L’accertamento della giusta causa di licenziamento: accurata indagine degli elementi di fatto
La sentenza della Corte di Appello di Venezia 23 settembre 2022, n. 508, qui annotata, nell’affrontare un tema complesso in materia di cessazione del rapporto di lavoro, quale la sussistenza della giusta causa di licenziamento, rappresenta un esempio di accurata e analitica disamina della fattispecie concreta.
In particolar modo, la Corte svolge un’indagine dettagliata degli elementi in fatto valutabili ai fini dell’idoneità della fattispecie a giustificare la risoluzione del rapporto di fiducia, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo con una corretta attività di sussunzione della fattispecie concreta con la nozione legale di giusta causa.
La giusta causa di licenziamento è definita dalla giurisprudenza come una circostanza di gravità tale da far venire irrimediabilmente meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente, rendendo così impossibile la prosecuzione anche solo temporanea del rapporto di lavoro (Cass., 2 novembre 2021, n. 31202; Grivet Fetà, La giusta causa di licenziamento tra precetto normativo, disamina delle condotte concrete e integrazione giurisprudenziale, in Labor, 12 novembre 2022; Parisella, Legittimo il licenziamento della cassiera che utilizzi la propria tessera fedeltà al posto, o nell’interesse di clienti non aderenti al relativo programma promozionale, ivi , 13 giugno 2022).
Tuttavia, tale nozione, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è mutevole nel tempo, ossia rappresenta un “modulo generico” che richiede di essere specificato in sede interpretativa, proponendo al Giudice del Lavoro una valutazione complessa (Cass., 1° settembre 2022, n. 25837; Cass., 31 maggio 2022, n. 17597; Chietera, La valutazione della giusta causa di licenziamento tra giudice di merito e Corte di cassazione: unicuique suum, in Labor, 29 luglio 2022).
Il caso oggetto della sentenza annotata riguarda l’impugnazione di un licenziamento intimato per giusta causa da parte di una Società assicurativa verso un proprio dipendente.
Il Giudice di primo grado con decreto aveva accertato la legittimità del recesso datoriale, ritenendo sussistente la giusta causa e la proporzione della sanzione espulsiva rispetto al comportamento del lavoratore.
Il dipendente proponeva reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Padova resa in fase di opposizione nel rito di cui alla legge n. 92/2012, che a conferma dell’ordinanza conclusiva della fase sommaria, ribadiva la legittimità del licenziamento irrogato a seguito di procedimento disciplinare.
Il ricorrente adduceva quattro motivi di reclamo: in primo luogo sosteneva l’invalidità dell’atto espulsivo per vizio formale, in quanto ritenuta errata l’interpretazione operata dal primo giudice in merito al combinato disposto degli artt. 26 e 28 CCNL Assicurazione, applicato al caso.
La difesa del lavoratore sosteneva, infatti, che la proroga prevista dall’art. 28 CCNL Credito Assicurazioni (l’articolo in questione prevede che in caso di sanzione conservativa il termine di 15 giorni previsto in favore del datore di lavoro per la valutazione delle difese scritte del lavoratore, possa essere prorogato di ulteriori 15 giorni in casi di particolare difficoltà, ma il lavoratore deve essere avvisato di tale proroga entro lo spirare dei primi 15 giorni) dovesse essere intesa anche in favore della più grave sanzione del licenziamento e non solo alle ipotesi di biasimo formale e sospensione, ritenendo così “nulla” la procedura per violazione dell’art. 7 Statuto Lavoratori. Insomma, secondo il ricorrente il giudice dell’opposizione aveva svolto un’errata interpretazione della norma eccezionale rispetto alla normale procedura prevista in caso di procedimenti disciplinari prodromici al provvedimento espulsivo.
In secondo luogo, il lavoratore si doleva dell’omessa pronuncia sulla natura discriminatoria per motivi di handicap, sosteneva in terzo luogo l’errore nella valutazione delle risultanze probatorie e, da ultimo, contestava il difetto di proporzionalità tra gli addebiti e la massima sanzione espulsiva.
La società contestava ogni motivo del reclamo e affermava la lesione del vincolo fiduciario dovuta alle condotte negligenti, all’insofferenza ed alla mancanza di rispetto nei confronti dei superiori e dei colleghi, ritardi e cattiva gestione delle pratiche affidategli con conseguente danno per il datore di lavoro e in generale disaffezione nei confronti dell’ambiente lavorativo.
La sentenza in esame, nel giungere a confermare legittimo il licenziamento, stante la sussistenza di condotte di tale gravità e rilevanza da integrare giusta causa di recesso ai sensi di legge, non si è solo limitata all’esame dei fatti, ma ha svolto un approfondimento accurato sul concetto di disabilità che consente uno spunto di riflessione sul tema.
L’asserita discriminazione sostenuta dalla difesa del dipendente si basava sul fatto che lo stesso aveva lamentato un’ernia discale-lombare e un’invalidità civile nella misura del 34%, riconosciuta dall’Ente Previdenziale in data successiva all’estromissione. Riteneva, dunque che tale patologia dovesse essere ricompresa nella nozione di handicap, che lo aveva obbligato a un periodo prolungato di assenza per malattia.
La Corte dopo aver valutato tale motivo sotto il profilo soggettivo, escludeva l’intento discriminatorio, perché nessun accertamento di handicap era stato svolto rispetto alla patologia del dipendente che, per altro, non aveva mai comunicato al datore di lavoro. Inoltre, l’invalidità civile del lavoratore era stata riconosciuta in epoca successiva al licenziamento.
In altri termini, il lavoratore non avendo mai chiesto il riconoscimento dell’handicap alle competenti strutture, e non avendo mai comunicato quale fosse la malattia che lo aveva obbligato ad assentarsi dal servizio, non poteva certamente rivendicare oggi tale patologia come motivo di discriminazione di cui all’art. 15 S.L.
Da un punto di vista oggettivo, il Collegio si sofferma sulla nozione di handicap che è ricavabile in primo luogo dalla Direttiva n. 78/2000/CE del 27 Novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione e dalla successiva giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (HK Danmark, 11 aprile 2013, C-335/2011 e C-337/11; Commissione europea c. Repubblica italiana, 4 luglio 2013 C-312/2011) nelle quali viene definito l’ambito operativo della disciplina in tema di divieto di discriminazione per disabilità in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
La nozione di “handicap” deve essere intesa nel senso che “si riferisce ad una limitazione risultate in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, dall’art. 1, secondo comma, della Convezione dell’ONU, risulta che le menomazioni fisiche mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere “durature” – (C-335/2011 e C-337/11; Conformi:, EU:C:2013:222, punto 38; del 18 marzo 2014, Z., C 363/12, EU:C:2014:159, punto 76, e del 18 dicembre 2014, FOA, C 354/13, EU:C:2014:2463, punto 53 e da ultimo Corte di Giustizia UE, Sezione Terza, sentenza 1 dicembre 2016, causa C-395/15).
Per quanto attiene al carattere duraturo di una limitazione, la sentenza specifica che “il giudice europeo ha precisato che l’importanza accordata dal legislatore dell’Unione alle misure destinate ad adattare il posto di lavoro in funzione dell’handicap dimostra che esso ha previsto ipotesi in cui la partecipazione professionale è ostacolata per lungo periodo”.
In conseguenza della disabilità del lavoratore, sorge l’obbligo in capo al datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., ma anche ai sensi del D.Lgs. n. 216/2003, di “adottare accomodamenti ragionevoli”, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009 n. 18 nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.
L’adempimento all’obbligo di adottare degli accorgimenti ragionevoli, gravante su ogni datore di lavoro, condiziona a monte il potere di recesso dell’azienda, che tanto potrà legittimamente risolvere il rapporto, in quanto abbia adottato tutti gli accomodamenti ragionevoli prescritti dall’art. 3 comma 3 bis D.lgs n. 216/2003, dei quali, in ipotesi, può essere esonerato soltanto ove dimostri la gravosità in termini organizzatavi ed economici di una sua ricollocazione (ex art. 5 della direttiva 2000/78/CE).
Secondo il Collegio, dunque, non si rileva alcun profilo discriminatorio nella condotta del datore di lavoro che, nel caso di specie, neppure era al corrente del presunto handicap del dipendente e per tale ragione alcun “accomodamento ragionevole” era in grado di adottare.
Infatti, in assenza di un riconoscimento legale, secondo la Corte sarebbe stato onere del lavoratore dimostrare di essere portatore di una situazione fisica costituente handicap nell’accezione così individuata. Nel caso di specie il dipendente non ha fornito elementi sufficienti per ritenere che si trovasse in una tale situazione, né alla gravità e alla natura significativamente duratura della menomazione.
La Corte conclude ritenendo altresì infondati gli altri motivi di reclamo, poiché la complessiva valutazione delle condotte e degli episodi del lavoratore ha fatto emergere un tratto distintivo comune: la programmatica disaffezione verso l’ambiente lavorativo tale da rendere irrecuperabile una normale relazione lavorativa.
Tenuto altresì conto della sequenza temporale dei plurimi episodi, della gravità degli stessi, il Collegio perviene alla conclusione che la condotta del lavoratore è certamente idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, confermando così la sentenza di primo grado.
L’esame svolto dal Collegio ha riguardato analiticamente le condotte del lavoratore che sono state giudicate denigratorie nei confronti dei colleghi e superiori e di negligenze nello svolgimento delle proprie mansioni, tali da compromettere l’andamento aziendale e la buona riuscita dell’attività lavorativa di tutto il team, legittimando quindi il datore di lavoro alla corretta salvaguardia dei propri interessi, estromettendo il dipendente.
In merito alle espressioni di scherno ed offensive utilizzate dal ricorrente nei confronti dei colleghi, la Corte ha escluso che tali affermazioni potessero trovare tutela nell’art. 21Cost, in quanto giudicate estranee alla tutela del diritto di critica ed in grado unicamente di concorrere a creare un clima lassistico all’interno dell’ambiente di lavoro (Filippi, Il delicato equilibrio tra diritto di critica del lavoratore e la violazione dei doveri di correttezza e buona fede, 10 ottobre 2018, in Il Giuslavorista).
La corte ha ritenuto altresì ingiustificabili e gravissime le espressioni diffamatorie utilizzate dal lavoratore licenziato.
Tali valutazioni risultano in linea con giurisprudenza consolidata in merito alla verifica in concreto della gravità delle espressioni utilizzate dal dipendente che denigri l’azienda per la quale lavora cagionando alla stessa un danno all’immagine ed essendo così passibile di licenziamento per giusta causa.
Secondo la Corte di Cassazione a tali fini “è necessario che il giudice valuti globalmente i diversi episodi contestati al dipendente e verifichi se la loro rilevanza complessiva sia tale da minare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel dipendente, tenendo conto che l’intensità della fiducia richiesta per il permanere del rapporto è differenziata a seconda della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono” (Cass. 14 settembre 2007 n 19232).
Tale orientamento trova conforto anche in pronunce recenti, secondo cui la critica avanzata da un lavoratore nei confronti del proprio datore sfocia in un illecito disciplinare laddove non rispetti i requisiti della verità, continenza e pertinenza (Cass. 18 gennaio 2019, n. 1379). In particolare, la Cassazione ha avuto modo di ritenere legittimo il licenziamento irrogato ad un lavoratore che, nell’esercizio del diritto di critica – superando i limiti della correttezza formale, imposti dall’esigenza di tutela della persona umana – ha attribuito all’impresa riferimenti denigratori ed ai suoi dirigenti qualità apertamente disonorevoli, come di fatto accaduto nel caso in esame (Cass. 6 giugno 2018, n. 14527). In presenza di tali circostanze, infatti, la condotta del dipendente è ritenuta idonea a ledere definitivamente il rapporto fiduciario posto alla base del rapporto (Cass., 6 agosto 2020, n. 16789).
La dettagliata disamina degli elementi di fatto rappresenta un’ottima applicazione dei principi consolidati in giurisprudenza in tema di giusta causa, “essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza” (Cass. 14 settembre 2022, n. 27132).
Claudia Scalerandi, avvocato in Milano
Visualizza il documento: App. Venezia, 23 settembre 2022, n. 508
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