In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, su questa Rivista vi sono stati nel tempo diversi interventi (gli ultimi in ordine di tempo sono stati: “
Comporto e disabilità. Alcune riflessioni a partire da alcune recenti pronunce milanesi” di G. Mortillaro – 21 marzo 2023;
“Licenziamento per superamento del periodo di comporto: i profili contrattuali e la tutela del lavoratore secondo la Corte di cassazione” di L. Pelliccia – 21 aprile 2023;
“Licenziamento per superamento del comporto e disabilità: nascoste sotto la cenere le braci della discriminazione indiretta” di C. Ogriseg – 29 maggio 2023; sempre su questa Rivista è di prossima pubblicazione una nota di F. Bordoni, a commento di Cass. 31 marzo 2023, n. 9095: a tutti si rinvia per i necessari ed ulteriori riferimenti).
Com’è noto, il comporto (legale) è disciplinato dall’art. 2110 cod. civ., secondo il quale
“In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità.
Nei casi indicati nel comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità. (….).”
Il comporto “contrattuale” (nella sostanza quello che stabilisce la effettiva durata della conservazione del posto di lavoro) è previsto dalla contrattazione collettiva, normalmente nelle sue due tipologie: quello c.d. secco e quello c.d. per sommatoria.
Il datore di lavoro però non può licenziare il lavoratore che si è assentato oltre il periodo di comporto se la malattia si è verificata a causa dell’ambiente di lavoro nocivo, poiché tale evento dipenderebbe in parte dal datore di lavoro che non ha provveduto a prevenire o eliminare il fattore di rischio.
In materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto, la giurisprudenza ha spaziato affrontando anche tematiche per così dire parallele, ad esempio in presenza di una disabilità da parte del lavoratore e, quindi, facendo a volte rientrare detto recesso nell’alveo di quelle situazioni nelle quali il medesimo potrebbe essere soggetto a nullità per discriminazione, ricorsività, ecc.
Con la recente sentenza n. 4332 del 13 febbraio 2023, qui annotata, la Corte di cassazione è tornata ad affrontare il tema in esame in una prospettiva, per così dire, comparata, legandolo alle più specifiche previsioni della contrattazione collettiva e fissando dei criteri direttivi per il giudice del merito.
Il fatto
In sede di appello l’adita Corte territoriale aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, condannando la società datrice alla reintegra di una lavoratrice (così riformando la sentenza di primo grado, che, in esito a rito Fornero, ne aveva invece rigettato l’impugnazione ritenendolo legittimo).
Incontestato il numero dei giorni di assenza della lavoratrice nel triennio di riferimento, il collegio di merito, anche sul punto in contrario avviso del giudice di
prime cure, ha interpretato l’art. 51 del CCNL 31.05.2011 per il personale dipendente da imprese di servizi di pulizia e servizi integrati (multiservizi), nel senso di non computabilità del periodo di malattia per infortunio sul lavoro e comportante la protrazione della sua assenza, indipendentemente dall’accertamento di una responsabilità datoriale, così da non superare il previsto periodo di comporto di dodici mesi.
Da qui il ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
Per quanto rileva in questa sede, è interessante analizzare il terzo motivo di ricorso con il quale era stata dedotta la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg., 2110 cod. civ. in relazione all’interpretazione dell’art. 51 del Ccnl per il personale dipendente da imprese di servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi, per avere la Corte territoriale ritenuto le assenze per infortunio della lavoratrice non computabili nel periodo di comporto, così non osservando i criteri ermeneutici di letteralità (
per essere sia la malattia che l’infortunio compresi nella generale categoria dell’infermità), ma anche logico-sistematico, in assenza di un’espressa disciplina di esclusione dell’infortunio sul lavoro, non dipendente da responsabilità datoriale ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., in contrasto con la disciplina legale a tutela della libertà di iniziativa economica datoriale dall’eccessiva morbilità del lavoratore.
Motivo ritenuto però infondato dal collegio di legittimità che è partito dal punto di diritto (consolidato in sede di legittimità) secondo il quale:
“ai fini della tutela predisposta dall’art. 2110 c.c., l’infortunio sul lavoro deve essere equiparato alla malattia, senza che l’eventuale diversità dei rispettivi sistemi di accertamento sia di ostacolo a una loro considerazione unitaria a opera della contrattazione collettiva ai fini della determinazione del periodo di comporto per sommatoria … ”.
Più nello specifico, nessuna norma imperativa vieta che disposizioni collettive escludano dal computo delle assenze ai fini del cosiddetto periodo di comporto
ex art. 2110 cod. civ. quelle dovute a infortuni sul lavoro, né tale esclusione (che è ragionevole e conforme al principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell’attività lavorativa espletata) incontra limiti nella stessa disposizione che, se da un lato, lascia ampia libertà all’autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo, dall’altro non può intendersi preclusiva di una delle forme di uso di tale libertà, qual è quella di delineare la sfera di rilevanza delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi.
La medesima giurisprudenza di legittimità ha anche affermato che
“nei casi in cui la contrattazione collettiva di categoria prevede nella lettera di alcune sue clausole un unico termine di comporto con riferimento sia alle assenze che all’infortunio, il giudice di merito deve accertare – all’esito di una interpretazione logico-sistematica di tutte le clausole che regolano l’istituto – se siano rinvenibili o meno nell’ambito della predetta contrattazione elementi sufficienti di identificazione di una volontà delle parti negoziali volta a fissare una indifferenziata disciplina, con la fissazione di un unico termine congruo di comporto (da valutarsi anche con riferimento alla specificità dell’attività spiegata dal datore di lavoro), sia per le assenze che per gli infortuni o se, di contro, siano riscontrabili, all’interno della stessa contrattazione, elementi che attestino una diversa volontà e che siano anche sufficienti all’individuazione di termini di comporto differenziati in ragione della causa delle assenze (se derivanti o meno da infortunio) e di quella degli infortuni (se verificatisi o meno sul lavoro).”
E allora, solamente nell’eventualità che si riscontri un’assoluta carenza di disciplina pattizia, il giudice del merito può determinare, secondo equità, il periodo di comporto per sommatoria, tenendo conto, in concreto, della causa dell’assenza dal lavoro e, quindi, del fatto che detta assenza sia imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata, al fine proprio di differenziare i termini di comporto e di determinare la durata del comporto per sommatoria in ragione della diversa causale delle assenze dal lavoro (v.,
amplius, Cass. n. 14377/2012, in motivazione da 9 a 11; Cass. n. 2527/2020, in motivazione
sub p.to 6).
Sul punto l’art. 51 del richiamato Ccnl (rubricato “Trattamento di malattia e infortunio”), stabilisce:
“Il diritto alla conservazione del posto viene a cessare qualora il lavoratore anche con più periodi di infermità raggiunga in complesso 12 mesi di assenza nell’arco di 36 mesi consecutivi. Ai fini del trattamento di cui sopra si procede al cumulo dei periodi di assenza per malattia verificatisi nell’arco temporale degli ultimi 36 mesi consecutivi che precedono l’ultimo giorno di malattia considerato” (sesto comma);
“La disposizione di cui al precedente comma vale anche se i 36 mesi consecutivi sono stati raggiunti attraverso più rapporti di lavoro consecutivi nel settore” (settimo comma);
“A tal fine il datore di lavoro è obbligato, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, a rilasciare una dichiarazione di responsabilità, dalla quale risulti il numero di giornate di malattia indennizzate nei periodi di lavoro precedenti sino a un massimo di tre anni” (ottavo comma);
“Superati i limiti di conservazione del posto, l’azienda su richiesta del lavoratore concederà un periodo di aspettativa non superiore a 4 mesi, durante il quale il rapporto rimane sospeso a tutti gli effetti senza decorrenza della retribuzione e di alcun istituto contrattuale” (nono comma).
Ad avviso della sentenza in comento, in applicazione dei canoni ermeneutici rubricati alle disposizioni codicistiche denunciate, da utilizzare come criterio interpretativo diretto in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 6335/2014; Cass. n. 18946/2014; Cass. n. 13265/2018; Cass. n. 29893/2019; Cass. n. 9583/2021) e pertanto nel combinato disposto con l’art. 1362 cod. civ., di rispetto del tenore letterale delle disposizioni contrattuali collettive in esame in funzione della ricerca della comune intenzione delle parti, in particolare con il criterio logico–sistematico del successivo art. 1363 (che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole – v. Cass. n. 20294/2019; Cass. n. 30478/2021, in motivazione
sub p.to 2 – secondo una loro lettura non “atomistica”, ma coordinando le varie espressioni fra loro e riconducendole ad armonica unità e concordanza -v. Cass. n. 8876/2006; Cass. n. 2267/2018; Cass. n. 29893/2019, in motivazione
sub p.to 3-), l’art. 51 del Ccnl del 2011 Multiservizi, deve essere interpretato nel senso
della non computabilità della durata di interruzione del rapporto per infortunio sul lavoro nel periodo di comporto di dodici mesi.
La decisione in commento rafforza questa lettura in un
“armonico e coerente coordinamento logico–sistematico delle pur chiare espressioni letterali di ogni clausola contrattuale, letta in combinazione con le altre, nel senso della inequivoca divaricazione degli effetti dei diversi eventi patologici della malattia
e dell’infortunio
(non soltanto sul trattamento economico, alla stregua di dato sintomatico, ma) sul rapporto
di lavoro nella sua integralità: nel primo caso, il superamento dei limiti di conservazione del posto ne comporta la cessazione ovvero, per il periodo di aspettativa non superiore a quattro mesi eventualmente richiesto dal lavoratore e concesso dal datore, la sospensione
a tutti gli effetti, sia di prestazione lavorativa che di corrispettività retributiva; nel secondo caso, la corresponsione integrale della retribuzione fino alla guarigione clinica, permanendone l’obbligazione a carico del datore di lavoro pur in assenza della controprestazione lavorativa, condizionata alla guarigione clinica, ne comporta al contrario la continuità
giuridica.”
Luigi Pelliccia, avvocato in Siena
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Cass., 13 febbraio 2023, n. 4332
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Il valore delle clausole sul periodo di comporto e gli oneri di interpretazione da parte del giudice di merito sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.