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licenziamento-per-superamento-del-comporto-e-disabilita-nascoste-sotto-la-cenere-le-braci-della-discriminazione-indiretta
È recente la conferma degli ermellini che la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità è in grado di “trasformare” una causale di licenziamento, come il superamento del periodo di comporto (art.2110 c.c.), da apparentemente neutra a discriminatoria («Cass., 31 marzo 2023, n. 9095» di prossima pubblicazione in Labor, www.rivistalabor.it, con nota di BORDONI). Per gruppi sociali “protetti” in quanto in posizione di svantaggio, persiste quindi il rischio che il licenziamento celi “braci” di discriminatorietà in grado di “incendiare” il recesso. Spetterà ai giudici di merito valutare. Mantengono pertanto interesse le pronunce in commento in cui i Giudici valutano e accertano la discriminatorietà di licenziamenti per superamento del periodo di comporto (art. 2110 c.c.) di personale “protetto” perché disabile e assunto ai sensi della legge n.68/1999 («Tribunale di Parma, 9 gennaio 2023, n.1») oppure perché affetto da malattia cronica continuativa (come la coxartrosi: «Corte d’Appello di Milano, 9 dicembre 2022,n. 1128» o la sclerosi multipla: «Corte d’Appello di Napoli, 17 gennaio 2023,n. 168»). I primi tentativi giurisprudenziali di testare “l’infiammabilità” dei licenziamenti per superamento del periodo di comporto risalgono a qualche fa anno: la Corte di Giustizia è stata il “mantice” che ha consentito ai Tribunali del lavoro di attivare “la combustione” di “braci di discriminazione” nascoste sotto la cenere. In effetti, licenziare per il raggiungimento di una soglia di assenze predefinita dalla contrattazione collettiva pareva una scelta “neutra”. La norma contenuta nel codice civile italiano (art.2110 c.c.), nel regolare il recesso dal contratto di lavoro dovuto al protrarsi delle assenze, lascia alla contrattazione collettiva il compito di quantificarne il periodo massimo. Il dubbio che il meccanismo codificato nell’art.2110 c.c. potesse generare una disparità di trattamento tra persone disabili e gli altri lavoratori si deve ai Giudici di Lussemburgo e alla elaborazione del c.d. modello bio – psico – sociale di disabilità. Utilizzando come parametro interpretativo la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, ratificata dalla stessa Unione Europea, la disabilità ha iniziato ad essere considerata come un fatto sociale, determinato dalla interazione reciproca tra individuo e ambiente, insuscettibile di essere ricondotta solo nell’ambito di stringenti categorie di tipo biomedico («C. Giust., 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, HK Danmark»; «C. Giust., 1° dicembre 2016, C-395/15, Mohamed Daouidi c. Bootes Plus SL, Fondo de Garantía Salarial, Ministerio Fiscal»). Il superamento del comporto, da causale speciale, oggettiva unica condizione necessaria e sufficiente a legittimare il licenziamento “a norma dell’art. 2118 c.c.” (art.2110, co.2 c.c.), assimilabile a quella del giustificato motivo oggettivo («Cass. civ., sez. lav., 3 maggio 2016, n. 8707») è diventata una causale “a rischio discriminazione” attesa la maggior esposizione dei disabili al rischio di contrarre patologie causalmente connesse con la loro disabilità. In effetti, l’art.2110 c.c. non prevede alcun obbligo per la contrattazione di adottare meccanismi di adattamento in presenza di malattie croniche continuative e/o connesse a uno stato di disabilità/invalidità. Questi dubbi non hanno riguardato solo il contesto normativo presente in Italia. In Spagna una norma simile (anche se non coincidente a quella dell’art.2110 c.c.) ha originato un contenzioso giunto all’attenzione della Corte di Giustizia («C. Giust., 18 gennaio 2018, C-270/2016»). Nel 2016 il Giudice spagnolo rinviava alla CGE la questione della corretta interpretazione dell’art.52 dello Statuto dei lavoratori spagnolo, relativo alla cessazione del contratto per cause oggettive, in cui si disponeva, al suo punto d): «Il rapporto di lavoro può cessare: (…) d) per assenze intermittenti dal lavoro, sebbene giustificate, che ammontino al 20% dei giorni feriali in due mesi consecutivi sempre che il totale delle assenze dal lavoro nei dodici mesi precedenti sia pari al 5% dei giorni feriali, o al 25% in quattro mesi non continuativi nel corso di un periodo di dodici mesi. Ai fini del paragrafo precedente non rientrano nel computo delle assenze dal lavoro le assenze dovute a sciopero legittimo per la durata dello stesso, lo svolgimento di attività di rappresentanza sindacale dei lavoratori, infortunio sul lavoro, maternità, rischio nel corso di gravidanza e allattamento, malattie determinate da gravidanza, parto o allattamento, paternità, congedi e ferie, malattia o infortunio non verificatosi sul lavoro quando l’assenza sia stata concessa dai servizi sanitari ufficiali [pubblici] e abbia una durata superiore a venti giorni consecutivi, né le assenze motivate dalla situazione fisica o psicologica conseguente a violenza di genere, certificata dai servizi sociali competenti o dai servizi sanitari, a seconda dei casi. Non si computano neanche le assenze dovute ad una terapia medica per cancro o grave patologia». Nell’esaminare la questione pregiudiziale la Corte di Giustizia precisa che spetta al Giudice nazionale di rinvio la verifica della legittimità della finalità perseguita dalla disciplina interna, ai sensi dell’art.2 par.2 lett. (b) e (i) dir. 2000/78. È il Giudice spagnolo, dice la Corte, che deve valutare se la normativa nazionale, nel consentire il licenziamento in ragione di assenze intermittenti dovute a malattie imputabili alla disabilità, “vada oltre a quanto necessario a perseguire l’obiettivo legittimo di lottare contro l’assenteismo” (lecita misura di politica occupazionale cfr. C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C‑335/11 e C‑337/11, punto 82). Secondo la Corte di Giustizia l’atto di recesso potrebbe conservare la propria legittimità non solo in ragione della legittima finalità della disposizione potenzialmente discriminatoria, bensì in ragione dell’adozione di “ragionevoli accomodamenti” da parte del datore di lavoro. Secondo i Giudici di Lussemburgo sarebbe possibile escludere l’indiretta discriminatorietà del licenziamento per superamento del comporto anche accertando che il datore di lavoro ha adottato “accomodamenti ragionevoli” a garanzia del principio di parità di trattamento ai sensi dell’art.5 dir. 2000/CE/78. Spetta al Giudice nazionale valutare la correttezza della condotta datoriale consistente nel mancato scomputo – ai fini del licenziamento – dei giorni di malattia dovuti alla disabilità («C. giust. 11 settembre 2019, C-397/18»). Sulla scorta delle considerazioni della Corte di Giustizia, parte della giurisprudenza italiana ha finito per considerare come discriminatori i licenziamenti motivati dal mero “decorso del periodo (massimo di malattia) stabilito dalla contrattazione collettiva” (cd. periodo di comporto secco o per sommatoria). Una prima “brace” di discriminazione indiretta è stata rinvenuta nelle stesse previsioni contrattuali che non distinguevano l’entità del comporto in presenza di posizioni di particolare svantaggio del dipendente. Il Ministero del Lavoro già da tempo precisa che “Alle determinazioni della autonomia collettiva è altresì demandata la possibilità di estensione del suddetto periodo nelle particolari ipotesi di malattie lunghe, caratterizzate dalla necessità di cure post-operatorie, terapie salvavita e di una conseguente gestione flessibile dei tempi di lavoro. Tali ipotesi particolari di estensione del periodo di comporto si rivelano particolarmente significative con riferimento a lavoratori affetti da malattie oncologiche, che spesso necessitano di un periodo di comporto più ampio rispetto a quello previsto in via ordinaria.” (Ministero del Lavoro, Circolare 22 dicembre 2005, n.40). Ed in effetti in numerosi contratti collettivi si escludono dal computo o si modifica il comporto in caso di assenze per malattie lunghe, caratterizzate dalla necessità di cure post-operatorie, terapie salvavita debitamente certificate dalla competente Azienda Sanitaria o da strutture convenzionate (cfr. CCNL Studi Professionali, Centri elaborazione dati, Consulenti tributari e tributaristi 22 giugno 2016, art.91; CCNL Lavoratori addetti al Settore elettrico 5 marzo 2010 art.32; CCNL per il personale non dirigente di Poste italiane art. 41). In dottrina si sottolinea come in questi casi le parti sociali, in assenza di riferimenti normativi che definiscano un elenco esaustivo delle situazioni da tutelare, facciano riferimento a «gravi patologie», «patologie oncologiche», «utilizzo di terapie salvavita e assimilabili», «effetti invalidanti temporanei o permanenti» (BRUZZONE, Gravi patologie: comporto per malattia e conservazione del rapporto di lavoro, in https://moodle.adaptland.it) In sintesi, quando la contrattazione collettiva interviene distinguendo i criteri per il calcolo del comporto – in assenza di una chiara indicazione normativa – talvolta compie rinvii generici, altre volte effettua una scelta richiamando patologie invalidanti come la sclerosi multipla o malattie oncologiche lasciando inevitabilmente “senza protezione” altre situazioni. Viceversa in molti altri contratti collettivi le parti sociali non si sono attivate con tutele diversificate, inducendo i Giudici a mettere in discussione l’esercizio della delega normativa all’individuazione dell’“astratta predeterminazione del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” (Cass. Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12568, in Labor, 31 maggio 2018, con nota di Galardi, È nullo il licenziamento per malattia intimato prima della scadenza del comporto). Sicché sulla scorta di un’interpretazione “costituzionalmente orientata” e in linea con la normativa e la giurisprudenza comunitaria, i Giudici hanno evidenziato l’esistenza di una prima “brace” di discriminazione nelle stesse clausole dei contratti collettivi. Sono infatti state considerate illegittime le clausole dei contratti collettivi che, ai fini del raggiungimento del comporto, consentono il conteggio di assenze (riconducibili a malattie cagionate o connesse a una situazione di disabilità/handicap) poiché elusive dell’esigenza di differenziare la tutela e adeguarla alla situazione peculiare in cui versano soggetti deboli per effetto di disabilità conclamate o malattie invalidanti (cd. fattore di rischio). Le situazioni analizzate dai Giudici di merito hanno riguardato il computo del comporto in caso di invalidità/disabilità accertata («Trib. Lecco, 27 giugno 2022, annotata da MORTILLARO, Comporto e disabilità. Alcune riflessioni a partire da alcune recenti pronunce milanesi, in Labor, 21 marzo 2023) o malattie invalidanti come il diabete («Corte d’ Appello di Genova, 21 luglio 2021, n. 211, commentata da POSO, Un interessante caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto di una lavoratrice disabile dichiarato nullo per discriminazione indiretta, in Labor, 2 agosto 2021», «Trib. Santa Maria Capua Vetere, 11 agosto 2019, in DeJure»), malattie mentali («Trib. Milano 24 settembre 2018, in Riv. giur. lav. online»), un’ipertensione arteriosa (« Corte d’ Appello di  Genova 21 luglio 2020, in DeJure»), oppure malattie oncologiche come un craniofaringioma («Trib. Mantova 16 luglio 2018, n. 1060, in www.studiodirittielavoro.it »), un adenoma alla prostata («Corte di Appello Torino 26 ottobre 2021, in http://www.adlabor.it »), una doppia neoplasia linfoproliferativa («Corte di Appello Firenze, 26 ottobre 2021, in DeJure»), un flebolinfodenoma all’arto inferiore destro («Trib. Milano, 2 maggio 2022, in www.wikilabour.it »), un mieloma («Trib. Milano, 16 agosto 2022, n. 1938 annotata da MORTILLARO, op.cit. supra. Nella sentenza della Corte di Appello di Milano n.1128/2022,cit.,qui in commento, traendo spunto dalla pronuncia della Corte di Giustizia 18 gennaio 2018, C-270/2018 cit. supra i giudici milanesi ritengono che l’individuazione del comporto nel CCNL applicato, pur sorretta da finalità legittime, produca un effetto discriminatorio, travalicando i limiti necessari al perseguimento della finalità lecita ad essa sottesa per l’assenza di qualsivoglia specifico contemperamento perequativo a tutela del dipendente colpito da malattia invalidante. In sintesi, secondo la Corte milanese la norma contrattuale trascura di distinguere tra le assenze dovute a malattia e quelle dovute alla patologia correlata alla disabilità e ciò rileva oggettivamente senza che l’intento soggettivo del datore di lavoro risulti in alcun modo influente. Analogamente il Giudice del Tribunale di Parma, nella sentenza n.1/2023, cit., qui in esame, osserva la violazione del principio di uguaglianza sostanziale della previsione contrattuale che individua il comporto regolando nello stesso modo due situazioni radicalmente differenti (persone disabili e non disabili). Ed efficacemente osserva che “il discrimine ipotizzabile ai fini della durata del comporto (attiene) non già allo status di disabilità ma piuttosto alla tipologia di malattia”. In senso conforme si è altresì espresso altro Giudice secondo cui sarebbe “dirimente (…) valutare se la contrattazione collettiva sia in concreto penalizzante per il disabile in ragione della patologia che ha dato origine alla disabilità” («Tribunale di Lodi, 12 settembre 2022, n. 19», annotata da MORTILLARO, nota più volte citata) All’orientamento sin qui descritto se ne è contrapposto un altro in cui invece questa prima “brace” di discriminazione indiretta viene “spenta” grazie a una complessiva valutazione del contesto normativo e contrattuale che porta a legittimare le clausole dei contratti collettivi in tema di comporto. Alcuni Giudici hanno escluso la discriminatorietà indiretta delle clausole dei contratti collettivi in considerazione dell’esistenza nel nostro ordinamento di un apparato di garanzia del diritto al lavoro dei disabili capace di compensare la mancata inclusione delle assenze per malattie connesse alla disabilità nel periodo di comporto (cfr. «Corte App. Torino, 3 novembre 2021, n. 604») ritenendo quindi equo il bilanciamento svolto dalle parti sociali anche grazie all’indicazione dell’esclusione dal computo di “malattie particolarmente gravi” («Trib. Venezia, 7 dicembre 2021, n. 6273 con nota di AVANZI, Il licenziamento discriminatorio per superamento del “comporto”: la nozione di handicap e la “conoscenza” del datore di lavoro, in Labor, 27.6.2022). In altre pronunce, si sono esclusi i profili di discriminatorietà indiretta e legittimato il licenziamento evidenziando l’assenza di norme di legge che individuano in caso di disabilità un comporto più ampio rispetto a quello stabilito contrattualmente («Tribunale di Parma, 17 agosto 2018») ovvero la difficoltà di ascrivere a discriminazione un atto datoriale in mancanza di un trattamento deteriore riservato al disabile a causa della sua appartenenza a una categoria protetta («Tribunale di Milano, n.1883/2017»; «Tribunale di Mantova, 16 luglio 2018, n.1060»). Ulteriore profilo di criticità e quindi seconda “brace” di discriminazione indiretta si rinviene secondo altri Giudici di merito nel comportamento datoriale consistente nel procedere con il licenziamento allo scadere del periodo di comporto. Secondo alcuni Giudici la condizione di particolare svantaggio del dipendente affetto da malattia invalidante imporrebbe comunque al datore di lavoro di agire conformemente ai principi civilistici di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. e ai più generali principi di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. Pertanto, in assenza di una attiva cooperazione al soddisfacimento dell’interesse della propria controparte contrattuale, ossia in mancanza di avvertimenti e con il limite dell’apprezzabile sacrificio, l’eventuale e successivo licenziamento deve ritenersi discriminatorio («Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 11 agosto 2019, n.20012/2019 in www.lavorosi.it»). Analogamente è stato ritenuto non conforme a correttezza e buona fede (e quindi idoneo ad ingenerare nel lavoratore un incolpevole affidamento ritenuto meritevole di tutela) l’indicazione – nei prospetti allegati ai cedolini paga – di un numero di assenze di gran lunga inferiore a quello poi indicato nella lettera di licenziamento («Corte d’Appello di  Roma, 5 ottobre 2021, n.3417 annotata da  POSO, Superamento del periodo di comporto per malattia e buona fede del datore di lavoro, in Labor, 17 gennaio 2022). Altri Giudici valutano il comportamento datoriale caso per caso in base alla gravità della patologia capace di configurare una condizione di “minorata difesa” distinguendo tra malattia c.d. comune e di estrema gravità (cfr. in tema di neoplasia «Tribunale di Bologna, 15 aprile 2014, in www.osservatoriodiscriminazioni.org »). La Corte di Appello di Napoli, 17 gennaio 2023,n. 168, qui in commento, si focalizza sull’analisi del comportamento datoriale e precisa come spetti al datore di lavoro fornire prova di aver adottato “ragionevoli accorgimenti” al fine di garantire la parità di trattamento al dipendente affetto da malattie riconducibili al suo stato di invalidità (sclerosi multipla). La Corte ritiene che la previsione dell’indennità previdenziale per malattia a carico dell’INPS (con la conseguente riduzione degli oneri retributivi) non determini un carico eccessivo per il datore di lavoro, il quale comunque ha a disposizione tutta una serie di misure e sostegni per poterlo sopportare e controllare l’idoneità della mansione del lavoratore. Sicché l’esclusione dal computo del periodo del comporto dei giorni di assenza per malattie connesse allo stato di handicap viene ritenuta un “accomodamento ragionevole” non eccessivamente oneroso. La Corte, quindi, osserva come nel caso di specie il datore di lavoro si sia invece limitato a tollerare le assenze, senza controllare l’ulteriore aggravamento delle patologie invalidanti (che gli avrebbe consentito di applicare l’istituto della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino alla cessazione dell’incompatibilità oppure procedere con un licenziamento per inidoneità assoluta alla mansione ove sussistente). Ciò che viene giudicato negativamente è l’aver applicato alla lettera la norma della contrattazione collettiva senza procedere con avvisi dell’approssimarsi della scadenza del comporto e senza escludere dal computo le assenze connesse alla malattia invalidante (che si presume conosciuta dal datore di lavoro). All’orientamento sin qui descritto se ne è contrapposto un altro in cui invece anche questa seconda “brace” di discriminazione viene “spenta” grazie a una complessiva valutazione degli accomodamenti adottati dal datore di lavoro. In ulteriori pronunce si è esclusa la discriminazione anche argomentando intorno alla mancata conoscenza da parte del datore di lavoro riguardo le condizioni di disabilità del dipendente («Trib. Como, 17 settembre 2020, in www.adlabor.it») mai trasmesse “né al momento dell’assunzione né in epoca successiva, né tantomeno (…) dal precedente appaltatore al momento del passaggio dell’appalto” (in un caso di “stato di invalidità civile” al 70% « Trib. Bologna, 19 maggio 2022 n. 230 con nota di AVANZI, Il licenziamento discriminatorio per superamento del “comporto”: la nozione di handicap e la “conoscenza” del datore di lavoro, op.cit. supra. Più nel dettaglio, alcuni Giudici hanno osservato come l’inadempimento del dipendente all’obbligo di cooperazione, volto ad indicare quali assenze sono da ricondursi causalmente alla condizione di invalidità, renda inesigibile l’obbligo datoriale di adottare “accomodamenti ragionevoli” (come espungere dal computo le assenze riconducibili alla invalidità/disabilità) che presuppone la conoscenza della condizione di invalidità/disabilità («Trib. Vicenza, 27 aprile 2022, n.181 in Riv. It. Dir. Lav., 2023, II, 578»; «Corte d’Appello di Palermo, 14 febbraio 2022, n. 111»). Altri Giudici si sono spinti ad escludere dal novero dei “ragionevoli accomodamenti” l’esclusione delle assenze affermando come “nessuna norma, neppure eurounitaria, disciplina espressamente il comporto dei disabili né prevede il divieto assoluto di licenziamento del lavoratore disabile: si pensi che la stessa disciplina sugli accomodamenti ragionevoli, pone a carico del datore di lavoro un obbligo di attivarsi per rendere possibile la prestazione lavorativa del disabile, ma non si spinge fino al divieto di licenziamento nel caso in cui sia divenuto impossibile consentire al disabile di lavorare in sicurezza per sé e gli altri lavoratori” («Trib. Lodi  n.19/2022,cit. supra, annotata da MORTILLARO, nota molte volte citata). La recente pronuncia della Corte di Cassazione, che si esprime riguardo il computo del comporto rispetto ad un lavoratore disabile ai sensi della disciplina di legge («Cass. n.9095/2023,ult. cit.»), e gli orientamenti sin qui descritti emersi nella giurisprudenza di merito evidenziano l’esigenza di valutare con estrema attenzione eventuali “braci” di discriminazione che potrebbero “incendiare” l’interruzione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto escludendo la sussistenza di cause di giustificazione o esimenti (ex art. 2, par. 2, lett. b), (ii), dir. n. 2000/78/CE art.2 e art.3, co.3-bis d. lgs. n.216/2003. È bene ribadire che la Corte di Giustizia esclude un’assimilazione pura e semplice della nozione di «handicap» a quella di «malattia» («C. giust. 2018, C-270/2016»; «C. giust., 11 luglio 2006, C‑13/05 Chacón Navas, punto 44»; «C. giust., 11 aprile 2013, C‑335/11 e C‑337/11, HK Danmark, punto 75»). La nozione di disabilità introdotta dal diritto euro-unitario non prevede una tutela assoluta in favore del soggetto affetto da handicap, dovendosi salvaguardare il bilanciamento di interessi contrapposti delle parti nel rapporto di lavoro («Trib. Vicenza, 27 aprile 2022, n.181 in Riv. It. Dir. Lav., 2023, II, 578»). Quindi è sempre rimesso al giudice una valutazione complessiva: sulle clausole contrattuali al fine di verificare se possano ritenersi giustificate dal perseguimento di finalità legittime quali quelle di tutelare l’occupazione rispetto a forme di abuso della morbilità e sul contegno datoriale al fine di verificare se possa ritenersi giustificato da “ragionevoli accomodamenti” adottati a garanzia del rispetto del principio di parità di trattamento tra dipendenti (cfr. art.2 e art.3, co.3-bis d. lgs. n.216/2003 in recepimento dell’art.2 (b) e art. 5, par. 3, dir. n.2000/78/CE cfr. per una ricostruzione complessiva ad AVANZI, Il recesso per superamento del “comporto” alla prova del diritto antidiscriminatorio. La “crisi” dell’art. 2110 c.c. nell’ordinamento “multilivello”, Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, 10 giugno 2022,in vvv.fondazionegiuseppepera.it). Vero è che la valutazione dei profili di discriminatorietà indiretta delle clausole del contratto collettivo non può prescindere dal contesto normativo e contrattuale. Tuttavia, si deve riconoscere che un conto sono le tutele approntate a garanzia della disabilità, accertata e certificata, altro sono le tutele previste nelle situazioni in cui l’assenza è provocata da patologie invalidanti, ma non ancora riconosciute come tali. Sicché al di là di quanto previsto dalla contrattazione collettiva è indispensabile che entrambe le parti mantengano un rigoroso e reciproco comportamento ispirato ai principi generali di buona fede e correttezza. Al lavoratore spetta l’onere di raccogliere e condividere le informazioni (ad esempio attinenti alla diagnosi e non solo alla prognosi dei certificati medici) per consentire all’azienda un controllo non solo temporale, ma altresì qualitativo di incidenza delle malattie sulla complessiva idoneità lavorativa. Non dimentichiamo che solo in caso di invalidità accertata- disabilità il medico nel certificare l’assenza ha la possibilità di collegare l’assenza all’invalidità. Viceversa, nel caso delle malattie croniche invalidanti solo la comunicazione da parte del dipendente della diagnosi del certificato potrebbe consentire al datore di lavoro di attivarsi. In altri termini, il dipendente interessato ad avvalersi di una tutela speciale per le assenze dovrà segnalare all’azienda l’esistenza di un “fattore di protezione” trasmettendo una adeguata e chiara certificazione medica: le assenze dovranno essere debitamente certificate dalla competente ASL o altra struttura convenzionata. Diversamente, difficilmente si potrà ritenere esigibile l’adozione da parte dell’azienda di misure tecniche-logiche-organizzative volte al mantenimento in servizio del dipendente c.d. “ragionevoli accomodamenti”. L’obbligo di adattare in funzione dell’handicap non solo il luogo di lavoro, ma la stessa organizzazione del lavoro trova i limiti della proporzione degli oneri finanziari (rispetto alle dimensioni/risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa o alla possibilità di ottenere fondi pubblici/sovvenzioni) e del diritto ad esigere una prestazione utile (cfr. C20-C21 e art. 5 dir. UE n.2000/78/UE). Come è stato efficacemente osservato “l’interesse del lavoratore disabile a conservare il posto di lavoro deve essere ponderato in relazione sinallagmatica con quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito” (App. Torino, 3 novembre 2021, n. 604). Pertanto, ben si potrà considerare irragionevole “pretendere” un’indeterminata esclusione dal computo del comporto delle assenze seppur connesse a situazioni di disabilità/invalidità conclamata. Resta evidente che, in assenza di un intervento normativo di normalizzazione, persisterà una grave incertezza per le aziende sulla “ragionevolezza” dell’accomodamento e la facoltà di licenziamento al protrarsi delle assenze, seppur quantificate nei contratti collettivi, risulterà inevitabilmente compressa. Claudia Ogriseg, avvocato in Udine Visualizza i documenti: App. Milano, 9 dicembre 2022, n. 1128; Trib. Parma, 9 gennaio 2023, n. 1; App. Napoli, 17 gennaio 2023, n. 168 Scarica il commento in PDF L'articolo Licenziamento per superamento del comporto e disabilità: nascoste sotto la cenere le braci della discriminazione indiretta sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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