Con l’ordinanza n. 38029 del 29 dicembre 2022, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul recesso per mancato superamento del periodo di prova intimato ad un lavoratore in precedenza somministrato. La Suprema Corte nel confermare la sentenza di appello si è soffermata altresì sul riparto dell’onere della prova circa i requisiti dimensionali per l’applicabilità delle tutele di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
La vicenda portata all’attenzione della Corte di Cassazione trae origine dal licenziamento intimato durante il periodo di prova ad un lavoratore, il quale era stato assunto con un contratto di lavoro a tempo indeterminato per svolgere le medesime mansioni in precedenza assegnategli nell’ambito di un rapporto di somministrazione e che vedeva il datore di lavoro recedente quale soggetto utilizzatore.
La Corte di Appello di Roma, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento (con conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 St. Lav.
ratione temporis vigente) statuendo che il positivo superamento della prova doveva evincersi dalla circostanza che l’assunzione del lavoratore era avvenuta nelle medesime mansioni svolte in precedenza nell’ambito del rapporto di lavoro somministrato rispetto al quale il datore di lavoro recedente aveva, comunque, esercitato il potere di direzione e controllo.
Come è noto, sotto il profilo causale, la funzione del patto di prova è quella di consentire alle parti di valutare la reciproca convenienza del rapporto di lavoro.
Sul punto, la Suprema Corte – anche con l’ordinanza in commento – ha ribadito il principio secondo cui «
la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono saggiare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, verificando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto» (così Cass. civ., Sez. Lav., 9 marzo 2020, n. 6633).
Nella prassi, talvolta può accadere che tra le medesime parti intercorrano, seppur in periodi diversi, più rapporti di lavoro in forza di contratti differenti, sicché potrebbe verificarsi l’esigenza di ripetere l’esperimento.
Sulla reiterazione del periodo di prova è intervenuto di recente il legislatore con l’art. 7, del D.lgs. 27 giugno 2022, n. 104, c.d. “Decreto Trasparenza”, rubricato “
Durata massima del periodo di prova”, ove è previsto espressamente al secondo periodo del comma 2° che «
In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova».
Sebbene tale divieto sia previsto in un capoverso che sembrerebbe fare riferimento al solo contratto di lavoro a tempo determinato (cfr. «
Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego»)
, non vi sono ragioni per escludere che il predetto divieto trovi applicazione anche in caso di successione di contratti aventi natura differente. Un argomento che depone in tal senso è rappresentato dallo stesso tenore letterale della norma, la quale fa riferimento al “rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni” senza specificare la natura a tempo determinato o meno del contratto.
Invero, sulla ripetibilità del periodo di prova si è pronunciata in più occasioni la giurisprudenza di legittimità la quale ha ritenuto legittima la ripetizione del patto di prova in caso di successione di contratti di lavoro tra le medesime parti allorquando «
vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute» (così Cass. civ., Sez. Lav., 17 luglio 2015, n. 15059, nel medesimo senso si vedano Cass. civ., Sez. Lav. 21 aprile 2020, n. 7984; 12 settembre 2019, n. 22809; 6 novembre 2018, n. 28252).
Sulla scorta di questo principio, è stata ritenuta legittima l’apposizione di un patto di prova ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato in cui prevedeva lo svolgimento delle mansioni di portalettere nel territorio del Veneto e che era stato preceduto da ben quattro contratti a tempo determinato nell’ambito dei quali la lavoratrice aveva eseguito le medesime mansioni nel territorio del Lazio. In tale precedente, la Suprema Corte ha considerato la distanza della nuova sede di lavoro rispetto al luogo di residenza della lavoratrice (la quale avrebbe comportato la necessità per la stessa di trasferirsi e, quindi, un “radicale cambiamento di vita”) un elemento idoneo a giustificare una nuova verifica della convenienza del contratto (cfr. Cass. civ., Sez. Lav, 3 luglio 2017, n.13672).
Di converso, in assenza di una specifica esigenza di verificare ulteriormente le caratteristiche del lavoratore (quali il comportamento e la personalità dello stesso in relazione all’adempimento della prestazione) che non attenga alle mere qualità professionali (il cui onere della prova circa la stessa ricade sul datore di lavoro Cass. 10440 del 2012), è stato più volte ribadito il principio secondo cui deve ritenersi nullo il patto di prova apposto al secondo contratto laddove la prova riguardi le medesime mansioni già espletate dal lavoratore in costanza del primo contratto di lavoro (così Cass. civ., Sez. Lav., 21 marzo 2017, n.7167; nel medesimo senso, Cass. 15059/2015 con cui è stata confermata la nullità del patto di prova apposto ad un contratto a tempo indeterminato stipulato il giorno seguente la scadenza dell’ultimo di quattro contratti a termine, aventi ad oggetto mansioni analoghe, in carenza di esigenze di ulteriore sperimentazione dell’affidabilità professionale del lavoratore; Cass. civ., Sez. Lav, 5 marzo 2015, n. 4466, nella fattispecie, la società aveva già avuto modo di valutare – in occasione di tre precedenti rapporti a tempo determinato, sempre relativi alle mansioni di portalettere – la personalità e le capacità professionali della lavoratrice).
Sempre sulla scorta di tale principio, è stato dichiarato nullo il patto di prova apposto ad un contratto di lavoro stipulato a seguito di subentro in un appalto, anche laddove l’esperimento era già avvenuto con esito positivo nell’ambito del precedente rapporto di lavoro con il datore di lavoro-appaltatore titolare del contratto di appalto, e ciò a prescindere dalla denominazione delle mansioni (così Cass. civ., Sez. Lav, 1° settembre 2015, n. 17371)
La giurisprudenza ha ritenuto illegittima l’apposizione del patto di prova anche in caso di successione, tra le medesime parti, di contratti di lavoro di diversa natura (si veda Cass. civ., Sez. Lav. lav., 29 luglio 2005, n. 15960).
Proprio nel solco di tale orientamento si inserisce l’ordinanza in commento con la quale Corte di Cassazione
ha ritenuto corretta la valutazione operata dai giudici di merito circa la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro a tempo indeterminato preceduto da un contratto di somministrazione a tempo determinato che vedeva il datore di lavoro quale soggetto utilizzatore e nell’ambito del quale il lavoratore era stato adibito alle medesime mansioni, peraltro, superando positivamente il periodo di prova ivi previsto (si vedano nello stesso senso, Trib. Verona 19 marzo 2014, n. 111, in GLav., 2014, n. 30, 37 e Tribunale di Milano, sentenza n. 2146 dell’11 agosto 2017).
A fronte della nullità del patto di prova, la Suprema Corte – richiamando l’orientamento già espresso con la sentenza n. 11791 del 12 settembre 2016 – ha confermato che «
il licenziamento intimato ad nutum sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova è da considerarsi affetto da nullità, risultando di conseguenza applicabile il regime di tutela (reale od obbligatoria) correlato ai requisiti dimensionali dell’azienda cui era addetto il prestatore di lavoro».
Quanto all’onere della prova circa i requisiti dimensionali per l’individuazione della tutela applicabile rispetto al licenziamento ritenuto invalido, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare le dimensioni dell’impresa e questo poiché – prosegue la Corte di Cassazione – «
sono fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento, esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 St. Lav., costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi che devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. L’assolvimento di un siffatto onere probatorio consente a quest’ultimo di dimostrare, ex art. 1218 c.c., che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il
suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio da lui esercitato al risarcimento pecuniario, perseguendo, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa».
Nella fattispecie al vaglio della Suprema Corte, il datore di lavoro non aveva dimostrato, né ancor prima allegato, il “fatto impeditivo” del non superamento dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 St. Lav. e conseguentemente è stata disposta la tutela reintegratoria prevista da tale norma nella versione
ratione temporis applicabile (antecedente alla c.d. Riforma Fornero).
Quanto alla tutela applicabile rispetto al licenziamento in prova ritenuto illegittimo in conseguenza della nullità del patto di prova, in caso di lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, la Suprema Corte ha ritenuto applicabile della tutela reintegratoria e risarcitoria (con il tetto delle dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) prevista dall’art. 18, comma 4, St. Lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, in quanto «
il richiamo al mancato superamento di un patto di prova non validamente apposto è inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento» (così, Cass. civ., Sez. Lav. lav., 3 agosto 2016, n. 16214).
Quanto, invece, ai lavoratori nei confronti dei quali trova applicazione il D.lgs. 23/2015, c.d. Jobs Act, si è di recente pronunciata la Corte d’Appello di Milano la quale ha ritenuto applicabile la tutela reintegratoria “piena” di cui all’art. 2 del D.lgs. 23/2015 sulla base dell’assunto che il recesso in prova in presenza di un patto di prova nullo deve ritenersi “
nullo perché contrario alla norma imperativa dell’art.1 L.n.604/1966, ai sensi dell’art.1418 I comma c.c.”, di contro non sarebbe applicabile la tutela reintegratoria e risarcitoria attenuata di cui all’art. 3 del D.lgs. 23/2015 in quanto tale disposizione avrebbe “un ambito di applicazione specifico e tassativo, riferibile ai soli licenziamenti comminati per un – asserito- giustificato motivo o una –asserita- giusta causa, ovvero con riferimento ad un vizio dei presupposti descritti dall’art. 3 L.604/66.” (così, Corte d’Appello di Milano, sentenza 21 novembre 2022, n. 759, nonché si veda Corte d’Appello di Milano, sentenza 6 marzo 2023, n. 1229).
Andrea Russo, avvocato in Milano
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Cass., ordinanza 29 dicembre 2022, n. 38029
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Reiterazione della prova del lavoratore in precedenza somministrato e onere della prova circa i requisiti dimensionali per l’applicabilità dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.