L’antefatto
Dopo aver già svolto all’incirca una decina d’anni di “precariato”, un insegnante di sostegno viene assunto con contratto a tempo determinato ai sensi dell’art. 59 del d.l. 25 maggio 2021, n. 73, convertito con modificazioni dalla l. 23 luglio 2021, n. 106.
Tale disposizione normativa di carattere straordinario (inizialmente prevista solo per l’anno scolastico 2021/2022 e poi prorogata) ha previsto lo scorrimento delle vigenti graduatorie al fine di reclutare insegnanti di sostegno mediante un contratto a tempo determinato della durata di un anno scolastico con funzione di formazione e prova.
Nel caso di valutazione positiva del periodo di prova, l’insegnante è ammesso a sostenere un esame (denominato “prova disciplinare”) a cui, ove superato, segue l’assunzione a tempo indeterminato con efficacia retroattiva a far data dalla sottoscrizione del contratto a termine.
Orbene, la condizione di grave disabilità che preclude al lavoratore l’utilizzo degli arti inferiori (a cui si aggiunge anche l’invalidità civile nella misura del 100%) dapprima lo costringe ad assentarsi per malattia e poi a richiedere un periodo di aspettativa non retribuita. Inoltre, proprio per evitare che lo
status morboso indotto dalla disabilità potesse comportare il superamento del periodo di comporto previsto dal dato contrattual-collettivo, l’insegnante segnala al datore di lavoro che la normativa per i lavoratori “fragili” originata dall’emergenza pandemica escluderebbe dal computo il periodo di malattia in quanto equiparato al ricovero ospedaliero.
Nonostante ciò, nel corso della astensione per malattia del lavoratore e senza che il termine di comporto fosse stato superato, il dirigente scolastico attiva la procedura di convocazione a visita medica per l’accertamento dell’idoneità al lavoro all’esito della quale, nelle more dello svolgimento di alcuni incombenti istruttori, viene dichiarato «
non idoneo temporaneamente al servizio in modo assoluto» per un periodo di circa due mesi.
Ciò induce il lavoratore a reiterare invano, per ben tre volte, le richieste di fruizione di un periodo di aspettativa non retribuita e di malattia. Trascorso qualche mese il lavoratore viene convocato dinanzi alla commissione di verifica che lo giudica «
inidoneo permanentemente in modo assoluto al servizio come dipendente di amministrazione pubblica» precisando che «
sussiste assoluta e permanente impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa».
Tale giudizio viene censurato dinanzi alla commissione di seconda istanza, ma il dirigente scolastico, seppur informato dell’impugnazione, invia al lavoratore la lettera di “risoluzione del contratto” motivandola sulla base dell’asserita insussistenza dei «
requisiti di permanenza come dipendente di amministrazione pubblica» e dell’impossibilità ad espletare la valutazione dell’anno di prova e formazione.
Infine, circa quattro mesi dopo, arriva la conferma della inidoneità lavorativa da parte della commissione di seconda istanza.
La discriminazione indiretta
A mente del dato contrattual-collettivo applicato, il lavoratore aveva diritto alla conservazione del posto per un periodo di nove mesi in un triennio scolastico.
Tuttavia, come correttamente evidenziato dal Tribunale di Milano (Sezione Lavoro) nella decisione che qui si annota del 13 dicembre 2023, n. 4276, nel periodo di comporto non avrebbero potuto essere computate le assenze indotte dalla disabilità del lavoratore (affetto da sclerosi multipla) giacché «
la applicazione allo stesso modo del calcolo del periodo di comporto per un lavoratore disabile ed uno non affetto da disabilità si traduce in una discriminazione».
Pertanto, la decisione del datore di lavoro di applicare nel caso di specie il termine previsto per la generalità dei lavoratori ha comportato una
discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (di trasposizione della Direttiva 2000/78 CE) dal momento che lo stato di malattia causato dall’
handicap aveva esposto il lavoratore disabile ad un rischio di superamento del comporto di molto maggiore rispetto agli altri colleghi.
La tutela contro la discriminazione per ragioni connesse alla disabilità va rintracciata: i) nella direttiva 2000/78/CE; ii) nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità; iii) nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18 e approvata dall’UE con “Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” (2010/48/CE).
Sulla scorta di tali fonti normative, la Corte di Giustizia UE (v. sentenza 18 gennaio 2018, in causa n. C-270/16,
Conejero) ha chiarito la natura discriminatoria indiretta della norma interna che, senza tenere conto della condizione di disabilità del lavoratore, preveda il licenziamento per l’ipotesi di superamento del comporto.
E ciò proprio in considerazione del fatto che il personale inabile è normalmente soggetto a una morbilità intermittente superiore a quella che colpisce gli altri dipendenti.
La disparità di trattamento che ne deriva può essere giustificata solo ove la norma interna persegua una finalità legittima (ad esempio, di contrasto all’eccessivo assenteismo intermittente) ed a patto che gli strumenti utilizzati possano essere considerati adeguati e necessari sulla base a una serie di indicatori.
Tale indirizzo giurisprudenziale è stato immediatamente recepito dalla Suprema Corte di Cassazione che lo ha ribadito in numerose pronunce tutte dello stesso segno: fra le altre si vedano: Cass., 21 dicembre 2023, n. 35747 commentata da M. SALVAGNI,
Corte di Cassazione 21 dicembre 2023, n. 35747: malattia collegata all’handicap, discriminazione indiretta e nullità del licenziamento del disabile per superamento del comporto, in
Labor, 22 febbraio 2024, a cui si rimanda per ogni opportuno approfondimento sulla tematica; Cass., 31 marzo 2023, n. 9095 commentata da F. BORDONI,
Il periodo di comporto può essere discriminatorio. Tra discriminazione indiretta e accomodamenti ragionevoli: la Cassazione puntualizza, in
Labor, 13 giugno 2023.
Negli stessi termini si segnala anche un costante indirizzo dei Giudici e delle Corti di merito di cui si può avere contezza consultando i commenti di: A.M. BATTISTI,
Discriminazione indiretta per superamento del periodo di comporto della lavoratrice in stato di disabilità, in
Labor, 5 agosto 2023; C. OGRISEG,
Licenziamento per superamento del comporto e disabilità: nascoste sotto la cenere le braci della discriminazione indiretta, in
Labor, 29 maggio 2023; V.A. POSO,
Un interessante caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto di una lavoratrice disabile dichiarato nullo per discriminazione indiretta, in
Labor,
www.rivistalabor.it, 2 agosto 2021.
La discriminazione diretta
In ragione della discriminazione indiretta perpetrata a suo danno il lavoratore è stato licenziato per inidoneità
sopravvenuta alla prestazione, ovverosia per motivo giustificato oggettivo, sebbene a mente dell’art. 55-
octies d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 la p.a. datrice di lavoro abbia la facoltà – ma non l’obbligo – di intimare tale tipologia recesso. Nell’ambito della propria discrezionalità, infatti, il datore di lavoro è chiamato a valutare la correttezza del procedimento attraverso il quale è stato acquisito il giudizio medico-legale e/o l’adeguatezza delle motivazioni addotte e/o l’opportunità di un’ulteriore integrazione o approfondimento (v. Cass., 4 ottobre 2016, n. 19774).
Tale interpretazione risulta coerente con l’art. 3, comma 3
bis, del d.lgs. n. 216/2003, attuativo dell’art. 5 della Direttiva 2000/78 CE, a mente del quale i datori di lavoro pubblici hanno l’obbligo di adottare
accomodamenti ragionevoli senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.
Pertanto, la forma tipica del recesso del datore di lavoro è, anche per l’impiego pubblico privatizzato, il licenziamento, senza che, in difetto di norme speciali, possano trovare ingresso cause di risoluzione automatica del rapporto.
Nel caso di specie, il Tribunale milanese fa correttamente notare che la direzione scolastica aveva avviato il docente a visita medica di verifica sebbene la normativa vigente (art. 3, d.p.r. 27 luglio 2011, n. 171) prevedesse questa evenienza soltanto dopo il superamento del periodo di prova (che, invero, non era neppure iniziato) e che aveva spiccato il licenziamento addirittura nelle more della fase di reclamo della procedura medico-legale.
Insomma, il datore di lavoro non solo non si era attivato per cercare una soluzione di buon senso che tenesse in debito conto le condizioni del lavoratore (che peraltro all’esito del giudizio sono risultate pienamente compatibili con l’attività di docenza), ma non aveva neppure ritenuto di dover attendere la definizione della procedura attivata sebbene il lavoratore avesse richiesto l’aspettativa non retribuita ed il contratto di lavoro a termine sarebbe scaduto entro due mesi.
Di conseguenza, il lavoratore ha subito anche una
discriminazione diretta rappresentata dal licenziamento intimatogli in ragione della sua patologia, in applicazione di una procedura in violazione di una specifica disposizione normativa, in base ad un accertamento non definitivo e senza avergli dato la
chance di effettuare la prova per la quale era stato assunto.
La nullità del licenziamento e la doppia tutela
Il Tribunale milanese ha dichiarato la nullità del licenziamento comminato in quanto discriminatorio e, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità (v. Cass. 29 ottobre 2013, n. 24335), ha condannato il datore di lavoro all’adempimento di un obbligo di tipo risarcitorio, ovverosia al pagamento di una somma commisurata alle retribuzioni che sarebbero state maturate fino alla naturale scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato.
Tuttavia, la normativa applicabile prevede il diritto del docente a reiterare l’anno di prova in caso di esito negativo dello stesso in sede di primo svolgimento. Pertanto, dal momento che nel caso di specie la prova non era neppure cominciata (il lavoratore aveva prima goduto di un periodo di malattia, poi di un periodo di aspettativa e, infine, era stato licenziato in maniera discriminatoria), ne consegue la condanna del datore di lavoro a ripristinare il rapporto di lavoro (una sorta di “reintegrazione di fatto”) per consentire al lavoratore di svolgere effettivamente l’anno scolastico di prova e formazione.
Brevi riflessioni conclusive
La vicenda in parola appare correttamente ricostruita dal Giudicante che ha ricondotto indirizzi giurisprudenziali ormai stratificati ai vari profili della fattispecie.
Tuttavia, non può non evidenziarsi l’ontologico contrasto fra il diritto del lavoratore disabile e quello studente bisognoso dell’insegnante di sostegno, entrambi di rilievo costituzionale, che ha posto l’amministrazione datrice di lavoro in grande difficoltà sul piano gestionale.
Nonostante ciò, la decisione assunta dal dirigente scolastico appare criticabile in quanto capace, in un colpo solo, di violare il principio di uguaglianza, il diritto al lavoro, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, il diritto alla salute, il diritto all’assistenza ed il diritto a beneficiare di prestazioni previdenziali in caso di malattia.
Giuseppe Leotta, docente di diritto dello spettacolo presso il Conservatorio di musica “Santa Cecilia” di Roma, dottore di ricerca e avvocato in Roma
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Trib. Milano, 13 dicembre 2023, n. 4276
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Nullità del licenziamento discriminatorio dell’insegnante disabile assunto a termine. Diritto allo svolgimento del periodo di prova e conseguente reintegrazione in servizio sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.