1. La normativa e la giurisprudenza europea sulla discriminazione per età
La Corte di giustizia ha avuto più volte occasione di decidere questioni relative alla discriminazione per età (in generale v. COSIO,
La discriminazione per ragioni di età. La figlia di un dio minore si prende la scena, LDE 25.07.19; GALLEANO,
La discriminazione per età di nuovo in Corte di giustizia Ue: l’ordinanza 13678/2018 della sezione lavoro della Corte di cassazione, europeanrigths.eu, 15.01.19).
La normativa trova le sue fonti nell’art. 14 della CEDU del 1950 che vieta differenziazioni ingiustificate anche «per ogni altra condizione», nel Trattato di Amsterdam del 1997 che inserisce nel trattato UE l’art. 13, che per la prima volta cita espressamente l’età quale condizione discriminatoria, nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2000 sul generale divieto di discriminazione, nella Direttiva UE 2000/70 su quella nei luoghi di lavoro e nell’art. 3, 3° comma e nell’art. 6, 1° comma del Trattato di Lisbona del 2009 che riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta, alla quale attribuisce lo stesso valore dei Trattati.
Circa le sentenze più rilevanti, ricordiamo che la Corte di giustizia si è pronunciata per la prima volta direttamente sulla discriminazione per età nella nota sentenza
Mangold del 22.11.2005, C-144/04, che ha trattato il caso, ritenuto costruito a tavolino da un avvocato tedesco che si era fatto fare causa da un suo dipendente licenziato allo scadere del termine del contratto al compimento del 52mo anno di età, in forza di una normativa nazionale, poi dichiarata incompatibile con la direttiva 2000/78 (PICCONE, SCIARRA,
Principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, obbligo di interpretazione conforme, politiche occupazionali, Foro it., 2006, II, 342 e segg.).
La sentenza più importante ai fini di un’impostazione sistematica della materia, è, però, la
Kucukdeveci del 19.01.10, C-555/07, nella quale si è affermata la natura di principio generale del divieto di discriminazioni per ragioni di età facendo riferimento, per la prima volta, alla Carta di Nizza dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che le ha conferito carattere vincolante (COSIO,
La sentenza Kucukdeveci: le nuove frontiere dell’Unione Europea, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2010).
Un punto di arrivo è anche la sentenza
Dansk industri del 19 aprile 2016, C-441/14, dove il lavoratore in questione era stato licenziato all’età di sessant’anni, dopo avere operato presso lo stesso datore di lavoro per trentacinque anni, in ragione del raggiungimento del diritto al regime di pensione di vecchiaia, regime al quale aveva aderito in base alla legislazione danese prima del compimento dei 50 anni. Qui la Corte, per la prima volta, affronta direttamente il problema della prevalenza del diritto europeo in materia di discriminazione – nella sentenza si legge: «“
il Giudice nazionale … è tenuto” ad applicare il diritto unionale, qualora l’interpretazione conforme sia impossibile (v., in proposito, NUNIN,
Il ruolo del giudice nazionale nell’applicazione orizzontale del principio di non discriminazione in ragione dell’età: un nuovo passo avanti della corte di giustizia, Arg. dir. lav., 2016, 6, 1184).
In merito alle rimessioni italiane, ricordiamo la sentenza
Abercronbie del 19.07.2017, C-143/16, che riguardava la particolare fattispecie del contratto a chiamata a tempo indeterminato che cessa automaticamente a 25 anni di età e che viene ritenuto non contrastate con la normativa europea (FUCCARO,
Disparità di trattamento per ragioni di età: la CGUE “salva” la cessazione automatica del contratto di lavoro intermittente, in Note e commenti – DPCE on line, 2017/4).
2. Il caso in esame
Nel nostro ordinamento, ai sensi dell’art. 6 della legge 127/1997, «[l]a partecipazione ai concorsi indetti da pubbliche amministrazioni non è soggetta a limiti di età, salvo deroghe dettate da regolamenti delle singole amministrazioni connesse alla natura del servizio o ad oggettive necessità dell’amministrazione».
L’art. 3, comma 1, del d.lgs. 334/2000, con riferimento alla posizione di commissario di polizia, prevede che «[i]l limite di età per la partecipazione al concorso, non superiore a trenta anni, è stabilito dal regolamento adottato ai sensi dell’articolo 3, comma 6, della legge 15 maggio 1997, n. 127, fatte salve le deroghe di cui al predetto regolamento». In modo analogo disciplina il D.M. n. 103/2018. Diverse deroghe sul limite di età per l’accesso sono previste, ad esempio per una percentuale del 20% dei partecipanti al concorso che appartengano al personale della Polizia di stato che sia in possesso di laurea a contenuto giuridico per i quali l’età minima viene fissata in anni 40.
Nel dicembre 2019 il Ministero dell’interno indiceva un concorso per il conferimento di 120 posti di Commissario di Polizia al quale provava a presentare istanza di partecipazione V.T., nonostante fosse nato nel 1988 e avesse quindi da poco superato il limite di trent’anni. Il sistema informatico impediva però il completamento della domanda non appena veniva inserita la data di nascita. V.T. proponeva quindi ricorso avanti al TAR Lazio, dal quale otteneva dapprima l’ammissione con riserva al concorso ma, con sentenza del 2 marzo 2020, si vedeva rigettare nel merito la domanda in forza della normativa cui si è fatto cenno. Ne seguiva il ricorso al Consiglio di Stato nel quale veniva chiesta l’applicazione della Direttiva 2000/78, dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e dell’art. 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (che dispone sull’applicazione dei trattati Ue negli stati membri).
Il Consiglio di Stato, ritenendo che il limite fissato potesse costituire nel caso specifico un fattore discriminatorio ai sensi dell’art. 2 della direttiva 2000/78 , che non appariva neppure giustificato alla luce degli artt. 4 e 6 di quest’ultima i quali, in particolare, prevedono che una disparità di trattamento possa essere ammessa laddove «per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato» (art. 4) e che le ragioni fondate sull’età «siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari» (art. 6).
Il giudice remittente osserva come la Corte già aveva avuto modo di pronunciarsi su un caso spagnolo (sentenza
Vital Perez del 13 novembre 2016, in causa C-416/13), nel quale era stato inibito l’accesso alle funzioni di agente semplice in ragione delle condizioni fisiche del partecipante, poiché la posizione di lavoro, pur prevedendo compiti prettamente amministrativi, non vedeva escluso in assoluto l’impiego in mansioni che presupponevano l’utilizzo della forza fisica.
Nella specie, inoltre, il Consiglio di Stato rileva in primo luogo che, nel concorso di cui è causa, era prevista una prova di efficienza fisica quale condizione per il superamento della selezione e tanto sembrava sufficiente allo svolgimento dei compiti di Commissario, risultando che le mansioni di sua competenza sono di natura principalmente amministrativa e non ineriscono (come invece nel caso esaminato nella sentenza
Salaberria Sorondo del 15 novembre 2016 (in causa C-258/15) anche alla gestione diretta dell’ordine pubblico.
In secondo luogo, la normativa nazionale in esame, «prevedendo una riserva di posti al personale già in servizio che non ha più di 40 anni», dimostrerebbe che un aumento dell’età oltre i 30 anni non è incompatibile con l’esercizi delle funzioni di commissario.
Infine, osserva il giudice nazionale, poiché l’età di pensionamento è fissata al 61° anno di età, rimane un congruo periodo di tempo per lo svolgimento dell’attività nelle mansioni di commissario.
Tanto premesso il Consiglio di stato svolgeva la seguente questione pregiudiziale: «Se la direttiva [2000/78], l’articolo 3 del TUE, l’articolo 10, TFUE e l’articolo 21 della [Carta] vadano interpretati nel senso di ostare alla normativa nazionale contenuta nel decreto legislativo n. 334/2000 e successive modifiche e integrazioni e nelle fonti di rango secondario adottate dal Ministero dell’Interno, la quale prevede un limite di età pari a trent’anni nella partecipazione ad una selezione per posti di commissario della carriera dei funzionari della Polizia di Stato».
3. Sul quesito posto
Innanzi tutto, la Corte ritiene che l’art. 3 del TUE e l’art 10 del TFUE stabiliscano obblighi non agli stati membri ma unicamente agli organismi dell’Unione e quindi non sono pertinenti ai fini dell’esame della questione posta.
Rileva invece la direttiva 2008/78, poiché il divieto di discriminazione è sancito dall’art. 21 della Carta e, nell’ambito lavorativo, è stato attuato da detta direttiva. Sicché, la normativa nazionale che limita l’accesso ad un posto nel pubblico impiego al possesso di una certa età, deve considerarsi una limitazione che entra nel campo di applicazione della direttiva. Più in particolare, questa prevede, all’art. 2, par. 1, ogni divieto di discriminazione, diretta o indiretta, basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 della direttiva stessa, tra i quali è espressamente indicata l’età. Tanto avviene quando una persona, in ragione uno qualunque dei motivi di cui all’art. 1 è trattata meno favorevolmente di un’altra che si trovi in situazione analoga.
Nella specie risulta che, in applicazione della normativa nazionale, in ragione del solo fatto di avere compiuto 30 anni si realizza, attraverso l’esclusione, un trattamento meno favorevole rispetto alla generalità dei partecipanti al concorso per commissario. Ritenendola dunque una discriminazione, si trattava pertanto di verificare se tale discriminazione fosse giustificata sulla base dell’art. 4, par. 1, o dell’art. 6, paragrafo 1, della stessa direttiva.
4. Sull’art. 4, paragrafo 1, della direttiva
L’art. 4, paragrafo 1 della Direttiva prevede che «una disparità di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 di tale direttiva non costituisce discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato». In altri termini si prevede che il possesso di una certa condizione (nella specie l’età) può giustificare un trattamento differenziato in ragione del fatto che, per quanto attiene a funzioni di ordine pubblico, le quali per loro natura possono necessitare dell’esercizio della forza fisica, l’età del lavoratore può essere un fattore determinante, sia per la sua idoneità a svolgere le relative funzioni che per l’interesse alla sicurezza pubblica.
Nel caso specifico, il Consiglio di stato, come si è visto, ha escluso che per l’esercizio della professione di commissario di polizia fossero richieste capacità fisiche particolari, consistendo le relative mansioni in attività prettamente amministrative, come risulta dall’art. 2, comma 2 del d.lgs. 334/2000 (testualmente riportato ai § 12 e 27 della sentenza in commento). Tale valutazione veniva contestata dal Governo italiano che ha sostenuto che il citato art. 2, comma 2, prevede che il commissario sia tenuto a svolgere tutte le mansioni connesse ai servizi della Polizia di Stato, tra queste anche quelle relativa alla tutela delle persone e dei beni oltreché comportare l’impiego nei servizi di ordine pubblico, sicché l’interessato può trovarsi in situazioni di rischio che necessitano del requisito della prestanza fisica, connesso con l’età.
Su questo punto, la Corte rinvia al giudice remittente il quale dovrà valutare i compiti normalmente svolti dai commissari e, ove effettivamente le relative mansioni possano comportare alcune attività che effettivamente rendono necessario il possesso di capacità fisiche particolari, potrebbe ritenere giustificata la misura dell’età massima prevista dalla norma nazionale ai soli fini della selezione della persona chiamata ad occupare quella specifica posizione lavorativa, ma ingiustificata la fissazione di tale limite per la partecipazione ad un concorso di portata generale come quello in esame. Allo stesso modo, qualora poi accerti che le capacità fisiche debbano essere in effetti esercitate in modo abituale ma non costituiscano un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, dovrà ritenere che tale disposizione osta alla direttiva 2000/78.
Per quanto attiene alla finalità della normativa all’esame della Corte, il Governo italiano sostiene che la stessa è finalizzata a garantire il servizio operativo e il buon funzionamento dei servizi di polizia. La Corte ricorda che già si è pronunciata sulla questione ritenendo che tale intento costituisce una finalità legittima, ai sensi del art. 4, paragrafo 1, della direttiva (sentenza
Vital Perez, cit., § 44 e Saberria Sorondo, cit., § 38).
In merito al carattere proporzionato di tale normativa, la Corte ricorda che, in base al considerando 23 della direttiva, «è in “casi strettamente limitati” che una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata, segnatamente, all’età costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa», senza contare che la deroga prevista dall’art. 4, paragrafo 1, deve essere interpretata restrittivamente (sentenza
Vital Perez, cit. § 46 e 47 e giurisprudenza ivi citata).
In particolare, nella sentenza
Wolf del 12 gennaio 2010 (in causa C-229/08) la Corte ha ritenuto proporzionato il limite di 30 anni per l’accesso a funzioni di vigile del fuoco, «dopo aver constatato, sulla base dei dati scientifici di cui disponeva, che taluni compiti assegnati ai componenti di tale servizio, quali la lotta agli incendi, necessitavano di capacità fisiche particolarmente elevate e che pochissimi funzionari di più di 45 anni avrebbero le capacità fisiche per svolgere una siffatta attività». Per contro, ha invece ritenuto requisito sproporzionato lo stesso limite per un agente di polizia locale «che comportavano, in particolare, l’assistenza ai cittadini, la protezione di persone e beni, la detenzione e custodia degli autori di atti criminosi, il pattugliamento a scopo preventivo e il controllo della circolazione stradale, le capacità di cui costoro dovevano disporre non erano sempre paragonabili alle capacità fisiche particolarmente elevate sistematicamente richieste ai vigili del fuoco».
Toccherà dunque al giudice del rinvio, che già risulta avere valutato che i commissari di polizia non svolgono mansioni di tal tipo, approfondire in fatto la questione, tendo anche conto della circostanza, già evidenziata nell’ordinanza di rimessione, che il commissario è comunque soggetto, prima dell’assunzione, ad un esame di idoneità fisica.
Il Governo italiano ha inoltre fatto valere la necessità «di abbassare l’età media in seno alla polizia, in proiezione futura, nell’ottica di una generale ricalibratura dell’assetto complessivo dell’accesso alla Polizia di Stato». Sul punto, la Corte rileva che la questione è già stata affrontata nella sentenza
Saberria Sorondo (cit., § 44 e 47) dove, «alla luce di dati precisi che le erano stati forniti e che potevano lasciar presagire un massiccio invecchiamento degli effettivi del corpo di polizia in questione» è stato ritenuto che «per ristabilire una piramide delle età soddisfacente, il fatto di essere in possesso di capacità fisiche particolari doveva essere concepito non in maniera statica, nell’ambito delle prove del concorso per l’assunzione, bensì in maniera dinamica, prendendo in considerazione gli anni di servizio che sarebbero stati compiuti dall’agente dopo essere stato assunto». Inoltre, in quella sentenza, il caso deciso riguardava agenti che non svolgevano compiti di natura amministrativa ma, essenzialmente, funzioni operative o esecutive.
Pertanto, al fine di valutare la rilevanza del ripristino della piramide dell’età soddisfacente, il giudice del rinvio dovrà tenere conto dell’età media del personale interessato al concorso, ovvero i commissari della Polizia di Stato e non di quella di tutti i funzionari del settore, sempre nei limiti in cui la prestanza fisica venga effettivamente ritenuta necessaria per lo svolgimento delle relative mansioni e tenuto conto che, in mancanza di tale necessità, già la previsione di una prova fisica eliminatoria nell’ambito della procedura concorsuale «costituirebbe effettivamente una misura adeguata e meno restrittiva rispetto alla fissazione di un limite massimo di età a 30 anni come quello previsto dalla normativa di cui trattasi nel procedimento principale».
Infine, anche il rilievo del giudice remittente che vi sia la possibilità di derogare al limite dei 30 anni, aumentandolo a 40 per gli agenti già in servizio «consente di affermare che il raggiungimento di tale età alla data di iscrizione al concorso non sia incompatibile con l’esercizio delle funzioni di commissario di polizia e, di conseguenza, che il limite di età di cui trattasi nel procedimento principale sarebbe sproporzionato». A ciò si aggiunge che la parte interessata, ha versato agli atti la circostanza che il «limite di età è aumentato fino a tre anni per i candidati che hanno prestato servizio militare, soppresso per il personale della Polizia di Stato e fissato a 35 anni per il personale dell’Amministrazione civile del Ministero dell’Interno».
Tali circostanze inducono la Corte a ritenere che «, fatte salve le verifiche che spettano al giudice del rinvio, risulta che, nella misura in cui le funzioni effettivamente esercitate dai commissari della Polizia di Stato richiedano capacità fisiche particolari, la fissazione del limite massimo di età a 30 anni previsto all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 334/2000 costituisce un requisito sproporzionato, alla luce dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78».
5. Sull’art. 6, paragrafo 1, della direttiva
La Corte affronta quindi le condizioni previste dall’art. 6, paragrafo 1 della direttiva, secondo il quale «gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari», ricordando, in particolare, che la lettera c) del secondo comma del paragrafo 1 precisa che tali disparità di trattamento possono comprendere: «la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento». Giova ricordare che è proprio in base a questa norma che la Corte, nella sentenza
Abercrombie (cit., § 36-47) ha ritenuto che il contratto a chiamata intermittente italiano fosse riconducibile a «forme flessibili di lavoro (…) necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, rendere gli stipendi più adattabili al mercato del lavoro e facilitare l’accesso a tale mercato delle persone minacciate dall’esclusione sociale, eliminando allo stesso tempo le forme di lavoro illegali» (in particolare, § 43, v. VARVA,
Lavoro a chiamata e diritto antidiscriminatorio: l’Europa non è un Paese per giovani, GiustiziaCivile.com, fasc., 4 maggio 2018).
Dalla domanda pregiudiziale, secondo la Corte, non risulta la finalità della norma nazionale in contestazione: Tuttavia, considerati tutti gli elementi in suo possesso, la Corte può comunque valutare se nella specie è individuabile lo scopo della normativa in esame «al fine di esercitare un controllo giurisdizionale quanto alla sua legittimità e al carattere appropriato e necessario dei mezzi adottati per realizzare lo scopo prefisso, i quali sono rinvenibili, al fine di ritenerne la legittimità e, dunque l’assenza di intento discriminatorio, in «finalità di ordine sociale» (sentenza
Prigge del 13 settembre, in causa C-447/09, § 81).
Più in particolare, ove il limite di età trovi fondamento nella formazione necessaria per il lavoro da eseguirsi o nell’esigenza di un congruo periodo prima del pensionamento, tali finalità «potrebbero» rendere ammissibile una disparità di trattamento come quella di cui al procedimento principale, «qualora essa sia «oggettivamente e ragionevolmente giustificat[a], nell’ambito del diritto nazionale», ai sensi di tale disposizione (v., in tal senso, sentenza del 13 novembre 2014,
Vital Pérez, C‑416/13, EU:C:2014:2371, § 64 e 65)».
Me anche ove così fosse, resta che comunque «si dovrebbe esaminare se i mezzi impiegati per il conseguimento di dette finalità siano appropriati e necessari». Sotto tal profilo, da un lato, la Corte non dispone degli elementi necessari se il limite dei 30 anni sia appropriato e necessario a garantire la formazione dei commissari di polizia, dall’altro, per quanto attiene alla opportunità di garantire un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento, dagli atti risulta che questo avviene all’età di 61 anni, sicché, il limite indicato non pare necessario al fine di garantire ai commissari un periodo congruo di attività prima del pensionamento, sempre che il giudice del rinvio confermi che «le funzioni dei commissari di polizia non comportano essenzialmente compiti impegnativi sul piano fisico che i commissari di polizia assunti a un’età più avanzata non sarebbero in grado di realizzare per un periodo sufficientemente lungo».
Ne consegue che il limite di età esaminato, laddove si verifichi che le funzioni esercitate dai commissari di polizia non richiedano capacità fisiche particolari, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, si presenta sproporzionato rispetto al pur legittimo fine perseguito dalla norma nazionale.
6. Conclusioni
Come si vede, la Corte è ferma nell’applicare il principio di effettività, tenendosi ferma nell’esaminare accuratamente i dati di fatto esposti dal giudice di merito (cui rinvia l’esame in caso di mancanza di indicazioni) sotto tutti profili, ivi compresi quelli allegati dalle parti intervenute nel procedimento e applicando le norme dell’Unione confrontando e comparando attentamente le finalità perseguite dal legislatore europeo e dalla norma nazionale scrutinata al fine di individuare criteri certi sulla base dei quali il giudice nazionale, cui spetta alla fine decidere il contenzioso, disponga di tutti gli elementi per una corretta applicazione del diritto eurounitario.
Si consideri, del resto, che le sentenze della Corte sono destinate ad essere applicate in tutti gli stati membri e, dunque, necessitano della massima chiarezza, senza lasciare ambiti di interpretazione difformi da quella che è la corretta interpretazione della normativa dell’Unione.
La sentenza esaminata pare essere un esempio chiaro di come la Corte di giustizia affronta questo complesso compito, fornendo indicazioni chiare al giudice europeo al fine che possa armonizzare i diritti nazionali con quelli unitari, approfondendo gli scopi e le finalità delle norme europee senza fermarsi ad inutili interpretazioni formalistiche del testo normativo.
Sergio Galleano, avvocato in Milano e Roma
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C. giust., sez. VIIª, 17 novembre 2022, causa C-304/21
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Corte di giustizia, Sezione VII, 17.11.22, C-304/21: discriminatorio limitare l’eccesso al lavoro oltre una certa età in assenza di serie ragioni oggettive sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.