1. Breve introduzione
La sentenza 11 marzo 2024, n. 2285 della Settima Sezione del Consiglio di Stato offre numerosi spunti di riflessione con riguardo ad una serie di istituti che lambiscono materie oggetto di interesse sia dal punto di vista amministrativo che dal punto di vista contabile.
Quanto ai fatti di causa, che è utile ripercorrere brevemente ai fini di un più intellegibile inquadramento degli istituti oggetto di richiamo nel proseguo, si tratta della richiesta, da parte di un docente universitario, di revoca di una precedente sentenza, emanata dalla giustizia amministrativa, con la quale si confermava la correttezza dell’agire dell’amministrazione datrice di lavoro, che aveva provveduto – ricorrendo allo strumento dell’ingiunzione – al recupero delle somme indebitamente percepite per lo svolgimento di incarichi extra-istituzionali non autorizzati.
In particolare, il ricorrente fondava la richiesta di revoca sull’assoluzione intervenuta a suo favore in sede contabile, ove era stata esclusa la sussistenza del danno erariale con conseguente venir meno – secondo la prospettazione di parte – dell’azione di ripetizione.
Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso.
Al fine di seguire l’iter logico argomentativo sviluppato dal giudicante, ci si soffermerà – nei limiti concessi da questo spazio riflessivo – sugli istituti che vengono in rilievo dalla lettura della motivazione.
2. Sulla violazione del divieto di svolgimento di attività extra-istituzionali senza autorizzazione
Secondo quanto disposto dal co. 7 art. 53 d.lgs. 165/2001, i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza.
Con specifico riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal decreto citato.
In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
Emerge, dunque, conformemente ai principi generali vigenti in materia di inquadramento dei pubblici dipendenti, come ogni modifica del regime di espletamento della prestazione lavorativa debba trovare fonte nell’attività provvedimentale dell’amministrazione datrice di lavoro, non bastando la semplice istanza del diretto interessato, in quanto la P.A. è tenuta – prima di concedere detta autorizzazione – a controllare la sussistenza di eventuali cause di incompatibilità, al fine di garantire il principio del buon andamento ex art. 97 Cost.
Non solo: l’Amministrazione dovrà anche valutare che il tempo e l’impegno profusi nell’espletamento dell’incarico esterno siano compatibili con la tipologia di contratto di cui il richiedente è titolare, dovendosi altresì garantire che la maggior parte dell’impegno lavorativo, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, venga profuso a favore della P.A., in virtù del principio di esclusività del rapporto di lavoro alle dipendenze del datore di lavoro pubblico.
Ora, constatata l’avvenuta violazione, si pone il problema relativo all’inquadramento (
rectius, alla individuazione della natura) delle conseguenze scaturenti dalla condotta illecita del dipendente, ossia, il recupero delle somme percepite dallo stesso, da incamerarsi nelle casse dell’Amministrazione datoriale.
Secondo una parte della giurisprudenza, si tratterebbe di una previsione non sanzionatoria, bensì risarcitoria (TAR Veneto, sez. I, n. 1375/2014, nonché C. Conti sez. giurisd. Liguria, n. 54/2015), come risulterebbe evidente dall’inciso della norma «salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare», nonché dal fatto che l’obbligo di versamento è imposto
in primis all’erogante, ossia ad un soggetto estraneo al rapporto di lavoro, in difetto, ossia qualora le somme siano già state erogate, al dipendente.
Secondo una diversa prospettazione, si tratta di una tipica sanzione pecuniaria di tipo ripristinatorio, mirante a ristabilire il rapporto di fiducia e di esclusività che deve sussistere tra dipendente a tempo pieno e amministrazione di appartenenza, incrinato dallo svolgimento di prestazioni lavorative extra-istituzionali non autorizzate.
Inoltre, non essendo previsti dall’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 specifici termini prescrizionali, deve reputarsi che il termine per la restituzione dei compensi è quello ordinario decennale (ex art. 2946 c.c.), decorrente dal giorno in cui il diritto a tale recupero può essere fatto valere dall’amministrazione di appartenenza del dipendente (ex art. 2935 c.c.).
È evidente come ciò che più caratterizza la fattispecie in esame è la circostanza per cui, rispetto ad altre fattispecie di recuperi di indebiti o di riversamenti di somme comunque non spettanti al dipendente percettore, il soggetto erogante il compenso è soggetto diverso da quello al quale viceversa questi compensi devono essere riversati.
Per intendersi, diversamente dal caso in cui il rapporto è bilaterale tra i due soggetti, per cui chi liquida è anche il sostituto d’imposta per il compenso erogato, per cui il riversamento consente anche il recupero della quota che l’amministrazione ha versato al fisco in luogo del dipendente, al quale spetterà poi di poter regolare autonomamente la propria posizione fiscale, nel caso in esame i soggetti del rapporto risultano essere tre: l’amministrazione, il dipendente e il terzo per il quale la prestazione è stata svolta.
Pertanto, l’amministrazione o il privato a favore del quale l’incarico è stato svolto e che ha liquidato il compenso al dipendente percettore (ed è stato anche il sostituto di imposta per quell’importo) è un soggetto diverso dall’amministrazione alla quale, se si realizza la violazione voluta dalla norma, il compenso deve essere riversato dal dipendente stesso o dal soggetto (pubblico o privato) che ha pagato l’incarico svolto.
La questione, pertanto, presenta parimenti indubbi profili di interesse per le conseguenze verificabili in ambito tributario.
3. Differenza di oggetto tra giudizio contabile e amministrativo
Come evidenziato
in limine, la richiesta di parte ricorrente era fondata sull’avvenuta esclusione, da parte della Corte dei Conti, del danno erariale nella fattispecie in esame, così postulando una sorta di presupposto logico tra giudicato contabile ed esito del processo amministrativo.
Come rilevato dal Collegio, tra giudizio contabile e amministrativo, invero, sussiste una differenza di oggetto in grado di escludere che gli esiti del primo possano influenzare il secondo: mentre il giudizio contabile è volto a valutare la sussistenza del danno erariale, il giudizio amministrativo è volto a valutare la legittimità della pretesa esercitata dall’amministrazione resistente.
Più nello specifico, l’Università – in questo caso – esercita poteri di tipo datoriale, funzionali all’adempimento dell’obbligazione di pagamento gravante
ex lege sul dipendente precettore, relativa alle prestazioni svolte in assenza di apposita autorizzazione.
Va però chiarito come, in virtù del principio di unicità del danno, non sarebbe possibile riscuotere presso il dipendente le somme dovute sia in sede contabile che in sede amministrativa.
In questo senso, le Sezioni Unite hanno tracciato le linee di coordinamento tra l’azione del Procuratore presso la Corte dei Conti e quella dell’amministrazione.
La prima, contabile, sorge di fronte all’inerzia dell’amministrazione (Cass., Sez. Un., 13 ottobre 2021, n. 27890). Una volta che il Procuratore abbia promosso l’azione di responsabilità in relazione alla tipizzata fattispecie legale è precluso alla P.A. l’esercizio di quella volta a far valere l’inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, dovendosi escludere, stante il divieto del
bis in idem, una duplicità di azioni attivate contestualmente che, seppure con la specificità propria di ciascuna di esse, siano volte a conseguire, dinanzi al giudice munito di giurisdizione, lo stesso identico
petitum, in danno del medesimo soggetto obbligato in base ad un’unica fonte legale (Cass., Sez. Un., 14 gennaio 2020, n. 415).
Ove il recupero risulti avviato da parte dell’amministrazione in base ai poteri datoriali, la controversia che ne è sorta, promossa dal dipendente, non esibisce i tratti del contesto erariale, ma mostra un
petitum sostanziale rivolto a contestare l’esercizio di poteri datoriali (in questo caso in regime di lavoro pubblico).
In altre parole, la sentenza della Corte dei Conti, nel caso che ci interessa, si è occupata di stabilire l’insussistenza dell’elemento soggettivo della colpa grave, in modo da escludere che al ricorrente potesse essere addebitato il danno erariale discendente dall’indebita percezione delle differenze stipendiali per il tempo pieno, delle somme a titolo di indennità di carica e dei compensi per incentivazione dell’impegno didattico.
Invece, nel procedimento dinanzi al giudice amministrativo, si discute di una particolare sanzione ripristinatoria
ex lege, predeterminata nel suo ammontare e pari alla somma dei compensi non autorizzati, che è finalizzata a rafforzare la fedeltà del dipendente pubblico e a ricostituire la relazione di esclusività che deve intercorrere tra quest’ultimo e l’amministrazione di appartenenza.
In tale ottica, la sanzione della restituzione dei compensi si applica in maniera oggettiva, sulla base del semplice accertamento della mancanza di autorizzazione all’espletamento di incarichi extra-istituzionali e prescinde dall’elemento soggettivo e dagli altri elementi costitutivi della responsabilità per danno erariale, quali l’evento e il nesso di causalità, per attestarsi in una dimensione
sui generis, connotata dal ristabilimento dell’ordine giuridico violato e della corretta dialettica tra gli interessi contrapposti delle parti del rapporto lavorativo (cfr. Cass. Civ., SS.UU., 4 aprile 2017 n. 8688).
In definitiva, l’insussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito contabile è aspetto assolutamente estraneo alla struttura giuridica della misura sanzionatoria o risarcitoria (a seconda dell’indirizzo che si intende avvalorare), emanata dall’Università, la quale è irrogabile sulla scorta dell’oggettiva trasgressione del divieto di svolgimento di incarichi esterni non autorizzati.
Maria Rosaria Calamita, dottore di ricerca in Scienze Giuridiche e funzionario del Consiglio di Stato.
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Cons. Stato, sez. VIIª, 11 marzo 2024, n. 2285
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Giudizio amministrativo e giudicato contabile nel caso di recupero di somme indebitamente percepite per lo svolgimento di incarichi extraistituzionali non autorizzati dall’amministrazione di appartenenza* sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.