La Suprema Corte, nella pronuncia in analisi (ordinanza 14 novembre 2023, n. 31593) sancisce che, nel caso di mera apparenza della pluralità di due soggetti giuridici a fronte di un’unica sottostante organizzazione di impresa, intesa come unico centro decisionale, è possibile pervenire alla qualificazione della sostanziale unicità della struttura aziendale tra le due società. La compenetrazione tra le strutture aziendali formalmente facenti capo a due distinte società implica la riferibilità della prestazione di lavoro ad un soggetto sostanzialmente unitario e quindi del rapporto di lavoro tale accertamento esclude che possa assumere rilevanza decisiva la verifica circa la concreta, effettiva, utilizzazione da parte delle società delle prestazioni rese dal singolo lavoratore, la cui attività deve comunque ritenersi prestata nell’interesse indifferenziato delle due società solo formalmente distinte
In particolare, una dipendente con mansioni – da ultimo – di addetta alla cassa dell’officina, fino al era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo, per soppressione del posto di lavoro.
La medesima assumeva che tale motivo era in realtà inesistente e che fra la società datrice di lavoro altre due distinte società per azioni vi era un collegamento societario tale da integrare un unico centro di imputazione giuridica di interessi e quindi del rapporto di lavoro (Calcaterra,
La giustificazione oggettiva del licenziamento. Tra impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità, Editoriale Scientifica, 2009, 163, 292, 313).
Il dipendente, pertanto, adìva il Tribunale di Napoli per l’ottenimento della declaratoria di illegittimità del licenziamento, il suo annullamento, l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro considerato sussistente il requisito dimensionale in virtù dell’unico centro di imputazione di interessi fra le tre società, nonché la condanna delle tre società in solido al risarcimento del danno pari alle retribuzioni spettanti dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.
Il Tribunale accoglieva l’impugnazione del licenziamento, ma rigettava quella di accertamento dell’unico centro di imputazione di interessi e del rapporto di lavoro. Pertanto ordinava a spa di riassumere la ricorrente o di pagarle a titolo risarcitorio l’importo pari a sei mensilità di retribuzione.
La Corte riteneva che la situazione di crisi prospettata nella lettera di licenziamento come causa della soppressione del posto di lavoro della (addetta alla cassa dell’officina) non ha trovato alcun riscontro probatorio: nessun testimone ha parlato di perdite di clienti o di diminuzione di guadagni, né risulta che altri lavoratori siano stati licenziati; parimenti, le mansioni della lavoratrice non erano state soppresse (Persiani,
Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in
ADL, 2013, 17; Tosi,
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: un equilibrio fragile, in
ADL, 2018, 760; Maresca,
Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento negli approdi nomofilattici della Cassazione, in MGL, 2019, 3, 561).
Peraltro, secondo la Corte di Cassazione, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone da un lato l’esigenza di sopprimere un posto di lavoro e dall’altro l’impossibilità di diversa collocazione del lavoratore (c.d. repechage), considerata la sua professionalità, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa; quindi sul datore di lavoro grava l’onere di allegare e provare fatti, anche indiziari, da cui possa desumersi l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (Pisani,
La Corte costituzionale elimina il regime di tutela indennitaria previsto dall’articolo 18 Stat. lav. per il motivo oggettivo di licenziamento da soppressione del posto, in
ADL, 2022, 4, 724-725).
Nel caso di specie, non vi sarebbe prova, secondo i giudici di legittimità, né del prospettato stato di crisi, né dell’osservanza dell’obbligo di repechage.
Di notevole rilevanza è il percorso argomentativo della Suprema Corte nella parte in cui si rileva che sarebbero, in concreto, tutti gli elementi sufficienti per dimostrare l’esistenza di un collegamento economico- funzionale fra imprese gestite da società del medesimo gruppo, che realizza di fatto un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, quali l’unicità della struttura organizzativa e produttiva, l’integrazione fra le attività delle imprese del gruppo e il correlativo interesse comune, il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le attività delle diverse società verso uno scopo comune, l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società.
Tale assunto non è di poco momento: sul piano pratico-applicativo, al fine di individuare la tutela accordabile, occorre far riferimento al numero dei dipendenti complessivo di tutte le imprese del gruppo medesimo (Vallebona,
La riforma del lavoro, 2012, Giappichelli, 2012, 59).
La pronuncia in oggetto ha il pregio di ribadire il principio consolidato, accolto da un filone maggioritario della Corte di Cassazione, secondo cui le scelte gestionali dell’impresa sono insindacabili, mentre resta al giudice il controllo della reale sussistenza delle esigenze tecniche, organizzative e/o produttive dedotte a giustificazione del licenziamento, controllo che non può eccedere la verifica di effettività e non pretestuosità.
In ogni caso, la Corte Suprema ribadisce che dall’esame della pronunzia impugnata si evince che la Corte territoriale si è attenuta scrupolosamente al predetto principio e all’esito dell’istruttoria compiuta in primo grado è pervenuta al convincimento della mancanza di prova della prospettata situazione di crisi (oltre che dell’osservanza dell’obbligo di repechage).
Giova rilevare come la Corte territoriale abbia condannato – oltre che alla reintegrazione nel posto di lavoro – al pagamento di tutte le retribuzioni dal licenziamento all’effettiva reintegrazione (pari ad oltre tre anni di retribuzione), trascurando che, invece, la norma prevede che in ogni caso l’indennità risarcitoria non possa essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Si ribadisce che nel dispositivo della sentenza impugnata manca, in concreto, l’ulteriore specificazione del limite massimo delle dodici mensilità, invece previsto dal legislatore, ma tale omissione non produce alcun effetto invalidante sulla decisione, posto che è chiaro ed inequivoco in motivazione il richiamo alle conseguenze di cui all’art. 18, co. 4, cit., fra le quali va annoverato anche il predetto limite, che pertanto deve ritenersi univocamente posto nella pronunzia impugnata.
In definitiva, il vizio non sussiste laddove il dispositivo venga letto e interpretato alla luce della motivazione. Secondo la Suprema Corte, esso identificherebbe un principio di diritto più volte affermato dal supremo consesso e, dunque, applicabile anche nel caso in esame, poiché nello speciale rito introdotto dalla legge n. 92/2012 – diversamente da quanto previsto per il rito lavoro – non vi è un dispositivo letto in udienza, quale atto distinto e separato dalla sentenza, ma soltanto la sentenza. Quindi non può essere riconosciuta processuale prevalenza al dispositivo rispetto alla motivazione.
La Corte rigetta, pertanto, il ricorso.
Il Supremo Consesso ha ribadito il principio per cui, in presenza di un gruppo societario, i rapporti di lavoro dei dipendenti vanno imputati rispettivamente alle aziende che ne sono titolari, a meno che non sia riscontrabile un’utilizzazione impropria dello schema societario; peraltro, l’esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro debba essere sempre accertata dal Giudice di merito.
Atteso che nel caso di specie pur esistendo di fatto un unico centro d’imputazione datoriale, questo era solo apparentemente frazionato in più imprese e lavoratrice aveva chiamato in causa soltanto la società datrice, il Collegio ha ritenuto che l’obbligo di repechage dovesse essere limitato ai dipendenti della stessa e non potesse, invece, essere esteso alle altre aziende del gruppo (Pacchiana Parravicini,
Il fatto posto a fondamento del giustificato motivo oggettivo dopo la sentenza della Corte costituzionale numero 125 del 19 maggio 2022, in
Rivista Italiana di Diritto del Lavoro., 2022, 3, 450).
In questo senso, peraltro, l’onere della prova è molto rigido. Il datore di lavoro dovrà allegare tutta la documentazione e gli elementi di fatto necessari a corroborare la propria tesi, dunque a dimostrare che altre posizioni di lavoro non fossero comunque presenti o che, a fronte di una proposta di diverso collocamento, sia stato il lavoratore stesso ad aver rinunciato alle nuove mansioni appartenenti o meno alla medesima categoria legale inziale. Chiaramente tale orientamento ha portato all’affermarsi della regola di un equilibrato contemperamento, in materia, tra gli interessi del datore di lavoro e quelli del lavoratore, in un’ottica solidaristica e di buona fede nei relativi rapporti: in questo senso, infatti, anche il lavoratore deve fornire una valida collaborazione e in un eventuale giudizio indicare quelle posizioni di lavoro libere, o presumibilmente libere, nelle quali avrebbe potuto essere utilmente inserito da parte dell’azienda (Chiarelli, Tona,
Licenziamenti Individuali, in
Itinera lavoro, Wolters Kluwer, Milano 2016, 990).
In linea di massima, quindi, senza la prova dell’impossibilità di una diversa collocazione, il licenziamento è illegittimo e le conseguenze saranno quelle applicabili a seconda della dimensione aziendale.
Giuseppe Maria Marsico, dottorando di ricerca in diritto privato e dell’economia e Funzionario giuridico-economico-finanziario
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Cass., ordinanza 14 novembre 2023, n. 31593
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Sul collegamento societario e sulla compenetrazione tra le strutture aziendali formalmente facenti capo a distinte società: tra obbligazione risarcitoria e tutela reale dei dipendenti sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.