Lo scopo della persuasione si ottiene con l’obbligo di sinteticità e chiarezza
Per quanto mi riguarda, mi ha persuaso Aristotele. Tra le tante teorie dell’argomentazione, quella che lo Stagirita illustra nella Retorica è perfettamente adatta alla struttura del processo, e alla struttura e alla lingua degli scritti difensivi.
Il processo è, infatti, un meccanismo dialogico attraverso il quale si giunge all’accertamento della ‘verità’, termine da usare con le pinze qualunque significato gli si voglia attribuire. L’esistenza stessa dei tre gradi di giudizio ci dice che questa ‘verità’ coincide in realtà con il punto di vista ritenuto alla fine preferibile.
L’avvocato comincia ad argomentare identificando il più vantaggioso tra gli stati di causa fissati dal retore Ermagora di Temno nel II secolo a.C.:
- L’attribuzione del fatto, cioè se il fatto sia stato commesso o no
- La definizione del fatto, cioè se il fatto sia illecito o no, oppure se il fatto sia questo illecito e non quello
- La qualificazione del fatto, cioè se esiste un buon diritto che giustifica la commissione del fatto
- L’ambiguità di una disposizione, cioè la sua interpretabilità in sensi differenti
- Il contrasto tra la lettera di un testo e l’intenzione dell’autore
- Il conflitto tra disposizioni, cioè se esiste un contrasto tra disposizioni pertinenti al caso
- Il reperimento di una norma in caso di lacuna normativa, che avviene ragionando su norme che regolano casi simili
Ho detto “il più vantaggioso” perché la qualità di un’argomentazione si giudica dal risultato. Per persuadere il giudice bisogna individuare uno scopo ragionevolmente perseguibile, che non coincide necessariamente con lo scopo in astratto migliore.
Con lo stato di causa, l’avvocato sceglie il suo punto di vista sulla controversia. Un punto di vista, come tale, può essere solo sostenuto razionalmente con fatti e buone ragioni e non può essere dimostrato logicamente. Per esempio, una dimostrazione è che l’acqua è composta da due molecole di idrogeno e una di ossigeno. Questa affermazione è sempre valida, è indipendente dal contesto e dal destinatario e, soprattutto, non produce alcuna modifica nel mondo.
L’avvocato, invece, mira a modificare il mondo a vantaggio del suo cliente, cioè mira a persuadere il giudice a scrivere quella sentenza.
Il modello aristotelico quindi esalta anche il valore azionale della lingua (comunichiamo per fare e far fare qualcosa), ormai sufficientemente elucidato dalla pragmatica (John Austin, Come fare cose con le parole, 1966).
In un processo ci sono almeno due punti di vista diversi. Il giudice si persuade di quello che ritiene preferibile. Aristotele, al proposito, dice: “ciò che è persuasivo, è persuasivo per qualcuno”.
Qui entra in gioco la parola, cioè la struttura dell’atto, dall’oggetto alla paragrafatura alle evidenziazioni, e lo stile.
Un atto ordinato, pulito, semplice da scorrere verso le informazioni importanti (qualcuno lo chiama legal design) e uno stile rapido da leggere massimizzano la persuasività, perché nessuno si persuade se non capisce bene.
I recenti obblighi di sinteticità e chiarezza – a dir la verità non tanto recenti per gli avvocati amministrativisti – ci avvertono che gli scritti difensivi falliscono o ostacolano la comprensibilità, rallentando anziché accelerare la durata dei processi.
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