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I fatti di causa e la vicenda di merito La Corte d’appello di Roma ha rigettato il gravame proposto da due lavoratori dipendenti, assunti con il CCNL Multiservizi, avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda con la quale avevano chiesto l’accertamento del diritto all’inquadramento nel terzo livello del CCNL Terziario Distribuzione e Servizi, già applicato in azienda dal 15.2.2012, prima della loro assunzione, con condanna al pagamento delle differenze retributive. La Corte di appello ha confermato la sentenza di rigetto del Tribunale di Roma, la quale aveva affermato che, secondo la giurisprudenza della Cassazione richiamata dai ricorrenti, per le attività complementari ed accessorie sussiste la possibilità di fare riferimento al contratto collettivo disciplinante l’attività principale ma non l’obbligo di applicare un contratto unico. La Corte d’appello, invece, esaminato lo statuto della società, ha accertato che l’oggetto sociale della società fosse la prestazione di servizi vari in favore di Roma capitale e che solo in via strumentale fosse previsto lo svolgimento di altre operazioni (anche commerciali). Secondo la Corte però “non era comprensibile” per quale motivo i ricorrenti chiedessero l’applicazione del contratto collettivo del Terziario Distribuzione e Servizi dal momento che, in base alla sfera di applicazione dei due contratti collettivi posti a confronto (Terziario Distribuzione Servizi e Multiservizi), i servizi oggetto delle commesse presso il campo nomadi e gli uffici anagrafe, per le quali furono assunti i ricorrenti (insieme ad altri 80 lavoratori), rientravano correttamente tra quelli cui si applicava il CCNL Multiservizi (custodia locali, aree, controlli accessi, custodia e archiviazione documenti e attività informativa). Né risultava l’accessorietà dell’attività svolta presso il campo nomadi e gli uffici anagrafe rispetto ad altra attività principale, in ipotesi, inquadrabile nel terziario. Quindi la Corte ha ricordato che ai sensi dell’art. 2070, comma 1 c.c. “L’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore”; ed ha affermato che i ricorrenti avrebbero dovuto provare che l’attività principale effettivamente prestata dalla società rientrasse nel CCNL Terziario Distribuzione Servizi. Infine, la Corte di appello ha richiamato il 2°comma dell’art. 2070 c.c. il quale dispone che se l’imprenditore esercita distinte attività aventi carattere autonomo, si applicano ai rispettivi rapporti di lavoro le norme dei contratti collettivi corrispondenti alle singole attività; ed ha concluso che, pertanto, gli appellanti avrebbero dovuto altresì provare che le attività di vigilanza e di informazione amministrativa svolta “non erano distinte e autonome ma accessorie a quella, in tesi prevalente, del settore terziario e per quale ragione”. Contro la sentenza, i due lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione, con un unico, articolato motivo. Il giudizio di cassazione Con l’unico articolato motivo di ricorso i ricorrenti deducono anzitutto la nullità della sentenza per violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e il pronunciato, dal momento che essi avevano affermato che essendo unica l’attività di impresa unico dovesse essere il CCNL applicato ai dipendenti dall’impresa convenuta. In secondo luogo, i ricorrenti hanno lamentato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2070 c.c. in quanto se l’attività di impresa è unica, uno soltanto può essere il CCNL applicato in azienda, quello già applicato in modo costante nei confronti degli altri assunti in precedenza. Infine, hanno sollevato una doglianza per motivazione incongrua ed omessa pronuncia. Le censure dedotte dai ricorrenti sono state ritenute fondate, secondo termini e limiti qui precisati. I rilievi e le argomentazioni della Suprema Corte nell’ordinanza 18 marzo 2024,n.7203 Deve ritenersi pacifico ed accertato in giudizio, anche nella sentenza impugnata, che la società coinvolta – azienda in house del Comune di Roma – non eserciti distinte attività di impresa. Tanto risulta palese dall’accertamento operato sullo statuto della società esaminato dalla Corte d’appello, la quale ha concluso sul punto che l’oggetto sociale della società è la prestazione di servizi vari in favore di Roma Capitale e che solo “in via strumentale” è previsto lo svolgimento di altre operazioni (anche commerciali). È inoltre accertato in giudizio che, a fondamento della domanda svolta, i due lavoratori ricorrenti avessero affermato che la società, pur non esercitando distinte attività, applicasse tuttavia due distinti CCNL; ed avevano richiesto che fosse applicato anche a loro il contratto del Terziario distribuzione e servizi in base al “criterio volontaristico” dell’obbligo derivante dalla “scelta datoriale” già operata con l’applicazione di fatto dello stesso CCNL a tutti gli altri assunti in precedenza (diverse centinaia di dipendenti). Come ricorda la sentenza i ricorrenti hanno sostenuto che, applicando il CCNL terziario agli altri lavoratori assunti prima, la società aveva stabilito quale contratto collettivo dovesse applicarsi ai propri dipendenti, e chiedevano l’accertamento della vincolatività della contrattazione collettiva applicata in base ai criteri di diritto comune. Ciò posto, a giudizio della S.C., la Corte di appello ha anzitutto travisato la domanda svolta la quale, come si è visto , sotto il profilo della causa petendi, non si fondava sulla presenza di due attività (di cui una di natura accessoria); bensì sul fatto che la società svolgesse una unica attività e che in conseguenza del proprio comportamento concludente – consistente nell’applicazione reiterata de facto del contratto collettivo – rimanesse pertanto obbligata anche nei confronti dei nuovi assunti ad applicare un unico CCNL, lo stesso CCNL Terziario Distribuzione e Servizi già applicato ai dipendenti assunti in precedenza. Applicando il CCNL Terziario agli altri lavoratori assunti prima la società aveva stabilito quale contratto collettivo dovesse applicarsi ai propri dipendenti. A questa prospettazione attorea la Corte d’appello non ha risposto, avendo invece deciso la causa come se i ricorrenti avessero invocato il diverso “criterio merceologico” delle attività svolte (di cui all’art. 2070, commi 1 e 2, c.c.) finendo per affermare, seguendo tale via normativa, che fosse corretta l’applicazione del CCNL Multiservizi in quanto corrispondente all’effettiva attività per la quale lavoravano i ricorrenti; abbandonando così il presupposto fondamentale della domanda, costituito dall’applicazione di fatto in azienda del CCNL Terziario all’unica attività svolta, su cui poggiava la prospettazione attorea. Inoltre, deve ritenersi comunque fondata la censura di falsa applicazione dell’art. 2070, comma 1 e 2, c.c., atteso che la Corte di appello, richiamando entrambe le disposizioni appena citate, ha affermato in primo luogo che, ai sensi dell’art. 2070 c.c., comma 1, l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determini secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore; e che, in base al comma 2, in ipotesi di distinte attività aventi carattere autonomo, si applichino ai rispettivi rapporti di lavoro le norme dei contratti collettivi corrispondenti alle singole attività. A tale articolato richiamo normativo ha fatto seguito l’affermazione per cui i lavoratori ricorrenti avrebbero dovuto allegare e provare quale fosse l’attività principale effettivamente esercitata, dovendo essi dimostrare che rientrasse nella sfera di applicazione del CCNL Terziario, di cui rivendicavano l’applicazione. Tali affermazioni non possono però essere condivise, a detta della S.C., posto che, oltre a rivelarsi contraddittorie (avendo la stessa Corte affermato che la società eserciti in realtà una unica attività di servizi), sono errate anche in diritto, sotto vari profili. In primo luogo, perché, al contrario di quanto ritenuto nella sentenza gravata, in materia di individuazione della sfera soggettiva del contratto collettivo occorre confrontarsi con la mai superata ricostruzione civilistica delle relazioni sindacali, operata dalla giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass., sez. un., 26 marzo 1997, n. 2665). Ed invero, nell’interpretare in termini di “sopravvivenza” gli artt. 2069 e 2070 c.c., e facendo propria la riconduzione dell’autonomia collettiva alle regole civilistiche, tanto da giustificare la definizione dei contratti in questione come negozi giuridici di “diritto comune”, le Sezioni Unite hanno stabilito che “Il comma 1 dell’art. 2070 cod. civ. (secondo cui l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune, che ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti ed a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiano prestato adesione”. Pertanto, come confermato senza eccezioni nella successiva produzione giurisprudenziale, l’art. 2070 c.c. non si applica più nel nostro ordinamento, salvo (in relazione alla residua disposizione del 2° comma) il caso in cui “l’imprenditore svolga diverse attività economiche, sia iscritto alle rispettive associazioni sindacali ed occorra individuare il contratto collettivo applicabile al personale addetto alle singole attività” (così sez. un. n. 2665/1997 cit.); e fatto, altresì, salvo il rispetto dell’art. 36 Cost., quando non risulti applicata alcuna contrattazione collettiva ovvero sia dedotta l’inadeguatezza della retribuzione contrattuale rispetto all’effettiva attività lavorativa esercitata. Con le eccezioni appena indicate (attraverso cui, in definitiva, si torna a salvaguardare la categoria dell’attività effettiva), l’ordinamento in vigore consente, quindi, al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto collettivo anche se stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare (Cass. n. 26742/2014, Cass. n. 9964/2003, Cass. n. 11372/2008). I criteri di individuazione della contrattazione collettiva Per tali motivi, sulla scorta di questo risalente e consolidato orientamento giurisprudenziale, nel vigente ordinamento del rapporto di lavoro subordinato, regolato da contratti collettivi di diritto comune – nella carenza di una specifica disciplina normativa e della perdurante inattuazione dell’art. 39 Cost. – l’individuazione della contrattazione collettiva va fatta unicamente sulla base delle regole dei contratti in generale ed attraverso l’indagine della volontà delle parti, risultante, oltre che da espressa pattuizione, anche implicitamente dalla protratta e non contestata applicazione di fatto di un determinato contratto collettivo. È stato invero puntualizzato dalla Suprema Corte, che l’obbligo del rispetto del CCNL sorga in prima battuta per i rapporti individuali intercorrenti fra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti (Cass. n. 27923/2021, Cass. n. 42001/2021). Inoltre, in modo assolutamente costante, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in mancanza dell’iscrizione di entrambe le parti del rapporto alle associazioni stipulanti ovvero in alternativa al vincolo per associazione, sono altresì obbligate all’applicazione di un determinato contratto collettivo le parti che “abbiano espressamente aderito ai patti collettivi oppure li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione alcuna, delle relative clausole” (così, Cass. n. 42097/2021, Cass. n. 27923/2021 cit.). L’eventuale adesione ad un’organizzazione sindacale di categoria non rappresenterebbe altro, quindi, che una delle declinazioni possibili dei c.d. “atti di volontà”, capaci, giuridicamente, di manifestare la comune intenzione di accettare che il rapporto di lavoro sia sottoposto a una specifica disciplina collettiva (in questi termini, Cass. n. 11537/2019). Le stesse Sezioni Unite 26 marzo 1997, n. 2665 citate avevano specificato che dopo la soppressione dell’ordinamento corporativo i contratti collettivi possono avere efficacia soltanto in volentes, ossia, ancora, che la loro efficacia, non estesa alla generalità, è limitata a quanti, con l’iscrizione alle associazioni sindacali, hanno a queste conferito la rappresentanza dei propri interessi nella stipulazione dei contratti collettivi, dunque, con una adesione espressiva di una “caratteristica” rappresentanza (art. 1387 ss. c.c.). Efficacia del contratto collettivo Dalla ricostruzione giurisprudenziale compiuta risulta che il contratto collettivo di diritto comune è efficace ex art. 1372 c.c., dal punto di vista soggettivo, nei confronti delle parti stipulanti (e, cioè, da un lato, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e, dall’altro lato, le associazioni sindacali dei datori di lavoro o direttamente il datore di lavoro), nonché ex art. 1387 e ss. c.c. nei confronti dei lavoratori e dei datori di lavoro che alle parti stipulanti hanno conferito mandato, in base alle regole sulla rappresentanza. Inoltre, in conformità alla propria natura, il contratto collettivo è aperto all’adesione da parte dei datori di lavoro e dei lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti. Come si è visto, la giurisprudenza ha ritenuto che la volontà del datore di lavoro di obbligarsi ad applicare il contratto collettivo possa essere desunta non solo dall’iscrizione all’associazione stipulante o da un esplicito atto di adesione al recepimento del contratto collettivo, ma anche attraverso fatti o comportamenti concludenti, che sia pure implicitamente esprimono la volontà del datore di lavoro di applicare la disciplina collettiva. Di conseguenza, il contratto collettivo è efficace anche nei confronti delle parti del rapporto di lavoro che, pur non essendo iscritte ai sindacati stipulanti, abbiano volontariamente aderito alla disciplina del contratto collettivo, o l’abbiano comunque recepita. Nella prassi, tale recepimento viene solitamente effettuato mediante una esplicita clausola inserita nei contratti individuali di lavoro, con la quale si fa rinvio alla disciplina o al trattamento economico e normativo previsto dal contratto collettivo nazionale del lavoro (adesione esplicita); oppure quando il datore ne fa applicazione in via di fatto, seppur in assenza di adesioni espresse o il lavoratore ne chieda l’applicazione in via giudiziale (adesione implicita). Nel caso di specie, è propria quest’ultima l’ipotesi di vincolatività che è stata posta alla base della domanda dai ricorrenti, atteso che il datore di lavoro (non iscritto ad alcuna associazione stipulante l’uno o l’altro contratto collettivo in discussione) era vincolato al CCNL Terziario – in base alla pregressa e costante applicazione di fatto nei confronti di tutti gli altri assunti in precedenza, quale che fosse il servizio effettuato e l’epoca della loro assunzione – mentre i lavoratori ricorrenti vi hanno prestato adesione con la richiesta di applicazione del contratto, pure invocata con la domanda giudiziale. Inoltre, quanto alla posizione processuale ed all’onere della prova, va ribadito come nel caso in esame non sia stato contestato che la società facesse costante applicazione del CCNL Terziario prima dell’assunzione dei ricorrenti, i quali pertanto, alla luce della causa petendi azionata, non erano onerati di dimostrare che i loro rapporti dovessero rientrare nell’ambito di efficacia dello stesso CCNL in ragione dell’effettiva attività svolta ai sensi dell’art. 2070 erroneamente richiamato nella sentenza impugnata. Atteso ciò, deve essere sottolineato che la reiterata e costante applicazione di fatto del CCNL all’interno di una medesima impresa (nei confronti di centinaia di lavoratori assunti reiteratamente con contratti regolati dal medesimo CCNL) configura un comportamento concludente con valore negoziale, con insorgenza a carico del datore di lavoro dell’obbligo di rispettare il medesimo CCNL anche nei confronti dei nuovi assunti i quali ne abbiano richiesto l’applicazione. Infine, va pure evidenziato che, come risulta dalle memorie conclusive depositate da entrambe le parti, nel caso di specie il medesimo CCNL del Terziario Distribuzione e Servizi sia stato pure applicato dalla società in corso di causa, a partire dal novembre 2023, ai medesimi ricorrenti i quali risultano quindi già inquadrati nella classificazione professionale di cui al CCNL, invocata nella domanda quale indice del comportamento concludente osservato dal datore nel senso dell’obbligatorietà dell’applicazione del CCNL anche nei confronti dei nuovi assunti e della realizzazione dell’uniformità del trattamento. Conclusioni In buona sostanza, l’ordinanza in commento si allinea all’indirizzo segnato dalle sezioni unite, dalla sentenza 2665/1997. Dal lungo periodo di tempo trascorso, attesa l’inattuazione dell’art. 39 Cost, l’orientamento giurisprudenziale ha definito i contratti collettivi quali negozi giuridici di diritto comune, con la connessa serie di effetti mirati esclusivamente nei riguardi degli associati alle organizzazioni sindacali stipulanti, oltre che nei riguardi dei soggetti che vi abbiano, di fatto, prestato adesione, sia esplicitamente, sia implicitamente. In questi termini, conseguentemente, deve ritenersi inapplicabile la previsione del già più volte citato comma 1 dell’art. 2070 c.c. che, diversamente, in caso di applicazione, comporterebbe una efficacia generalizzata dei contratti collettivi nei riguardi di datori e lavoratori appartenenti ad un’unica categoria professionale. La ulteriore elaborazione della controversia spetterà al giudice di rinvio. Pasquale Dui, avvocato in Milano e professore a contratto nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca Visualizza il documento: Cass., ordinanza 18 marzo 2024, n. 7203 Scarica il commento in PDF L'articolo Adesione di fatto al contratto collettivo e inapplicabilità dell’art. 2070 c.c. sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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