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SAFIO-errore-interpretativo-non-è-fonte-di-responsabilità-civile-del-magistrato

Cass. civ., sez. III, 29 agosto 2022, n. 25454 – Pres. Travaglino – Rel. Rubino

Parole chiave: Magistrati – Grave violazione di legge – Negligenza inescusabile – Errore inerente all’individuazione, all’applicazione o al significato della disposizione – Responsabilità civile – Insussistenza

[1] Massima: “In tema di azione contro lo Stato per il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, la grave ovvero manifesta violazione di legge, fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 2 l. 13 aprile 1988, n. 117, ricorre quando la decisione appaia non essere frutto di un consapevole processo interpretativo, ma contenga affermazioni a esso non riconducibili – perché sconfinanti nel provvedimento abnorme o nel diritto libero – e, pertanto, caratterizzate da una negligenza inesplicabile, prima ancora che inescusabile, restando così esclusa l’operatività della clausola di salvaguardia di cui al comma 2 della norma; la violazione rilevante può verificarsi in vari momenti dell’attività prodromica alla decisione, allorché non si sostanzi negli esiti del processo interpretativo, ma ne rimanga concettualmente e logicamente distinta, ossia quando l’errore dovuto a negligenza inescusabile cada sull’individuazione, ovvero sull’applicazione, o, infine, sul significato della disposizione, intesa quest’ultima come fatto, come elaborato linguistico preso in considerazione dal giudice che non ne comprende la portata semantica”.

Disposizioni applicate: l. 117/1988, art. 2

CASO

Una società, in forza di un decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo, promuoveva un pignoramento presso terzi, che si concludeva con l’assegnazione in suo favore di cospicui importi.

Tuttavia, all’esito del giudizio di opposizione proposto dagli ingiunti, il decreto ingiuntivo veniva revocato, in quanto il giudice reputava applicabile la prescrizione presuntiva prevista dall’art. 2955 c.c. e riduceva sensibilmente la somma per cui era stata emessa l’ingiunzione.

L’appello proposto avverso la sentenza che aveva revocato il decreto ingiuntivo veniva accolto, risultando, così, confermato che la società aveva diritto al pagamento dell’intero importo portato dal provvedimento monitorio.

Nel frattempo, i debitori, avendo visto accogliere – in virtù di quanto era stato stabilito dalla sentenza di primo grado poi riformata – l’opposizione proposta avverso l’atto di precetto loro notificato, avevano ottenuto la restituzione di larga parte delle somme assegnate all’esito del pignoramento presso terzi alla società creditrice.

Quest’ultima, sostenendo di non essere più in grado di recuperare il proprio credito, per la sopravvenuta insolvibilità dei debitori, agiva nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri per ottenere il risarcimento del danno ascrivibile all’errore commesso dal magistrato che, avendo applicato la prescrizione presuntiva in una fattispecie in cui, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, andava senz’altro esclusa, aveva riconosciuto un importo inferiore a quello risultato effettivamente dovuto.

La domanda risarcitoria veniva respinta sia in primo che in secondo grado, sicché la vicenda giungeva al vaglio dei giudici di legittimità.

SOLUZIONE

[1] La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, escludendo che, nel caso di specie, fosse ravvisabile una situazione da cui potesse scaturire, ai sensi dell’art. 2 l. 117/1988, una responsabilità civile del magistrato che aveva pronunciato la sentenza contestata.

QUESTIONI

[1] Lo Stato è responsabile della violazione di diritti soggettivi che siano provocati dallo ovvero nello svolgimento della funzione giurisdizionale, in virtù di quanto stabilito dall’art. 28 Cost.

L’autonomia della magistratura, peraltro, impongono la previsione di limiti alla configurabilità di una responsabilità del giudice, che, pur non escludendola tout court, preservino il suo operato da attacchi meramente strumentali che possano minarne l’indipendenza.

L’art. 2 l. 117/1988 prevede che chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni subiti.

La recente pronuncia di Corte Cost., 15 settembre 2022, n. 205, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, nella versione antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lett. a), l. 18/2015, che limitava il risarcimento ai soli danni patrimoniali e a quelli non patrimoniali che fossero derivati dalla privazione della libertà personale, essendo stata tacciata di irragionevolezza la scelta del legislatore di negare la piena tutela risarcitoria dei danni derivanti dalla lesione di diritti inviolabili della persona diversi dalla libertà personale, che pure l’ordinamento riconosce e garantisce all’art. 2 Cost.

La sentenza che si annota ha escluso che, nella fattispecie considerata, l’adozione, da parte del giudice adito, di una soluzione non in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza in merito all’ambito di applicazione dell’art. 2955 c.c. (orientamento secondo cui la norma, nel menzionare il diritto dei commercianti, si riferisce alle sole alienazioni al minuto di beni di largo e di generalizzato consumo, personale e familiare, tipiche dei rapporti della vita quotidiana instaurati senza formalità e contrassegnati normalmente dal pagamento immediato, o quasi, in unica soluzione, del corrispettivo, senza rilascio di quietanza), in assenza di una motivazione che giustificasse lo scostamento da tale orientamento, desse luogo a responsabilità civile del magistrato legittimante il risarcimento del danno lamentato dalla società ricorrente.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, quella contestata al magistrato è pur sempre una scelta di carattere interpretativo, che – come tale – non è sindacabile, in quanto risulta coperta dalla clausola di salvaguardia, volta ad attuare compiutamente l’indipendenza del giudice, stante il carattere fortemente valutativo dell’attività che è chiamato a svolgere, contenuta nel comma 2 dell’art. 2 l. 117/1988 (a mente della quale, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, non può dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove).

In questo senso, il mero discostarsi da un orientamento giurisprudenziale, per quanto consolidato, non costituisce – di per sé – una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, ovvero un’ipotesi di colpa grave, che possono configurarsi solo in presenza di una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma di diritto stessa, di una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico, dell’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore.

Nel caso di specie, l’interpretazione fornita dal giudice di primo grado e poi censurata in grado d’appello, per quanto non in linea con quella largamente maggioritaria, non poteva essere considerata totalmente implausibile, ovvero abnorme, né si poteva sostenere che si fosse in presenza di una manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o di una lettura di esso del tutto inspiegabile, in contrasto con ogni criterio logico e incompatibile con il tenore letterale.

In definitiva, sulla scorta di quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 11747 del 3 maggio 2019, la grave violazione di legge, fonte responsabilità ai sensi dell’art. 2 l. 117/1988, va ravvisata quando la decisione appaia non essere frutto di un consapevole processo interpretativo, ma contenga affermazioni a esso non riconducibili, perché sconfinanti nel provvedimento abnorme o nel diritto libero e risultino, pertanto, caratterizzate da una negligenza inesplicabile, prima ancora che inescusabile, con conseguente inapplicabilità della clausola di salvaguardia contenuta nel comma 2 della norma; fermo restando che una simile ipotesi può verificarsi in vari momenti dell’attività prodromica all’assunzione della decisione, deve comunque trattarsi di un errore del giudice che cada sull’individuazione, ovvero sull’applicazione, o, infine, sul significato della disposizione, intesa quest’ultima come fatto, come elaborato linguistico preso in considerazione dal giudice che non ne comprende la portata semantica, posto che la violazione non può sostanziarsi negli esiti del processo interpretativo, da cui rimane concettualmente e logicamente distinta.

In altri termini, solo l’attività che non può essere considerata prodotto del percorso intellettivo di interpretazione e di valutazione, alla quale risulta sottesa una grave violazione di legge (che può consistere nell’errore sull’individuazione della disposizione o del significante da applicare al caso concreto, nell’errore sull’applicazione della disposizione correttamente individuata, perché non vengono fatti discendere gli effetti giuridici da essa previsti e prescritti, nell’errore sul significato della disposizione, cui ne viene attribuito uno non compatibile con il significante) e che sia dovuta a inescusabile negligenza, può essere fonte di responsabilità del magistrato, mentre vi esula tutta quella prettamente interpretativa di norme di diritto e valutativa dei fatti e delle prove.

Peraltro, secondo i giudici di legittimità, alla società ricorrente erano imputabili tre circostanze determinanti per escludere l’invocato diritto di ottenere il risarcimento del danno.

In primo luogo, non risultava che, nel corso del giudizio, fossero stati debitamente sottoposti all’attenzione del giudice che era pervenuto a un’interpretazione dell’art. 2955 c.c. contrastante con quella usualmente attribuitavi dalla giurisprudenza quegli stessi argomenti, volti a dimostrare l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione presuntiva, che erano stati, invece, addotti a fondamento dell’azione di risarcimento danni.

In secondo luogo, non poteva predicarsi la sussistenza del nesso di causalità tra l’operato del giudice che, sulla base di una lettura dell’art. 2955 c.c. senz’altro minoritaria, ma non totalmente abnorme o confliggente con il dato testuale, aveva revocato il decreto ingiuntivo e il danno lamentato, consistente nell’impossibilità di recuperare le somme acquisite in forza della provvisoria esecuzione del provvedimento monitorio, ma successivamente restituite ai debitori per effetto dell’accoglimento dell’opposizione a precetto dagli stessi proposta: infatti, l’appello della società avverso la sentenza che tale opposizione aveva accolto era stato dichiarato inammissibile, per cui il fatto che le ragioni con esso veicolate – che ben avrebbero potuto condurre a un esito diverso del giudizio – non fossero state scrutinate per causa imputabile alla medesima appellante valeva a interrompere il nesso causale con l’evento lesivo.

In terzo luogo, l’omessa adozione di cautele volte a impedire che – come, in effetti, era poi avvenuto – i debitori si spogliassero dei propri beni nelle more dei giudizi pendenti tra le parti (per esempio, chiedendo l’emissione di misure cautelari conservative o procurandosi un titolo per iscrivere ipoteca sui beni immobili) e la mancata proposizione di azioni revocatorie volte a ottenere la declaratoria di inefficacia degli atti dispostivi compiuti, costituivano circostanze incidenti anch’esse in modo significativo e determinante sull’eziologia del danno lamentato, che, in quanto ascrivibili direttamente alla società ricorrente, non potevano che ridondare a suo svantaggio.

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