1. Il caso in esame
Con la pronuncia in commento (ordinanza n. 33108 del 10 novembre 2022), la Corte di cassazione, Sezione VI Civile, ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna che aveva confermato il
decisum del Tribunale di Forlì che, a sua volta, aveva disatteso la domanda della lavoratrice che richiedeva il pagamento di mensilità differite.
Il datore di lavoro si era difeso in sede di opposizione a decreto ingiuntivo deducendo l’avvenuto pagamento e offrendo a prova il confronto tra i dati annotati sugli estratti conto bancari e quelli risultanti dalle copie degli assegni prodotti. La produzione di questi ultimi, però, era avvenuta successivamente dopo l’iscrizione a ruolo dell’opposizione a decreto ingiuntivo e, dunque, a detta della lavoratrice, avvenuta tardivamente e quindi avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile.
La Corte, investita della questione con due motivi incentrati sulla asserita violazione degli artt. 416 e 437 (primo motivo, in relazione alla produzione tardiva) e delle stesse norme, sotto un diverso profilo (secondo motivo, concernente la asserita mancata motivazione da parte del Tribunale in merito all’avvenuta attivazione dei poteri officiosi del giudice in merito all’ammissibilità della produzione), li ritiene infondati.
In punto di fatto, nella sentenza si precisa che nel caso specifico «la Corte di appello, con ampia e argomentata motivazione ha dato conto della necessità di intervento mediante utilizzo di poteri istruttori da parte del giudice di primo grado trattandosi di assegni, indicati sin dal ricorso in opposizione, non risultando i documenti nella disponibilità materiale del datore di lavoro il quale, quindi, ha dovuto farne richiesta al traente ed ha indicato l’indispensabilità di essi anche in considerazione della contestazione della lavoratrice».
Tale situazione, secondo la Corte, giustifica il potere istruttorio officioso previsto dagli artt. 421 e 437 cpc secondo i quali l’eventuale decadenza del diritto alla produzione «può essere superata per effetto dell’esercizio, in presenza di condizioni idonee a giustificarlo, del potere istruttorio officioso previsto dagli artt. 421 e 437, secondo comma, cod. proc. civ., che pongono un contemperamento al principio dispositivo, sostenuto dall’esigenza della ricerca della verità materiale cui è ispirato il rito del lavoro (sul punto, Cass. n. 12902 del 2015)».
Più in particolare, si sottolinea che nelle controversie di lavoro – «e soltanto in queste – per la disparità socio economica che vi è sottesa e che si riflette sulla stessa configurazione giuridica del rapporto», permette al giudice del lavoro l’esercizio di poteri più rilevanti che gli consentono di sanare eventuali decadenze (si citano Cass. 12573 del 2020, Cass. 1995 del 2016, Cass. 12210 del 2014) sino a «disporre d’ufficio “in qualsiasi momento” l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dai limiti del codice civile, ad eccezione del solo giuramento decisorio».
Tale facoltà presuppone il solo limite dell’esistenza di una «pista probatoria» dedotta dalle parti «prescindendo quindi da preclusioni e decadenze già verificatesi» (si cita Cass. Sez. un. 17 giugno 1004 n. 11553).
Secondo la Corte, i poteri officiosi del giudice emergono dalla lettura unitaria del primo (sanatoria delle irregolarità degli atti e dei documenti) e secondo (ammissione in ogni momento di ogni mezzo di prova) costituiscono un unicum inscindibile volto «a contemperare il principio dispositivo con la ricerca della verità materiale cui è ispirato il rito del lavoro, per il carattere costituzionale delle situazioni implicate nel rapporto di lavoro, nella previdenza e nell’assistenza sociale» (fra le tante, Cass., n. 18410 del 2013; Cass. n. 13353 del 2012)».
2. I principi generali in tema di poteri officiosi del giudice
Sinteticamente, ricordiamo le regole speciali del processo del lavoro introdotte dalla riforma del 1973 in tema di prova.
L’attività giurisdizionale è caratterizzata dalla decisione di un caso caratterizzato da fatti che devono emergere dalla ricostruzione effettuata nel corso del processo; il che non sempre corrisponde al loro svolgimento reale. Si tratta infatti del noto principio della verità processuale, basata sul principio dell’onere della prova, con la conseguenza che spetta agli attori del processo versare agli atti gli elementi che servono al giudice per ricostruire la vicenda alla quale applicare i principi di diritto e decidere la controversia.
A questa regola, il legislatore del rito del lavoro ha ritenuto di discostarsi in parte, in considerazione della rilevanza sociale e costituzionale delle situazioni che interessano il rapporto di lavoro, privilegiando un rito che risulti finalizzato tendenzialmente alla al perseguimento della verità materiale o, quanto meno, a quella che più si avvicina al reale svolgimento del rapporto (PROTO PISANI,
L’istruzione della causa, pag. 708, in ARIOLI, BARONE, PREZZANO, PROTO PISANI [a cura di], Zanichelli, 1987; CARUSO,
Tutela giurisdizionale, onere della prova, equità processuale, Riv. Giur. Lav., 1982, I, 3 e segg., 163 e segg. e, più recentemente, LIUZZI, DALFINO, Manuale del processo del lavoro, Cacucci, 2021, pag. 83 e segg.).
Ciò si è tradotto in vari interventi, tra i quali, l’accelerazione dei tempi processuali, la comparizione e l’interrogatorio delle parti (che può essere disposto in ogni momento del giudizio) e che ha la finalità di chiarire i dubbi nella ricostruzione dei fatti emergenti dagli atti del giudizio e rendere più diretto il rapporto tra il giudice e le parti in causa.
In secondo luogo è disposto, da un lato, l’obbligo di deduzione di tutti i fatti e dei mezzi di prova nei primi atti delle parti (ricorso introduttivo e memoria di costituzione) al fine di evitare le conseguenze delle insormontabili decadenze, obbligo sanzionato da un rigido sistema di preclusioni e, dall’altro, per contemperare la necessità di velocizzazione del processo, è stata prevista possibilità per il giudice di disporre d’ufficio, i qualsiasi momento (quindi anche successivamente alla prima udienza ed, eventualmente, anche ad istruttoria conclusa) l’ammissione di ogni mezzo di prova, escluso il giuramento decisorio, ove questi si rivelino indispensabili all’accertamento della verità dei fatti, circostanza che è suffragata dall’onere di motivazione sul punto, sia in merito all’avvenuto che al mancato esercizio (Cass. 9 ottobre 2014, n.21315), essendo questo un onere del giudice, soprattutto se sollecitato in proposito dalle parti in causa.
Il giudice del lavoro non può infatti limitarsi a fare applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma è investito di un potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori che si rendono necessari ed opportuni dall’esame del materiale già acquisito in causa e idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione (Cass. Sez. Un. 17 giugno 2004, n.11353).
Ma non solo, tali poteri del giudice: «possono essere esercitati dal giudice in deroga non solo alle regole sulle prove dettate dal codice civile, ma anche alle norme sull’assunzione delle prove dettate per il rito ordinario e quindi, quanto all’esibizione di cose e documenti, a prescindere dall’iniziativa di parte (in deroga all’ art. 210 c.p.c. ) e, quanto alla consulenza tecnica d’ufficio in materia contabile, a prescindere dal consenso di tutte le parti alla consultazione di documenti non precedentemente prodotti (in deroga all’ art. 198 c.p.c.)» (così Cass. 10/12/2019, n.32265).
Ne consegue che la mancata attivazione d’ufficio dei poteri officiosi può costituire un motivo di ricorso per cassazione per violazione dell’art. 421 cpc (Cass. 28.11.2022, n. 34954; Cass. 10.09.2019, n. 22628), ma solo se la parte, nei giudizi di merito, ha svolto istanza in tal senso (Cass. 09/03/2020, n. 6634) e abbia riportato «in ricorso gli atti processuali dai quali emerge l’esistenza di una pista probatoria qualificata, ossia l’esistenza di fatti o mezzi di prova, idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività, rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito, ed allegare, altresì, di avere espressamente e specificamente richiesto tale intervento nel predetto giudizio (Cass., Sez. L, n. 22628 del 10 settembre 2019)» (così Cass. 18.11.22, n. 34043).
Tanto si giustifica poiché occorre «tenere conto del fatto che (…) se infatti al giudice, a ciò sollecitato, è consentito di ricorrere d’ufficio ad approfondimenti istruttori, anche a prescindere dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti, tuttavia deve essere considerato un implicito diniego di una tale evenienza la valutazione fatta dalla Corte delle prove offerte che non arrivavano ad integrare la
semiplena probatio indispensabile per procedere all’ulteriore istruttoria officiosa sollecitata» (Cass. 02/11/2021, n.31043).
Il ricorso ai poteri officiosi del giudice non è peraltro assoluto e senza limiti.
La giurisprudenza ha chiarito, e con ciò ci avviciniamo alla pronuncia in commento, che «l’esercizio dei poteri istruttori del giudice, che può essere utilizzato a prescindere dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti, vede quali presupposti la ricorrenza di una
semiplena probatio e l’individuazione
ex actis di una pista probatoria» (Cass. 23/11/2020, n. 26597).
La Sezioni unite hanno infatti chiarito da tempo che «il rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – dei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse» (SS.UU. 19.11.2014, n. 11353).
Ancora, la Cassazione ha precisato che il ricorso ai mezzi officiosi è possibile non solo in relazione alla necessità di replicare a eccezioni del convenuto in sede di costituzione (soprattutto ove non prevedibili) o a documenti formati o giunti in possesso della parte successivamente al deposito delle difese, ma anche «se i documenti risultino indispensabili per la decisione, cioè necessari per integrare, in definizione di una pista probatoria concretamente emersa, la dimostrazione dell’esistenza o inesistenza di un fatto la cui sussistenza o insussistenza, altrimenti, sarebbe destinata ad essere definita secondo la regola sull’onere della prova» (Cass. 17/12/2019, n.33393).
3. La sentenza in commento
La decisione oggetto della presente breve trattazione applica dunque al meglio i principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità, peraltro attivando i principi officiosi in favore del datore di lavoro, così dimostrando, contrariamente a chi aveva paventato un utilizzo «a senso unico», a favore soprattutto della parte lavoratrice, delle relative facoltà (v. TARZIA,
Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, p.113; ma anche VERDE, in
La disciplina delle prove nei processi del lavoro e del pubblico impiego, in Riv. dir. proc., 1986, p.70 e ss.).
La parte interessata, infatti, si era attivata sin dall’inizio, deducendo l’avvenuto adempimento delle obbligazioni sulle quali era fondata la domanda accolta con il decreto ingiuntivo e producendo tutta la documentazione in suo possesso per contrastare le pretese della controparte.
Non aveva ovviamente potuto produrre, nei tempi ristretti per la proposizione dell’opposizione, le copie fotostatiche degli assegni in possesso dell’istituto bancario e si è attivata per produrle non appena li ha avuti.
Esistevano dunque degli elementi che costituivano una evidente «pista probatoria» che rendevano necessario ed opportuno un approfondimento istruttorio finalizzato a riportare nei binari di un corretto esercizio della giurisdizione, finalizzato a far emergere la verità materiale rispetto a quella processuale che avrebbe portato ad una decisione del tutto astratta dalla realtà fattuale.
Nessun dubbio, quindi, che il giudice del lavoro abbia correttamente attivato i poteri previsti dall’art. 421 cpc, motivando per di più espressamente le ragioni che lo avevano indotto all’utilizzo dei detti poteri.
Ricordiamo, per completezza, che analoghi principi processuali, caratterizzati da regole finalizzate alla speditezza ed alla concentrazione delle attività processuali sono da tempo in vigore nei principali paesi europei (cfr. BOLOGNESI,
Il prudente esercizio dei poteri istruttori officiosi da parte del giudice del lavoro, Iudicium.it, Pacini giuridica, 29.12.2014, in particolare § 6, pag. 16 e segg., ma v. anche il convegno AGI, Roma, 3.11.2022,
Il processo del lavoro: una comparazione tra Italia e Germania, senza contare le recenti modifiche operate dalla riforma Cartabia) sul processo civile in generale.
Tanto si è esposto in linea generale. I principi ricordati presupporrebbero un sistema giudiziario funzionante, il che non è, come tutti possono verificare giornalmente nel nostro paese, sicché, salvo poche e lodevoli eccezioni, in gran parte dei Tribunali italiani, soprattutto nella provincia dell’impero, i procedimenti di lavoro si svolgono con modalità stellarmente diverse dal modello normativo, in assenza non solo della comparizione (e conseguente omesso interrogatorio) delle parti ma, addirittura, con l’audizione dei testi delegata ad un giudice onorario – e da questi meccanicamente eseguita spesso senza neppure conoscere la materia e l’oggetto del giudizio – con buona pace dell’effettiva valutazione della loro testimonianza.
Senza contare la strisciante istituzionalizzazione delle udienze con trattazione scritta, cui molti giudici ricorrono, anche via via scemando le esigenze sanitarie, sebbene non ve ne sia necessità.
L’obiettivo della ricerca della verità materiale è così l’ultimo dei problemi, riducendosi spesso l’attività del giudice, oberato da ruoli soffocanti, a quella, da taluni argutamente definita di “semaforo” che regola le decadenze delle parti al fine di arrivare il più presto possibile alla decisione.
Ma questo è un altro discorso.
Sergio Galleano, avvocato in Milano e Roma
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Cass. civ., sez. VIª, 10 novembre 2022, n. 33108
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Cass. n. 33108/2022: alla ricerca della verità materiale percorrendo la pista probatoria sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.