La fonte legislativa che regola il procedimento disciplinare dei professori e ricercatori delle università italiane risiede nell’art. 10 della l. 30/12/2010 n. 240 e smi. Trattandosi di rapporti di lavoro rimasti esclusi dalla contrattualizzazione del pubblico impiego, avviata nel 1992, la materia è assoggettata al diritto amministrativo per cui, laddove non vi sia una disposizione legislativa speciale, ai procedimenti si applicano le disposizioni di cui alla l. 07/08/1990 n. 241 e smi, laddove compatibili. Tanto vale anche per i professori e ricercatori delle università libere (TAR Lazio, Roma, sez. III, sent. 13/12/2021, n. 12845; TRGA, Bolzano, sent. 02/04/2019, n. 89).
Per quanto attiene agli aspetti sostanziali della responsabilità disciplinare, le fonti di riferimento restano il r.d. 31/08/1933 n. 1592, la l. 18/03/1958 n. 311 e marginalmente il d.P.R. 10/01/1957 n. 3, per quanto compatibili.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza annotata (Sezione Settima, 9 febbraio 2023,n.1426) conferma che, di conseguenza, non trovano applicazione le disposizioni, procedurali e sostanziali, contenute nel d.lgs. 30/03/2001 n. 165 e smi (Cons. Stato, sez. III, sent. 02/02/2015 n. 485 e 19/06/2018 n. 3741).
Riguardo alla natura dei termini di scansione delle fasi procedimentali indicati nel citato art. 10 della l. n. 240/2010, la sentenza conferma l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui i termini relativi alla fase istruttoria precedente al momento di avvio del procedimento disciplinare, coincidente con la comunicazione della contestazione degli addebiti, devono considerarsi ordinatori, tenuto conto che il legislatore non li qualifica espressamente come perentori e che la fase precedente alla contestazione degli addebiti non può giuridicamente equipararsi a quella ad essa successiva, potendosi riconoscere natura procedimentale soltanto a quest’ultima (cfr., proprio con riguardo alle disposizioni di cui all’art. 10 della L. n. 240/2010, Cons. Stato, sez. VI, 12/04/2019, n. 2379).
In tal senso si pone anche Cons. Stato, sez. VII, sent. 09/03/2023, n. 2519. Il summenzionato art. 10, comma 5, della legge n. 240/2010 prevede che l’atto finale e conclusivo del procedimento debba essere emanato perentoriamente entro il termine di 180 giorni dal relativo avvio, ma non prevede, invece, che entro tale termine l’atto debba essere conosciuto dal destinatario, rispetto al quale, ai fini della eventuale impugnazione, il termine decorrerà del giorno della effettiva conoscenza, con conseguente effettività e pienezza della tutela delle sue situazioni giuridiche (Cons. Stato, sez. VII, sent. 16/11/2022, n. 10096).
Tuttavia, v’è da riconoscere che una parte della giurisprudenza ha invece considerato perentorio anche il termine di 30 giorni per l’avvio del procedimento disciplinare da parte del rettore, decorrente dalla notizia del fatto o dalla conoscenza della sentenza penale, e da effettuarsi mediante la contestazione all’intimato degli addebiti disciplinari (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. III, sent. 04/11/2016, n. 2024; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, sent. 06/02/2023, n. 110). Tale perentorietà sarebbe coerente con quella stabilita dalla legislazione per i procedimenti disciplinari a carico del personale contrattualizzato, disciplinata dal citato d.lgs. n. 165/2001.
Per quello che riguarda poi i contenuti della
notitia criminis disciplinare idonea a determinare la decorrenza del termine di contestazione, la giurisprudenza ha rilevato che «l’inizio dell’azione disciplinare deve collegarsi non a qualsivoglia e generica conoscenza di fatti che possano essere in astratto qualificati come illeciti disciplinari, ma richiede una completa ed esauriente cognizione delle condizioni di ambiente e di lavoro in cui si è verificata la condotta suscettibile di sanzione, nonché un preliminare “iter” valutativo sulla sua riconduzione in talune delle numerose ipotesi di illecito prefigurate dal codice disciplinare.
Si tratta di regola di garanzia non solo dell’ufficio che esercita l’azione disciplinare – che non deve essere esposto a contestazione per la genericità degli addebiti ascritti – ma dello stesso inquisito che deve essere posto in condizione di esercitare il diritto di difesa su un ben definito quadro accusatorio (vedi Consiglio di Stato, sez. VI, 30/05/2008, n. 2599)» (TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 20 novembre 2018, n. 2406). La conoscenza deve riferirsi all’ateneo-ente e non necessariamente alla specifica posizione del Rettore-ufficio, se costui ne venga a conoscenza successivamente all’ateneo (TAR Toscana, sez. I, sent. 15/10/2019, n. 1356).
Riguardo alla utilizzabilità nel procedimento disciplinare delle risultanze del processo penale sui medesimi fatti, la sentenza tratta della sentenza di proscioglimento in appello per intervenuta prescrizione che, dunque, ha prodotto effetti favorevoli al dipendente, ancorché non con piena formula assolutoria. Viene ribadita l’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale che tuttavia non preclude all’autorità disciplinare di prendere in considerazione quanto accertato dal giudice penale, ancorché l’esito sia stato poi il proscioglimento, quando tale sentenza abbia comunque confermato le statuizioni civili risarcitorie a carico del dipendente autore dei reati (dichiarati prescritti).
Pertanto, il Collegio di disciplina di ateneo ben può assumere quei “fatti”, che non hanno condotto a condanna penale per intervenuta prescrizione del reato, per valutare se la condotta dell’incolpato sia rilevante sul piano disciplinare, ossia se risulti idonea a compromettere il rapporto di fiducia fra le parti e a vulnerare l’immagine e la serietà dell’amministrazione di appartenenza. Per l’efficacia della sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto, in seguito a dibattimento, si applica l’art. 651-bis cpp.
Una riflessione conclusiva riguarda la sentenza di patteggiamento di cui all’art 444 cpp. A seguito della entrata in vigore della “riforma Cartabia” (d.lgs. 10/10/2022, n. 150) è stato riscritto il comma 1-bis nell’art. 445 cpp che ha profondamente modificato l’equiparazione della sentenza di patteggiamento a una pronuncia di condanna. Andando oltre quanto previsto nella versione precedente del comma, diversamente da quanto stabilito dall’art. 653, comma 1-bis, cpp, tale sentenza,
“anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
Massimo Asaro, dottore di ricerca in diritto pubblico, comparato e internazionale e primo tecnologo di ente pubblico di ricerca
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Cons. Stato, sez. VIIª, 9 febbraio 2023, n. 1426
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Professori e ricercatori universitari: i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.