Il Tribunale di Ravenna, con sentenza n. 24 del 31 gennaio 2023, si è pronunciato in merito al ricorso di una lavoratrice, svolgente mansioni di operatrice socio-sanitaria presso una struttura residenziale per l’assistenza ad anziani e disabili, avente ad oggetto la richiesta di differenze retributive fondate su un orario effettivo di lavoro superiore rispetto a quello registrato dal datore di lavoro, nonché l’impugnativa del licenziamento intimato alla stessa.
Per quanto concerne l’orario di lavoro della ricorrente, la stessa, assunta con contratto di lavoro a tempo indeterminato con orario di lavoro di 38 ore settimanali, lamentava di aver sempre lavorato per 138 ore alla settimana.
In particolare, oltre ai turni di lavoro diurni, ogni giorno, la ricorrente, avente la residenza anagrafica ed effettiva presso la struttura socio-assistenziale in cui lavorava, dalle ore 19.00 alle ore 7.00 del giorno seguente non poteva uscire dalla struttura, essendo obbligata ad ivi pernottare al fine di garantire l’assistenza agli anziani non autosufficienti alloggiati presso la stessa.
Sul punto, innanzitutto, il Tribunale precisa che, alla luce delle risultanze dell’istruttoria, debba escludersi che, durante la notte, dal momento del coricamento degli ospiti sino a quello della sveglia degli stessi, la ricorrente prestasse attività lavorativa in senso stretto, non essendo stato dimostrato lo svolgimento attivo e costante di lavoro notturno ed essendo, invece, stato confermato che la notte era destinata al riposo dei dipendenti addetti alla struttura, salvo eventuali richieste di assistenza da parte degli ospiti, molti dei quali aventi un grado lieve di non autosufficienza.
Tuttavia, osserva il Giudice, il non svolgimento di attività lavorativa in senso stretto non esclude che – in presenza di obblighi di reperibilità o di prontezza – il periodo considerato possa qualificarsi come periodo di lavoro.
A tal riguardo, il Tribunale richiama la nozione eurounitaria di orario di lavoro di cui all’art. 2 della direttiva 2003/88, ai sensi del quale l’orario di lavoro è
“qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali”.
Peraltro, secondo la giurisprudenza eurounitaria,
“rientra nella nozione di «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88, l’integralità dei periodi di guardia, compresi quelli di pronto intervento in regime di reperibilità, nel corso dei quali i vincoli imposti a! lavoratore sono tali da incidere oggettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente, durante suddetti periodi, il tempo in cui non è richiesta Ia sua attività professionale e di dedicare tale tempo ai propri interessi. Per converso, quando i vincoli imposti al lavoratore nel corso di un periodo di guardia determinato non raggiungono un tale grado di intensità e gli consentono di gestire il suo tempo e di dedicarsi ai propri interessi senza grossi vincoli, soltanto il tempo connesso alia prestazione di lavoro che, eventualmente, sia effettivamente realizzata durante un periodo del genere costituisce «orario di lavoro»” (cfr. CGUE, 9 marzo 2021, C-580/2019, RJ / Stadt Offenbach am Main).
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha, altresì, precisato che
“se il luogo di lavoro ingloba o coincide con il domicilio del lavoratore, il semplice fatto che, nel corso di un determinato periodo di guardia o prontezza, costui sia tenuto a restare sul luogo di lavoro a! fine di potere, in caso di necessita, essere disponibile per il suo datore di lavoro non è sufficiente per qualificare tale periodo come «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88. Infatti, in tal caso, il divieto impasto a! lavoratore di lasciare il suo luogo di lavoro non implica necessariamente che egli debba restare lontano dal suo ambiente familiare e sociale. Inoltre, un siffatto divieto è, di per se stesso, meno suscettibile di ostacolare Ia facoltà di detto lavoratore di gestire liberamente, nel corso di questo periodo, il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti” (cfr. ancora CGUE, 9 marzo 2021, C-580/2019,
cit. supra).
Con riferimento a detta giurisprudenza, il Giudice evidenzia che, nel caso di specie, nel periodo di lavoro svolto dalla ricorrente dalle ore 19.00 alle ore 7.00, in apparenza qualificabile come guardia o attesa, ossia come periodo di non svolgimento di attività lavorativa, ma di semplice custodia e vigilanza degli anziani ospitati presso la struttura, la lavoratrice non era meramente tenuta a garantire una generica reperibilità presso il proprio luogo di lavoro, nonché domicilio, ma era obbligata alla permanenza fisica presso il medesimo luogo.
Dunque, rileva il Tribunale, in considerazione dei vincoli di permanenza imposti alla lavoratrice, del tutto stringenti ed ineludibili, in quanto afferenti ad un intervallo temporale particolarmente elevato (12 ore consecutive) ed aventi una frequenza quotidiana (7 giorni su 7), oltre che perdurati per l’intero rapporto di lavoro (2 anni e mezzo circa), il periodo di lavoro oggetto di causa deve ritenersi astrattamente qualificabile come orario di lavoro.
All’interno di detto periodo, poi, il Giudice ritiene opportuno individuare e distinguere due fasce orarie: la prima, dalle ore 19.00 alle ore 23.00, la seconda, dalle ore 23.00 alle ore 7.00.
In relazione alla seconda fascia oraria, il Tribunale esclude che tale orario possa ritenersi orario di lavoro a tutti gli effetti, atteso che, durante tale fascia oraria, di regola la lavoratrice riposava e non svolgeva attività lavorativa effettiva e ripetuta, pur essendo la stessa contrattualmente obbligata a rimanere presso la struttura nella quale aveva il domicilio.
Invece, con riguardo alla prima fascia oraria, il Giudice ritiene trattarsi di tempo di lavoro, innanzitutto perché durante tali ore, nelle quali, usualmente, ogni persona è pienamente attiva e si dedica ai propri interessi, l’obbligo imposto dal datore di lavoro di permanere quotidianamente presso la struttura costituiva un’eterorganizzazione tale da incidere fortemente sulle facoltà e libertà di quest’ultima.
Inoltre, considerato che detta fascia oraria aveva inizio alle ore 19.00, vi era certamente una fascia temporale durante la quale, con ogni probabilità, gli ospiti della struttura erano ancora attivi e, dunque, necessitavano delle cure da parte dei dipendenti della struttura, i quali, dunque, erano tenuti a svolgere attività lavorativa.
Pertanto, il Giudice ha condannato il datore di lavoro a corrispondere alla lavoratrice le differenze retributive maturate anche con riferimento ai turni di lavoro effettuati tra le ore 19.00 e le ore 23.00.
Infine, in merito al licenziamento intimato alla ricorrente, da ritenersi ritorsivo in quanto irrogato a seguito delle rivendicazioni formulate dalla lavoratrice nei confronti del datore di lavoro per il tramite del proprio avvocato, il Giudice ha ritenuto applicabile il regime sanzionatorio di cui all’art. 2 del d.lgs., 4 marzo 2015, n. 23.
Invero, evidenzia il Tribunale, ai sensi della predetta norma, il rimedio reintegratorio trova applicazione anche qualora il licenziamento impugnato sia
“riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” e, tra i casi di nullità espressamente previsti dalla legge, vi è anche quello di cui all’art. 1345 c.c., in base al quale
“il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe”.
Dunque, atteso che la disciplina di cui all’art. 1345 c.c. trova applicazione anche agli atti unilaterali a contenuto patrimoniale e che tra tali atti deve ritenersi compreso anche il licenziamento, qualora quest’ultimo sia giustificato da un motivo illecito, come in ipotesi di licenziamento ritorsivo, sarà qualificabile come nullo, con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 2 del d.lgs. 23/2015.
Sul punto, il Giudice evidenzia che l’interpretazione sopra riportata è l’unica che consente di rendere compatibile la norma con l’art. 3 della Costituzione, atteso che, diversamente ritenendo, si configurerebbe un’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai soggetti cui si applica l’art. 18, comma 1 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il quale comprende espressamente la violazione dell’art. 1345 c.c. tra le ipotesi in cui opera la tutela reintegratoria, considerata anche la gravità del vizio consistente nel motivo illecito ritorsivo.
Alla luce di tale interpretazione, pertanto, il Tribunale ha dichiarato la nullità del licenziamento irrogato alla ricorrente e ha condannato il datore di lavoro a reintegrare la lavoratrice, oltre che a corrisponderle l’indennità risarcitoria dovuta per legge.
Federica Negri, avvocato in Milano
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Trib. Ravenna, 31 gennaio 2023, n. 24
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Deve considerarsi orario di lavoro il periodo durante il quale c’è l’obbligo per il prestatore di permanere presso il luogo di lavoro per svolgere attività di guardia e custodia, anche se si tratta del suo domicilio sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.