Con la sentenza n. 34031 del 18 novembre 2022, la Corte di Cassazione ha affermato che
“la richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione (alla quale sia seguito il giudizio che ha condotto al formarsi di un titolo infruttuosamente eseguito dal lavoratore) va considerato quale dies a quo nel calcolo a ritroso del periodo di dodici mesi al cui interno devono collocarsi le retribuzioni non corrisposte rilevanti per consentire l’intervento del Fondo di garanzia”.
Com’è noto, l’art. 2, comma 1 della legge 29 maggio 1982, n. 297 ha istituito presso l’Inps il
“Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto” con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all’art. 2120 c.c., spettante ai lavoratori o loro aventi diritto.
In particolare, il legislatore ha ancorato l’intervento del Fondo alla ricorrenza di due distinte ed alternative ipotesi previste all’art. 1 del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80: da un lato, la verifica del credito del lavoratore mediante l’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro (comma 1); dall’altro lato, qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il previo esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito, da cui risulti l’insufficienza, totale o parziale, delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro stesso (comma 2).
Dunque, è onere del lavoratore che intenda avvalersi della garanzia del Fondo ottenere un titolo esecutivo e promuovere la conseguente azione esecutiva nei confronti della società, ovvero, a seguito della sua cancellazione, nei confronti dei soci, i quali rispondono dei debiti sociali nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione.
Inoltre, per quanto concerne i crediti di lavoro che possono essere liquidati dal Fondo di Garanzia, l’art. 2 del d.lgs. n. 80/1992 specifica che
“il pagamento effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi dell’art. 1 è relativo ai crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono: a) la data del provvedimento che determina l’apertura di una delle procedure indicate nell’art. 1, comma 1 [procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero la procedura dell’amministrazione straordinaria prevista dal decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 aprile 1979, n. 95]
; b) la data di inizio dell’esecuzione forzata; c) la data del provvedimento di messa in liquidazione o di cessazione dell’esercizio provvisorio ovvero dell’autorizzazione alla continuazione dell’esercizio di impresa per i lavoratori che abbiano continuato a prestare attività lavorativa, ovvero la data di cessazione del rapporto di lavoro, se questa è intervenuta durante la continuazione dell’attività dell’impresa”.
Nel caso di specie, si controverteva della possibilità di includere tra le ultime tre mensilità della retribuzione, indennizzabili dal Fondo di Garanzia ai sensi di quanto previsto dalle norme sopra citate, quelle percepite nell’anno antecedente alla richiesta con cui il lavoratore aveva attivato, nei confronti del datore di lavoro inadempiente, il tentativo obbligatorio di conciliazione dinnanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro
ex art. 410 c.p.c. prima dell’instaurazione del relativo giudizio.
In particolare, il lavoratore, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, aveva promosso istanza di conciliazione
ex art. 410 c.p.c., con esito negativo a causa della mancata presentazione del datore di lavoro, e, qualche mese dopo, aveva adito l’autorità giudiziaria al fine di ottenere la condanna della datrice di lavoro al pagamento della mensilità della retribuzione non erogata, nel rispetto del termine annuale decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro previsto dalla legge. Il Tribunale adito accoglieva la domanda del lavoratore, ma l’esecuzione forzata della sentenza rimaneva infruttuosa.
Dunque, il lavoratore proponeva all’Inps domanda per accedere al Fondo di Garanzia, domanda che veniva accolta dall’ente previdenziale limitatamente a quanto richiesto a titolo di TFR, ritenendo che il restante credito non potesse essere liquidato dal Fondo in quanto non rientrante nel termine di dodici mesi previsto dalla legge, atteso che il
dies a quo a ritroso non poteva individuarsi nella data in cui era stato promosso il tentativo di conciliazione, data la natura precontenziosa e non giurisdizionale dello stesso tentativo.
Il ricorso del lavoratore avverso l’Inps veniva rigettato con sentenza condivisa dalla Corte d’appello competente, che rigettava il gravame proposto dal lavoratore.
La Corte di Cassazione, nel decidere in merito al ricorso presentato dal lavoratore, ha innanzitutto evidenziato che, nel caso di specie, l’iniziativa del lavoratore aveva condotto alla consacrazione di un titolo esecutivo e alla consequenziale procedura, rimasta infruttuosa.
Secondo il Collegio, tale iniziativa deve essere apprezzata nel suo completo dispiegarsi, attribuendo rilevanza al primo degli atti necessari al conseguimento del detto titolo esecutivo e, dunque, al tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. che, ai sensi dell’art. 412-bis c.p.c. vigente all’epoca dei fatti, costituiva condizione di procedibilità rispetto al giudizio di accertamento del credito e di condanna del datore di lavoro.
Invero, trattandosi di un filtro di accesso alla tutela giudiziaria, la richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione si risolveva in attività obbligata per il lavoratore al fine di precostituire il titolo esecutivo necessario per procedere nei confronti del datore di lavoro inadempiente e, in caso di esito infruttuoso della procedura esecutiva, per presentare domanda al Fondo di Garanzia.
Pertanto, osserva la Suprema Corte, il lavoratore ha agito del tutto correttamente, atteso che lo stesso ha attivato la richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione e, successivamente, ha iniziato il procedimento giudiziario, nel rispetto del termine di un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro. Inoltre, lo stesso, a seguito della sentenza di condanna emessa nei confronti del datore di lavoro, ha svolto tutte le attività funzionali alla realizzazione del proprio di diritto di credito, assolvendo all’onere di agire in via esecutiva di cui al d.lgs. n. 80/1992.
La Corte di Cassazione, nell’affermare il principio sopra riportato, si discosta dalle ultime sentenze della stessa che erano giunte a conclusioni differenti, sulla base di quanto affermato da una precedente sentenza (cfr. Cass., 29 luglio 2020, n. 16249), relativa, però, ad una diversa fattispecie, nella quale il tentativo di conciliazione, dopo essere stato proposto nei confronti del datore di lavoro, non aveva avuto alcun seguito a causa dell’intervenuto fallimento dello stesso e della conseguente estinzione del relativo giudizio, che non era stato riassunto nei termini di legge.
Quindi, in tal caso, era mancato, per inattività del lavoratore successiva alla presentazione del tentativo di conciliazione obbligatorio, un qualsiasi accertamento giudiziale del credito di lavoro in ordine al quale il lavoratore chiedeva la tutela previdenziale al Fondo di Garanzia, il quale non era stato accertato neanche in sede fallimentare.
Federica Negri, avvocato in Milano
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Cass., 18 novembre 2022, n. 34031
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