterioramento del bene dato in pegno.

In via correlata, la disposizione dell’art. 2795 c.c. là dove prevede il potere del creditore e del datore di ottenere l’autorizzazione del giudice a vendere la cosa, viene a configurarsi, sempre secondo gli Ermellini, come “strumento di conservazione del valore del bene strutturato propriamente per il caso di conflitto, o anche, e più semplicemente, per il caso di effettiva divergenza di opinioni tra creditore e datore”.

Pertanto, la Corte milanese, erroneamente, avrebbe interpretato la norma dell’art. 2795 c.c. a prescindere dal canone della buona fede oggettiva, non considerando che la portata generale propria dell’art. 1375 c.c. contraddice la pretesa di sottrarre alla sua applicazione le fattispecie disciplinate dall’art. 2795 c.c.

Orbene, il canone generale della buona fede oggettiva non può non imporre al creditore garantito – come pure al datore della garanzia (nonché al debitore, ove diverso da questi) – di prendere in considerazione un’eventuale vendita anticipata del bene preso in garanzia, laddove il rischio di un suo deterioramento venga sensibilmente ed oggettivamente a manifestarsi.

L’anzidetto canone comporta poi il dovere del creditore di fornire una risposta adeguata e tempestiva al datore, che lo solleciti a procedere alla liquidazione del bene, allegando una concreta sussistenza del rischio di deterioramento, nonché di motivare in modo chiaro e preciso un eventuale dissenso alla vendita, onde consentire, in tale ipotesi, l’effettiva applicazione della norma di cui all’art. 2795, co. 3, c.c.

Nella sentenza in commento, la Corte traduce la clausola generale della buona fede oggettiva in un dovere di protezione in capo al creditore nei confronti del datore di pegno in merito alla liquidazione del bene in garanzia. In quanto possessore, e a seguito del progressivo deterioramento del bene e della conseguente perdita di valore, il creditore garantito dovrebbe proteggere il datore secondo il meccanismo della salvaguardia dell’interesse altrui “nel limite in cui non venga a pregiudicare il proprio interesse oggettivo” (cfr. anche Cass. civ., 31.05.2010, n. 13202; Cass. civ., 10.11.2011, n. 22819).

Questo, secondo i Giudici di legittimità, almeno quando il datore solleciti la liquidazione del bene.

Stanti tali premesse, gli Ermellini non condividono l’impostazione della Corte milanese, secondo cui non viola il canone di buona fede oggettivo il comportamento del creditore garantito che rimane inerte di fronte al profilarsi di un rischio sensibile di deterioramento del bene preso in garanzia, giacché se così fosse la garanzia pignoratizia sarebbe sottratta ai dettami della buona fede oggettiva.

Né, secondo la Suprema Corte, può condividersi l’ulteriore affermazione della Corte milanese, secondo cui – nel caso di rischio oggettivo di deterioramento del bene in garanzia – il sistema comunque non prevede un “ruolo attivo” del creditore garantito.

Ad avviso dei Giudici di legittimità, il dovere di custodia, posto a carico del creditore garantito ex art. 2790 c.c., integra un obbligo di protezione della posizione del datore, che – in caso di sensibile rischio di deterioramento del bene – risulta funzionale al mantenimento di un valore economico corrispondente a quello originario.

Nella fattispecie in commento, non può prescindersi, poi, dalla circostanza che il creditore è una banca che, in considerazione del grado di professionalità che le è proprio, ha l’obbligo di custodire la cosa ricevuta in pegno non solo “secondo le regole generali della perdita e del deterioramento di essa” ma, tenuto conto della propria qualifica soggettiva, anche nell’osservanza di un alto grado di diligenza rapportato all’attività svolta.

Ne consegue che la banca, da un lato, è gravata da un obbligo di custodia basato sul criterio della diligenza del buon padre di famiglia, con la conseguenza che deve porre in essere tutti gli atti di conservazione, materiali e giuridici, in forza della materiale disponibilità della cosa in garanzia.

D’altra parte, non può trascurarsi che a disporre del bene oggetto di pegno è una banca, vale a dire un soggetto che, per sua natura, non può non sapere che il valore delle azioni varia contestualmente all’andamento del mercato.

Poiché, quindi, l’istituto di credito è un operatore professionale, il relativo grado di diligenza, nel preservare il valore del bene dato in garanzia, non può essere quello di cui al primo comma dell’art. 1176 c.c. (Cass. civ., 30.10.2007, n. 22860).

In conclusione, dunque, non può non condividersi la pronuncia in commento, che coglie l’occasione per ribadire l’obbligo delle parti di comportarsi con correttezza e buona fede, mettendo in rilievo la portata integrativa della buona fede, posto che la sola disciplina della vendita anticipata di cui all’art. 2795 c.c. non può esaurire l’insieme dei doveri che gravano sul creditore pignoratizio.

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