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Con le decisioni in epigrafe (ordinanza n. 11503 dell’8 aprile 2022; ed ordinanza n. 23219 del 25 luglio 2022), la Suprema Corte dà continuità al principio, più volte affermato, secondo cui in tema di mutamento di mansioni nel pubblico impiego privatizzato l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza “formale” delle mansioni con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, e senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, (v., ex alias, Cass. 16 luglio 2018, n. 18817, citata in motivazione; Cass. 19 agosto 2011, n. 17396; Cass. 5 agosto 2010, n. 18283, tutte in DJ). Nel caso oggetto della prima ordinanza, tale principio viene applicato nei confronti di un lavoratore che, con qualifica di tenente di Polizia municipale inquadrato nella categoria D, lamenta un “demansionamento” avvenuto per non aver più ricevuto l’incarico di «coordinamento della viabilità e del comando della Polizia ambientale» che espletava ormai da diversi anni. Più nel dettaglio, egli ritiene che attraverso la sottrazione di tale ruolo si sarebbe verificata la «riconduzione delle attività di tenente a quelle del mero agente di polizia municipale e quindi nell’alveo della categoria C e non D». La Corte d’Appello di Ancona, ritenendo che il lavoratore sia «sempre stato assegnato a compiti e mansioni conferenti il suo grado e la categoria D di appartenenza», nega la configurabilità di un’ipotesi di demansionamento in danno del lavoratore ricorrente e, di conseguenza, ogni richiesta risarcitoria. La Suprema Corte, accoglie la posizione della Corte territoriale e, riprendendo un suo orientamento (Cass. 15 ottobre 2020, n. 22405, DJ, citata in motivazione. Nello stesso senso, Cass. 30 marzo 2015, n. 6367, DJ), conclude affermando «che il conferimento della posizione organizzativa (ex c.c.n.l. del 31.9.1999 comparto Regioni ed Autonomie locali) non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni, differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio,…e (c.d.A.) non determina un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni, comportanti unicamente l’attribuzione di una posizione di responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza dell’incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce una ipotesi di demansionamento». Quanto alla fattispecie di cui alla seconda ordinanza, essa si riferisce ad un avvocato, dipendente del Comune di Taranto, assunto per svolgere attività forense come “avvocato dell’ente” e chiamato poi ad adempiere presso diversi uffici altre mansioni da “funzionario”, di natura legale, appartenenti alla medesima area D di inquadramento. La Corte d’Appello di Lecce, riformando la sentenza di primo grado, ha ritenuto che, «stante l’evidente differenza esistente tra attività forense ed attività legale, oltre che…la diversità del ruolo di avvocato rispetto a quello di tutti gli altri funzionari», tale assegnazione a mansioni diverse da quelle di competenza abbia «prodotto una depressione del bagaglio professionale del lavoratore (c.d.A.)» e riconosciuto, per tale motivo, il diritto al risarcimento del danno per perdita di professionalità. La Suprema Corte, soffermandosi solo sul primo motivo del ricorso, ritiene che tali argomentazioni siano “incoerenti” poiché trascurano il profilo decisivo consistente nel fatto che il lavoratore abbia comunque svolto funzioni inerenti al “campo giuridico” proprio della sua categoria di appartenenza; circostanza questa che di per sé basta ad escludere l’ipotesi di “demansionamento” e di conseguenza il risarcimento danni prospettato. Prosegue, tuttavia, con l’affermare che, mentre al datore di lavoro pubblico è consentito, nel rispetto delle classificazioni e delle altre eventuali regole di cui alla contrattazione collettiva, un ampio esercizio dello “jus variandi” e, quindi, di assegnazione ad altri compiti nell’ambito della stessa categoria, rimane vietata anche nel pubblico impiego una sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, o un intenzionale comportamento vessatorio, causativo di danni. In generale, sulla corretta interpretazione dell’art. 52, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 – nella versione novellata dal d.lgs. n. 150/2009 – dottrina e giurisprudenza sottolineano che nel pubblico impiego l’esercizio del potere di mutamento di mansioni trova margini di manovra molto ampi e delimitati dai “paletti” definiti dalla contrattazione collettiva sotto il “profilo dell’equivalenza formale” delle mansioni ascrivibili a ciascuna “categoria professionale” (RICCOBONO, Mansioni esigibili ed equivalenza professionale nel lavoro pubblico e privato: un’ipotesi di «cross fertilization» tra modelli regolativi della mobilità introaziendale?, ADL, 2014, 4-5, I, 1004 ss.; Pecoraro, La mobilità orizzontale nel lavoro pubblico: tra equivalenza formale e sostanziale, LPA, 2011, 2, 219; ROSANO, La disciplina delle mansioni, in L. FIORILLO, A. PERULLI (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Giappichelli, Torino, 2013, 412 ss.; Merlo, Svuotamento della prestazione lavorativa ed equivalenza delle mansioni: il diritto al ripristino dell’incarico per il dirigente pubblico “demansionato”, DRI, 2017, 3, 826 ss.; Mantenendo, infatti, ancora oggi una differenza – seppure molto attenuata – con la disciplina del mutamento di mansioni applicabile nel settore privato contenuta nell’art. 2103 c.c., come modificato dal d.lgs. n. 81/2015 (ove il legislatore ha limitato maggiormente lo jus variandi, ritenendolo esercitabile legittimamente entro le «mansioni riconducibili allo “stesso livello e categoria legale” di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». In argomento, BROLLO, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, ADL, 2015, 6, I, 1156; BINI, Dall’equivalenza professionale all’equivalenza economica delle mansioni. Questioni ermeneutiche e prime osservazioni, ivi, 1243 ss.; C. PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, Torino, 2015; GARGIULO, Lo jus variandi nel «nuovo» art. 2103 cod. civ., RGL, 2015, 3, II, 619; GARILLI, La nuova disciplina delle mansioni tra flessibilità organizzativa e tutela del prestatore di lavoro, DLRI, 2016, 149, 129; ZILIO GRANDI, GRAMANO (a cura di), La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act. Quadro legale e profili problematici, Giuffrè, Milano, 2016; BROLLO, Inquadramento e ius variandi, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Privato e pubblico, Utet, Torino, 2017, 768 ss.), la «condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva» che prescinde dalla professionalità che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della PA e limita il potere del giudice ad una valutazione oggettiva di corrispondenza delle mansioni effettivamente svolte a quelle esigibili per la “categoria di appartenenza” (in giurisprudenza, fra le tante, Cass. 27 gennaio 2017, n. 2140, Guida al diritto, 2017, 9, 95; Cass. 5 agosto 2010, n. 18283, DJ; Cass. 19 agosto 2011, n. 17396, DJ). Tale criterio di “equivalenza formale” è ribadito anche dalla norma contrattuale contenuta nell’art. 3, comma 2, del CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali del 1999, richiamato nel caso oggetto della prima ordinanza, secondo cui «Ai sensi dell’art. 56 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili. L’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro» (Già, CAMPANELLA, Mansioni e jus variandi nel lavoro pubblico, LPA, 1999, 1, I, 64; GARILLI, Profili dell’organizzazione e tutela della professionalità nelle pubbliche amministrazioni, DLRI, 2004, 101, 147; D’Aponte, Progressioni di carriera e assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego: la permanenza di una disciplina speciale tra esigenze di tutela ed abusi della p.a., LPA, 2005, 5, 833 ss.; C. PISANI, Commento all’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, in M. DELL’OLIO, B. SASSANI (a cura di), Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo. Commento ai D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 e 29 ottobre 1998, n. 387, Giuffrè, Milano, 2010, 213. Con riferimento a tale precedente disciplina, Cass., S.U., 04 aprile 2008, n. 8740, LPA, 2008, 2, II, 399). Non può, quindi, prescindersi dalla considerazione che anche nel Pubblico impiego il mutamento di mansioni è sorretto dai doveri di correttezza e buona fede del datore di lavoro nel senso che, al di fuori di tale ambito di riferimento, il lavoratore avrebbe diritto a maggiorazioni della retribuzione, qualora svolga mansioni della categoria superiore (cfr. art. 52, commi 4 e 5, d.lgs. n. 165/2001), e ad essere, invece, risarcito nel caso dovesse espletare per un cospicuo lasso di tempo mansioni della categoria inferiore. Ciò che rileva, quindi, è l’effettiva mobilità professionale verso l’alto o verso il basso. Quanto, in particolare, alla “mobilità verso il basso” la giurisprudenza, anche di merito (T. Palermo 24 giugno 2022, n. 2239, DJ), è chiara, infatti, nel dire che «Per aversi demansionamento e dequalificazione professionale tale da determinare un inadempimento del datore di lavoro non è sufficiente lo svolgimento “occasionale e residuale” di compiti propri della qualifica inferiore. È invece necessario il “prevalente e costante” svolgimento di compiti afferenti ad un livello di inquadramento inferiore a quello di assunzione, poiché solo in tal caso si configura un vero e proprio inadempimento datoriale, potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, di natura sia patrimoniale, che non patrimoniale». Sotto il profilo sanzionatorio, è interessante, tuttavia, osservare che l’utilizzo dell’avverbio “potenzialmente” non è casuale in quanto, come precisato in diverse occasioni (Cass., S.U., 26 marzo 2006, n. 6572, MGL, 2006, n. 6, 489, con nota di PISANI, I problemi rimasti aperti in tema di dequalificazione dopo le Sezioni Unite 6572/06; Cass. 6 novembre 2000, n. 14443, Dir. lav., 2001, II, 300; T. Parma 2 febbraio 2007, DJ) il risarcimento del danno da dequalificazione professionale è una conseguenza «possibile, ma non necessaria» dal momento che il lavoratore è tenuto ad assolvere l’onere probatorio in ordine alla natura ed alle caratteristiche del pregiudizio. Tali considerazioni sono state pienamente accolte nel caso del “tenente di polizia” e si evincono chiaramente laddove la Suprema Corte dichiara l’infondatezza delle doglianze promosse dal lavoratore «perché il discrimine fra le due categorie risiede non già nelle funzioni di coordinamento (potenzialmente attribuibili anche a personale inquadrato in categoria C), ma nel rilievo che la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche, mentre plurispecialistiche sono quelle della categoria D; inoltre la responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi e non ad uno solo di essi per la categoria D e solo quest’ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata complessità»; sicché il lavoratore – seppure mediante un conferimento di incarico – avrebbe svolto altre funzioni nell’ambito dello stesso profilo professionale con correlato beneficio economico. Ciò varrebbe anche nei confronti di avvocati inseriti come lavoratori subordinati nelle Pubbliche Amministrazioni. A tal riguardo, i Giudici di legittimità – nella seconda decisione qui in commento –  richiamano il principio affermato nella nota pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass., S.U., 24 aprile 1990, n. 3455, DJ), secondo cui «una volta ammessa, per univoco dettato di legge e nei limiti da essa definiti, la possibilità dell’espletamento della professione forense nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato, è la disciplina giuridica di quest’ultimo – la quale può trovare la sua fonte nei regolamenti interni dell’ente e nella contrattazione collettiva – che stabilisce i rispettivi diritti ed obblighi delle parti. Sono dunque le regole del rapporto di lavoro subordinato, che vincola il professionista all’ente datore di lavoro, quelle che necessariamente connotano un’attività svolta in tale regime, e ciò con le relative garanzie per il prestatore». Di conseguenza nel caso de quo afferma che «Qualora un avvocato o procuratore venga inserito nell’ufficio legale di un ente pubblico non economico, con costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, come consentito dall’art. 3, comma 4, lett. b), del r.d.l. n. 1578 del 1933 (conv. dalla l. n. 36 del 1934 e modif. dalla l. n. 1949 del 1939), in deroga alla regola generale dell’incompatibilità della professione forense con impieghi retribuiti, la disciplina di tale rapporto trova prevalente applicazione, anche quanto alle disposizioni di cui all’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001»; da qui l’irrilevanza della distinzione effettuata dalla Corte territoriale tra attività forense ed attività legale, oltre che tra ruolo di avvocato e quello di altri funzionari, vista la mobilità orizzontale del lavoratore nell’ambito della stessa categoria D di appartenenza e la necessità, quindi, di valutare le funzioni effettivamente espletate secondo il richiamato criterio dell’“equivalenza formale” delle mansioni (così, anche più di recente, T. Milano, sez. lav., 17 agosto 2022, n. 1842, DJ). Ciò non implica, è bene sottolinearlo, che i lavoratori possano essere chiamati a svolgere in maniera continuativa altre mansioni che, seppure appartenenti alla stessa categoria di riferimento, abbiano determinato «una effettiva e dimensionalmente significativa deprivazione professionale» (Cass. 21 maggio 2009, n. 11835, FI, 2010, 1, I, 78; in LPO, 2010, 3, 307 ss., con nota di GRILLO, La nuova nozione (formale) di equivalenza delle mansioni nel pubblico impiego). Infatti, mentre è chiaro nelle fattispecie commentate quando si verifica un “demansionamento”, rispetto al quale – come visto – si deve procedere con la verifica dell’“equivalenza formale” delle mansioni per valutare l’eventuale “mobilità professionale verso il basso”, dubbi possono sorgere sull’eventualità che si verifichi uno “svuotamento di mansioni”. Si tratta di una circostanza diversa e più grave del “demansionamento” che si perfeziona qualora si configuri «la diversa ipotesi di sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nel pubblico impiego» (cfr. ex plurimis, Cass. 08 aprile 2022, n. 11499, DJ; Cass. 11 aprile 2013, n. 8854, Diritto & Giustizia, 2013, 528, con nota di Dulio; Cass. 11 marzo 2011, n. 5881, DJ; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835, cit.). Tale diverso profilo viene colto, come si diceva, nella seconda ordinanza in commento, ove appunto i Giudici di legittimità, escludendo «che di per sé la perdita delle funzioni defensionali e/o giudiziali sia in sé decisiva», rinviano la questione alla Corte d’Appello di Lecce per valutare nello specifico se il lavoratore, «inquadrato in categoria D, abbia subito o meno, per effetto delle nuove attribuzioni presso altri uffici, uno svuotamento di mansioni, con lesione giuridicamente indebita alla professionalità». Qualora dovesse essere dimostrata una siffatta eventualità, la PA incorrerebbe in inadempimento contrattuale ed il lavoratore avrebbe diritto al risarcimento danni patrimoniale e non patrimoniale sempre che, come si diceva, «le allegazioni, anche se meramente fattuali e non dettagliate» circa la natura e le caratteristiche del pregiudizio siano comunque «desumibili dall’impostazione del ricorso e dalla ricostruzione dei fatti» (così, T. Milano 17 agosto 2022, n. 1842, DJ. Sulla tutela risarcitoria per svuotamento di mansioni, cfr., Cass. 08 aprile 2022, n. 11499, cit.; Cass. 11 aprile 2013, n. 8854, cit.; Cass., S.U., 26 marzo 2006, n. 6572, cit.). Linda Lorea, docente a contratto nell’Università degli Studi di Napoli Federico II Visualizza i documenti: Cass., ordinanza 8 aprile 2022, n. 11503; Cass., ordinanza 25 luglio 2022, n. 23219 Scarica il commento in PDF L'articolo Art. 52 TUPI e “criterio dell’equivalenza formale” delle mansioni: il mutamento di funzioni tra jus variandi, ipotesi di demansionamento e di “svuotamento di mansioni” sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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