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1. Le conseguenze sul licenziamento La sentenza in commento (Cass., 7 novembre 2023, n. 30945)  assume un rilievo duplice, presentando spunti di riflessione sia dal punto di vista giuslavoristico che da quello processuale. Analizziamoli partitamente. Vista da una prospettiva giuslavoristica, la fattispecie oggetto della pronuncia in commento riguarda il caso, tutt’altro che inusuale, del lavoratore licenziato da un soggetto rivestente il ruolo di datore di lavoro solo sulla carta e non nella sostanza. In particolare, quello che era emerso nel corso del processo è che il rapporto di lavoro, ancorché formalizzato alle dipendenze di un datore di lavoro, era in realtà riconducibile ad altro datore. In ragione del fatto che l’atto interruttivo del rapporto era stato intimato dal primo, privo della relativa titolarità giuridica, la Corte di Appello di Roma (sentenza n. 3784 del 31 ottobre 2016) aveva decretato la persistenza del rapporto di lavoro in capo al secondo datore di lavoro nonché il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, quantificato ex art. 32 l. n. 183 del 4 novembre 2010 in 12 mensilità. La sentenza della Corte di Appello veniva tuttavia annullata dalla Suprema Corte (cfr. ordinanza n. 6668 del 7 marzo 2019) sulla scorta delle disposizioni normative vigenti all’epoca dei fatti e, in particolare, dell’art. 27, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 10 settembre 2003, che attribuiva agli atti di gestione del rapporto effetti anche nei confronti dell’utilizzatore. Nel novero di tali atti, secondo la Suprema Corte, era da ricomprendere anche il licenziamento (in tal senso si veda anche Cass., 13 settembre 2016, n. 17969). E nella fattispecie per cui era causa, il licenziamento non era stato impugnato dal lavoratore interessato nei confronti dell’utilizzatore nel termine di 60 gg. previsto dall’art. 6 l. n. 604 del 15 luglio 1966. Di qui la decisione della Cassazione di cassare con rinvio la sentenza della Corte di Appello di Roma. Chiamata ad operare come Giudice del rinvio, la Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, con sentenza n. 3135 del 1° ottobre 2021, non ha tuttavia potuto fare a meno di constatare come fosse, nel frattempo, intervenuto l’art. 80 bis del d.l. n. 34 del 19 maggio 2020 il quale, in qualità di norma di interpretazione autentica dell’art. 38 del d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, ha esplicitamente escluso il licenziamento dagli atti di gestione del rapporto imputabili all’utilizzatore. Quanto precede si riverberava inevitabilmente sulla fattispecie per cui era causa, conseguendone l’inesistenza giuridica del licenziamento irrogato dal somministratore, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il lavoratore e l’azienda utilizzatrice ed il diritto del lavoratore alle retribuzioni arretrate nei periodi non lavorati a far data dalla messa in mora sino al ripristino, detratto l’eventuale aliunde perceptum. La statuizione della Corte di Appello di Roma è stata infine confermata dalla sentenza della Cassazione in commento, sulla scorta peraltro di un proprio recente pronunciamento (Cass., 20 aprile 2023, n. 10694). Il che è fonte di plurime implicazioni. Da un lato, alla luce della norma di interpretazione autentica di cui all’art. 80 bis del d.l. n. 34 del 2020, l’utilizzatore non può più “fare proprio” l’eventuale licenziamento intimato dal somministratore con la conseguenza che il lavoratore non ha l’onere di impugnarlo nei suoi confronti nei termini di cui all’art. 6 l. n. 604 del 1966, trattandosi di atto tamquam non esset dal punto di vista giuridico. Dall’altro, il principio espresso dalla Cassazione a proposito della “nuova” somministrazione regolamentata dal d.lgs. 81/2015 (cfr. art. 30 e ss., e tra essi, in particolare, l’art. 38), è da estendere, per espressa statuizione della Cassazione stessa, anche alla “vecchia” somministrazione di cui all’art. 20 e ss. del d.lgs. 276/2003 (cfr., in particolare, l’art. 27, comma 2) e ciò in ragione della «sovrapponibilità» dei due testi normativi (così Cass. 30945/2023 in commento). Inoltre, avendo la funzione di norma di interpretazione autentica, il citato art. 80 bis del d.l. n. 34/2020 è destinato a riguardare, con effetti anche retroattivi, non solo le vertenze ancora da avviare ma anche quelle già in corso, con ovvia esclusione dei giudizi già coperti dal giudicato. Verrebbe infine da chiedersi se lo stesso principio possa essere esteso all’attigua fattispecie del licenziamento intimato dall’appaltatore in caso di accertata illiceità del relativo appalto: la risposta dovrebbe essere positiva stante l’esplicito rinvio al citato art. 27 comma 2, del d.lgs. 276/2003 (da leggersi alla luce dell’“interpretazione autentica” di cui sopra) da parte del successivo art. 29, comma 3 bis dello stesso d.lgs. 276/2003. In tal senso si è espressa, di recente, Cass. 22 novembre 2023 n. 32412 (che si può leggere in Labor, 24 dicembre 2023, con nota di Giuseppe Maria Marsico, Brevi note sull’appalto non genuino: tra obbligazione risarcitoria e tutela reale, al cui commento si rinvia, anche per ulteriori riferimenti), confermativa dell’orientamento che esclude l’applicabilità dell’art. 6 l. 604/1966, e delle relative decadenze, per il licenziamento intimato da un soggetto diverso da quello che si assume essere il reale datore di lavoro (cfr. Cass., 28 ottobre 2021, n. 30490; Cass., 6 luglio 2016, n. 13790; Cass., 11 settembre 2000, n. 119570). 2. Una particolare questione processuale di carattere generale relativa al giudizio di rinvio Sotto il profilo processuale, la sentenza risolve la questione attinente al rilievo nel giudizio di rinvio di una legge di interpretazione autentica che abbia modificato una disposizione successiva a, e quindi diversa da, quella oggetto di causa ma del tutto sovrapponibile alla stessa. La decisione richiama così la regola dettata dall’art. 384 c.p.c. ai sensi della quale il giudizio reso dalla Corte di Cassazione su ricorso ex art. 360, 1° co., n. 3 che abbia enunciato la regola di diritto che già avrebbe dovuto essere applicata nel caso di specie, non può essere rimesso in discussione nel giudizio di rinvio prosecutorio “proprio”, ad eccezione dei casi in cui vengano rilevati mutamenti della realtà  dei fatti di causa (cfr. Cass., 18 novembre 1998, n. 11614, in Foro It., 1999, I, 2608) ovvero mutamenti della realtà giuridica che abbiano inciso sulla normativa. Peraltro, in ipotesi di rinvio per violazione o falsa applicazione di norme di diritto o di contratti collettivi di lavoro, il giudice ad quem è vincolato al rispetto sia della regula iuris sia agli accertamenti già compiuti ivi compresi i presupposti logico giuridici della decisione che formano oggetto di giudicato interno.  (Cass. 3 marzo 2022 n. 7091; v. Cass., Sez. lavoro, 22 maggio 2023, n. 14076 e Cass. 15 giugno 2023| n. 17240 per una ampia ricostruzione dei limiti ai poteri del giudice nel giudizio di rinvio). Se il giudice non applica il principio di diritto, inoltre, la sentenza è a sua volta viziata e ricorribile per cassazione per error in procedendo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, e nemmeno in tale sede potrà essere ridiscusso il principio affermato.  La stessa Cassazione rimane, infatti, vincolata al rispetto della sua prima pronunzia. Il giudizio di rinvio è, dunque, tendenzialmente chiuso ai nova in ragione del prevalere della certezza del diritto e del diritto del vincitore a non vedersi modificato l’esito del processo a causa di nuovi elementi che, senza la necessità del rinvio, sarebbero state preclusi dai limiti del giudicato (Carnelutti, Questioni sul vincolo di secondo rinvio, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1931, II, 229; Micheli, Enunciazione del principio di diritto da parte della Cassazione e giudicato sul punto di diritto, in Riv. Dir. Proc., 1955, I, 26). La regola però soffre alcune eccezioni. Il principio di diritto affermato dalla pronunzia rescindente può, infatti, essere disatteso nel giudizio prosecutorio a fronte del cd jus superveniens ovvero di una modificazione, abrogazione o sostituzione con effetti retroattivi della disposizione oggetto del giudizio della Corte di legittimità (Cass. 27 agosto 1999, n. 9015). L’eccezione è giustificata dal fatto che altrimenti si applicherebbe alla fattispecie una legge ormai abrogata e, quindi, considerata ingiusta e/o illegittima dall’ordinamento. E’ pacifico, inoltre, che le sopravvenienze idonee a travolgere il dictum rientrano soltanto interventi legislativi, e quindi anche leggi di interpretazione autentica (cfr. ex plurimis, sentenza 4 luglio 2013, n. 170; Corte cost., 9 maggio 2019, n. 108; Corte cost., 10 marzo 2022, n. 61), che incidano sulla normativa da applicare nonché sentenze della Corte Costituzionale o della Corte di Giustizia dichiarative dell’illegittimità delle norme da cui il principio affermato è stato desunto (ex multis, Cass., 24 maggio 2005, n. 10939). Sono invece esclusi i mutamenti di giurisprudenza, ivi comprese decisioni rese dalle sezioni unite (Cass. 26 maggio 2021 n. 14691). Quest’ultima opzione se, da un lato, è necessitata de iure condito ed è la conseguenza della definitività della decisione della Corte di Cassazione che dovrà poi solo essere applicata dal giudice di merito, dall’altro lato, è da sempre al centro dell’attenzione della dottrina (Briguglio, “Creatività” della giurisprudenza, mutamento giurisprudenziale e giudizio di rinvio, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ ., 1984, 1360; Consolo, Evoluzioni giurisprudenziali e vincolo del giudice di rinvio al principio di diritto ormai “ripudiato” dalla Suprema Corte: rationes confliggenti, in Giur. It., 1992, I 2, 659; Giabardo, Giudizio di rinvio – Note critiche sull’irrilevanza del mutamento di giurisprudenza nel corso del giudizio di rinvio, in Giur. It., 2021, p. 1373), anche per la differente disciplina che si rinviene in altri ordinamenti, e non è assoluta. Nel caso in cui la sentenza sia stata cassata per un vizio di violazione o falsa applicazione di legge con una diversa impostazione dei “termini giuridici” della questione, infatti, nel giudizio di merito è consentito l’accertamento di fatti prima irrilevanti, ma a quel punto necessari, e rispetto ai quali deve essere ammessa anche la richiesta di nuove prove. (Cass. 23 aprile 2019, n. 11178; Cass. 26 giugno 2013 n. 16180). In questo quadro, la decisione in commento sembra concedere un ulteriore potere al giudice del rescissorio perché se, da una parte, osserva che l’art. 80-bis sopracitato, di interpretazione autentica dell’art. 38, è privo di portata vincolante rispetto alla disciplina previgente oggetto di causa, poi rileva, dall’altra parte, che lo stesso, a prescindere dalla retroattività, costituisce “criterio ermeneutico decisivo” per giungere ad identica conclusione anche in riferimento alla disciplina anteriore a quella autenticamente interpretata. Alla fine, dunque, a rilevare è l’effetto che quest’ultima disposizione determina sulla interpretazione di quella oggetto di giudizio da parte del giudice di rinvio. Giovanni Veca, avvocato in Milano Federico Ungaretti Dell’Immagine, assegnista di ricerca nell’Università degli Studi di Firenze Visualizza il documento: Cass., 7 novembre 2023, n. 30945 Scarica il commento in PDF L'articolo Somministrazione illecita ed atti gestori del somministratore sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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