In un caso di accertamento giudiziario del prolungato demansionamento di un dipendente e di condotte assimilabili al mobbing, i giudici di merito, avevano accolto parzialmente il ricorso, riconoscendo la domanda di demansionamento ma non il mobbing e condannando il datore di lavoro alla reintegra del dipendente nelle mansioni corrispondenti all’inquadramento posseduto ed al risarcimento del danno biologico. Nello specifico è stato ritenuto insussistente il mobbing ed il danno alla professionalità, per la mancata specificazione, da parte del lavoratore, del bagaglio professionale perduto e dei corsi di aggiornamento rifiutati, che gli avrebbero consentito di accrescere le competenze.
Il dipendente ricorreva in cassazione, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1218 e 2087 cc in relazione all’art. 2059 cc.
La Cassazione, con l’ordinanza n. 3692 del 7 febbraio 2023, in commento, accogliendo il ricorso del lavoratore, censura il ragionamento dei giudici di merito, rilevando che il danno professionale può essere dimostrato anche in via presuntiva e che, nel caso di specie, l’accertamento degli elementi allegati e provati (l’elevato contenuto professionale dei compiti svolti sino al demansionamento; la prolungata e ingiustificata emarginazione, il mancato invio a corsi di formazione e soprattutto la pressoché totale inoperosità in cui era stato lasciato il dipendente) erano senz’altro idonei a presumere in maniera univoca il degrado della professionalità acquisita. Quanto al mobbing, la Corte riconosce la ricorrenza della minore ipotesi di atti di persecuzione compiuti o tollerati colposamente, riconducendo anch’essi alla violazione dell’art. 2087 cod. civ., con possibile lesione della salute della vittima.
La suprema Corte afferma in particolare che lo svuotamento di mansioni e lo svilimento dei compiti assegnati al dipendente, che vengano ricondotti ad attività meramente esecutive prive di autonomia, nonché la sussistenza di altre circostanze, quali: la rilevanza dei compiti svolti in precedenza; la durata del demansionamento; l’obsolescenza delle conoscenze e competenze professionali ostativa alla possibilità di aggiudicarsi premi di produttività ed allo stesso tempo l’esclusione dalla partecipazione a corsi di aggiornamento professionale rappresenta una deduzione presuntiva giuridicamente valida relativamente al demansionamento.
Tale comportamento del datore di lavoro non solo viola l’art. 2103 c.c., ma comporta anche la lesione del diritto al lavoro costituzionalmente garantito.
Il lavoro rappresenta, infatti, un mezzo di estrinsecazione della personalità del cittadino e dell’immagine e professionalità del lavoratore, pertanto, il demansionamento prolungato comporta una lesione del bene immateriale della dignità professionalità, da intendersi quale esigenza umana di manifestare la propria utilità, con conseguenti riflessi sulla vita sociale e di relazione di chi la subisce che producono automaticamente un danno non economico, ma comunque rilevante sul piano patrimoniale, suscettibile di valutazione e risarcimento, anche in via equitativa.
Più in particolare la Corte osserva che, nel caso in esame, non si trattava di riconoscere un danno alla professionalità per il solo fatto del demansionamento ma di valutare tutti gli elementi allegati quali elementi utili ai fini della prova, anche presuntiva, della lesione al diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità sul luogo di lavoro (art. 1, 2 Cost.,) e di degrado della professionalità acquisita e dei conseguenti riflessi sulla sua vita sociale e di relazione.
Relativamente al mobbing denunciato con il secondo motivo di ricorso, realizzatosi attraverso una condotta sistematica e protratta nel tempo che aveva finito per assumere una forma di prevaricazione e persecuzione psicologica, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il motivo, non riconoscendolo tuttavia
tout court ed osservando, più in generale, che è configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento, imputabile anche solo per colpa, che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.); nella specie la corte territoriale avrebbe dovuto indagare l’esistenza di una situazione lavorativa conflittuale di stress dì forzato nella quale il ricorrente avesse subito azioni ostili, anche se limitate nel numero ed in parte distanziate nel tempo, ma tali comunque da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente della situazione lavorativa, atta ad incidere sul suo diritto alla salute, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare non solo una privazione delle mansioni, come nel caso di specie, ma anche situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.
Sulla dequalificazione professionale e mobbing si veda Cass. Civ. del 04.11.21 n. 31558 secondo la quale: “
L’assegnazione a mansioni inferiori rappresenta poi, fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Innanzitutto, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (vedi Cass. 10/6/2004 n. 11045).
Invero la violazione dell’art. 2103 c.c., può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro. Inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti […].
Dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli competono; la lesione di tale posizione giuridica soggettiva ha attitudine generatrice di danni anche a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso.
Orbene, dal compendio dei principi sin qui enunciati, si deduce che, in subiecta materia, ci si trova al cospetto di interessi sottesi ai limiti all’esercizio dello jus variandi datoriale, di natura non disponibile, ed alla violazione di diritti tutelati da norme di rango costituzionale, il che impone di ritenere che la reintegrazione della situazione giuridica lesa debba essere piena, integrale, dovendo estendersi a tutto il periodo nel corso del quale si è protratta la condotta contra jus posta in essere dalla parte datoriale; in tal senso ben si comprende come il protrarsi del tempo di una situazione illegittima quale il demansionamento del lavoratore non possa essere inteso semplicemente come acquiescenza alla situazione imposta dal datore di lavoro” (cfr. Cass. 13/6/2014 n.13485).
Tali argomentazioni sembrano del tutto condivisibili, laddove all’interno dell’ambiente di lavoro occorre porre attenzione a tutti quei comportamenti che possono indurre disagi o causare stress al lavoratore, comportamenti da considerarsi singolarmente o da connettersi ad altri comportamenti inadempienti.
Sul tema si veda Cass., (ord.) 11/11/22 n. 33428, secondo la quale “
il giudice, anche qualora accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo a configurare un’ipotesi di mobbing, è comunque tenuto a valutare se possa presuntivamente ritenersi sussistente il più tenue danno da straining”, intendendo con tale termine la sussistenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, o anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, di mantenere un ambiente che sia fonte di danno alla salute dei lavoratori.
È quanto enunciato dalla Corte di Cassazione che, nel cassare la sentenza dei giudici di merito (App. Genova 29 gennaio 2018), ha accolto il ricorso di un lavoratore, un informatore scientifico del farmaco, che lamentava di aver subito un grave demansionamento e di essere stato vittima di continue vessazioni da parte di un proprio superiore.
Al riguardo la Cassazione ha precisato che:
è configurabile il mobbing ove “ricorra l’elemento oggettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intento persecutorio nei confronti della vittima, ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento” (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684); di contro, si configura lo straining quando “vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164, con nota di M. BONI) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844, con nota di P. PIZZUTI), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori” (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291, con nota di F. ALBINIANO); entrambe le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale, non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’obbligo datoriale di protezione sancito dall’ 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 3291/16 cit).
Più specificamente, in materia di straining, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative stressogene e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (in tal senso Cass. n. 18164/2018 cit.); inoltre, in virtù dell’obbligo datoriale di protezione di cui all’art. 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’art. 2103 c.c., bisogna ricomprendere anche il dovere di tutelare i dipendenti da tecnopatie dovute a costrittività organizzativa all’interno del perimetro rappresentato dal complessivo dovere di tutela della salute, anche psichica.
Alla luce delle argomentazioni suindicate sembra che la giurisprudenza in materia sia in continua evoluzione al fine di riconoscere sempre maggiore tutela all’equilibrio psico fisico del lavoratore all’interno dell’ambiente di lavoro e ad evitare dinamiche relazioni disfunzionali, lesive della dignità e della professionalità del lavoratore.
Claudia Grassi, avvocato in Roma
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Cass., ordinanza 7 febbraio 2023, n. 3692
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Rivista Labor - Pacini Giuridica.