La sentenza n. 38183 del 30 dicembre 2022 pronunciata dalla Corte di Cassazione è degna di nota per alcuni profili che in questa sede possiamo solo segnalare: effetti della risoluzione del rapporto di lavoro a seguito della cessazione del contratto di appalto e corretta interpretazione della comunicazione datane al lavoratore, intesa come formale, secondo, licenziamento, nel caso di specie non impugnato; diritto del lavoratore licenziato all’assunzione alle dipendenze della società subentrante nell’appalto cessato, negato per l’inammissibilità della domanda proposta con il rito c.d. Fornero.
Profili oggetto dei due motivi di impugnazione rigettati dal Supremo Collegio, che ha, invece, confermato la pronuncia della Corte territoriale sulla insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento intimato a seguito di una erronea inclusione del lavoratore interessato tra quelli incisi dall’interdittiva prefettizia antimafia, che aveva dato origine al primo recesso, regolarmente impugnato.
Desta, invece, particolare interesse (e al lettore non ne sfuggirà la ragione) l’accoglimento del secondo motivo di impugnazione della sentenza di appello proposto dalla parte lavoratrice (violazione dei commi 4 e 7 dell’art. 18, st. lav., novellato), all’esito del quale la Corte di Cassazione, annullandola con rinvio, afferma – a chiare lettere – «
la sussistenza del diritto al risarcimento del danno, nella misura minima di cinque mensilità, per effetto del combinato disposto dei commi 7 (come riformulato da Corte cost. n. 59/2021), 2 e 4 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970», nel caso di specie, non contestato, di tutela reintegratoria c.d. attenuata.
Scriviamo che si tratta di una affermazione fatta
“a chiare lettere”, perché il S.C., accogliendo il secondo motivo di impugnazione (seppure nei termini della decisione pronunciata), fa proprie le conclusioni precisate sul punto dal P.G. e richiama la giurisprudenza di legittimità (sebbene tutta precedente alla riforma introdotta dalla l. 28 giugno 2012, n.92).
Del resto, anche la motivazione della sentenza impugnata (Corte di Appello di Catania, 11 marzo 2019,n. 272), disattesa dai giudici di legittimità, è chiara, su questo punto: «
… anche le ragioni di critica riferite al mancato riconoscimento, in sentenza, dell’indennità risarcitoria di cui al comma 4 del novellato art. 18 l 300/1970 sono frutto di asserzioni apodittiche e mere opinioni immotivate (“sarebbe anche in un’ottica sistemica poco comprensibile”),
del tutto prive di riferimento al testo legislativo in commento e alle argomentazioni espresse sul punto dal tribunale, sul piano della stretta interpretazione del nuovo art. 18 st.lav. (in particolare laddove si evidenzia che solo al primo comma, relativo al licenziamento nullo o inefficace, e non anche al comma 4, sia stato previsto il risarcimento del danno cd. minimo garantito delle cinque mensilità, con finalità afflittive e sanzionatorie); né – diversamente da quanto in doglianza – tale interpretazione può, del resto, dirsi contraria al sistema, che risulta ispirato al principio generale della risarcibilità del “danno effettivo” ed assume invece come eccezionali e di stretta interpretazione le ipotesi di risarcimento del “danno punitivo”».
E chiara, sul punto, è anche la motivazione della sentenza del Tribunale di Catania n. 1270 del 20 marzo 2018, che, pur dichiarando illegittimo il licenziamento, in parziale riforma dell’ordinanza sommaria dello stesso Tribunale in data 24 -26 aprile 2017, aveva escluso l’applicazione delle invocate tutele – reintegratoria e risarcitoria – di cui all’art. 18, st.lav., in quanto ad esso (che, ai sensi dell’art. 1, comma 41, l. n.92/2012, produceva effetti dal 23 novembre 2015, giorno di comunicazione della procedura attivata ex art 7, l. 15 luglio 1966, n. 604) ne era seguito un altro, intimato, con missiva del 28 dicembre 2015, a motivo della scadenza, alla data del 31 dicembre 2015, dell’appalto del servizio di igiene urbana col Comune interessato, il quale, non essendo stato oggetto di alcuna impugnativa, costituiva una autonoma causa di risoluzione del rapporto di lavoro, il cui tenore letterale rendeva palese, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la volontà risolutoria del rapporto in relazione alla cessazione dell’appalto.
Così argomenta, sul punto controverso, il Tribunale di Catania: «
Non operando più, trattandosi di ipotesi prevista per il licenziamento nullo o inefficace ai sensi del primo comma dell’articolo 18 St. Lav., la presunzione assoluta del danno pari a cinque mensilità di retribuzione originariamente prevista dal quarto comma dell’articolo 18 St. Lav. con finalità afflittive e sanzionatorie dell’illegittimo comportamento datoriale e quale penale connaturata al rischio di impresa, opera nella specie, stante l’accertata illegittimità del licenziamento, la presunzione iuris tantum,
suscettibile di prova contraria, che fa il danno pari a tutte le retribuzioni ordinarie non percepite , ossia al trattamento economico che il lavoratore avrebbe percepito se il rapporto fosse normalmente proseguito invece di subire la soluzione di continuità del licenziamento, presunzione iuris tantum
cui si accompagna, ai sensi dell’attuale dizione del comma 4 dell’art.18, soltanto un limite massimo (di dodici mensilità) e non anche un limite minimo garantito (in precedenza, invece, previsto per le ipotesi oggi rientranti nel comma quarto dell’articolo 18 applicabile al caso in esame)».
Nel caso di specie il rapporto era venuto meno con la cessazione dell’appalto (anche se la risoluzione del rapporto era da ricondurre al precedente licenziamento per g. m. o.), e siccome il ricorrente aveva comunque
lavorato, percependo la relativa retribuzione, nel periodo compreso dal 23 novembre 2015 (data di efficacia del primo licenziamento) sino al 31 dicembre 2015 (data di definitiva cessazione del rapporto), nessuna indennità risarcitoria poteva liquidarsi in favore del ricorrente che non aveva subito danno alcuno da commisurare alle retribuzioni perdute.
La tesi difensiva sostenuta dal ricorrente, coerentemente in tutti i giudizi, che trova ora felice approdo in Cassazione, nasce dalla convinzione che il nuovo art. 18, st. lav., che prevede solo il tetto massimo risarcitorio, non significa che il giudice non possa liquidare anche un minimo risarcitorio; escluderlo “in un’ottica sistemica” sarebbe “poco comprensibile”; il giudice di prime cure avrebbe confuso “un criterio di commisurazione del danno (la retribuzione) con la natura risarcitoria dell’indennità in questione, facendola diventare retributiva”. In definitiva, “secondo la
lettera legis”, l’indennità risarcitoria, nel caso di totale infondatezza del licenziamento, sarebbe fissata nella misura massima di dodici mensilità, detratto quanto percepito a titolo retributivo, fermo restando il limite minimo risarcitorio.
La Corte di Cassazione ha prima dato conto delle due recenti sentenze della Corte Costituzionale (n. 59 del 1° aprile 2021 e n. 125 del 19 maggio 2022) che hanno inciso il comma 7 dell’art. 18, st.lav., rendendo così obbligata la strada della tutela reintegratoria in caso di insussistenza del g. m. o. di licenziamento. E in proposito è stata richiamata la recente pronuncia della Cassazione n. 30167 del 13 ottobre 2022, che al punto n. 6 della motivazione ha affermato il seguente principio: «
Per effetto dell’intervento del giudice delle leggi, il giudice, una volta accertata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi – la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica. Pertanto, l’apprezzamento della sussistenza dei vizi denunciati con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità».
È stata, poi, richiamata la sua precedente pronuncia n. 28703 del 23 dicembre 2011, che (in un caso di specie in cui il primo licenziamento collettivo, impugnato e dichiarato illegittimo, non era stato oggetto di reintegrazione da parte del datore di lavoro ma ad esso aveva fatto seguito un secondo licenziamento per superamento del periodo di comporto, anche questo impugnato), dato atto che il risarcimento in misura minima ha carattere autonomo rispetto alla tutela c.d. ripristinatoria, aveva affermato che esso «
consegue ad ogni accertamento di illegittimità del licenziamento, per il solo fatto di essere stato intimato e indipendentemente dalla necessità di un intervento reintegratorio, perciò anche quando il rapporto di lavoro abbia avuto un’interruzione inferiore ai cinque mesi o non abbia avuto alcuna interruzione, a prescindere dall’esistenza di una colpa del datore di lavoro e da un’eventuale revoca del licenziamento (cfr., ad es., Cass. 1.7.04 n. 12102, nonché – in anni meno recenti – Cass. 21.12.95 n. 13047 e Cass. 12.10.93 n. 10085) e persino a prescindere dall’interesse del lavoratore alla reintegra (cfr. Cass. 24.10.91 n. 11300), cui – in ipotesi – potrebbe anche rinunciare»
.
Peraltro, alla luce di altra precedente giurisprudenza della Cassazione (sentenze 22 marzo 2007, n. 7049 e 26 luglio 1996, n. 6751), il licenziamento, in quanto negozio unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del dipendente, anche ove la sua efficacia risolutiva venga (per qualche ragione) differita ad un momento successivo, proprio come era avvenuto nel caso di specie deciso dalla sentenza n. 28703/2011,
cit. supra, in ragione dello stato di malattia che aveva sospeso gli effetti del primo licenziamento; restando, comunque, dovuto il risarcimento dei danni nella misura minima inderogabile di cinque mensilità.
La Corte di Cassazione, invece, nel caso di specie che ora ci occupa, non ha dato seguito alla domanda di condanna al pagamento delle retribuzioni maturate, risultando pacifica la circostanza che il lavoratore interessato abbia continuato a lavorare – percependo la relativa retribuzione – fra il 23 novembre 2015 (data di decorrenza del primo licenziamento) e il 31 dicembre 2015 (data di decorrenza del secondo licenziamento).
Nella vigenza del testo originario del 1970 dell’art. 18, st.lav., che, nella ricorrenza delle condizioni date, prevedeva la tutela reintegratoria e il risarcimento integrale dei danni, sempre, per tutti i casi di licenziamento inefficace, ingiustificato o nullo, nel contesto di un regime sanzionatorio di carattere unitario, non si ponevano particolari problemi. Il comma 2, secondo cpv., infatti, prevedeva, dalla data di recesso sino alla effettiva reintegra, il risarcimento per il danno subito a causa dell’illegittimo licenziamento determinato secondo i criteri di cui all’art. 2121 cod. civ., con il limite minimo di cinque mensilità dovute, in ogni caso, come penale irriducibile assistita da una presunzione assoluta di danno.
Ciò a dimostrazione del fatto che, nelle intenzioni del legislatore, la somma dovuta aveva una funzione non solo reintegratoria delle retribuzioni perdute ma anche sanzionatoria.
Una impostazione, questa, che resta confermata anche con la riforma introdotta dalla l. n. 108 dell’11 maggio 1990, il cui art. 1 ebbe a sostituire i primi due commi dell’art. 18 statutario, con la previsione, al comma 4, della condanna al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento inefficace o invalido, stabilendo una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (con la conseguente contribuzione previdenziale e assistenziale per lo stesso periodo), fermo restando sempre il limite delle cinque mensilità di retribuzione globale di fatto. Risarcimento minimo indefettibile anche in caso di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto (così, il comma 5, dell’art. 18, novellato nel 1990).
I problemi che si ponevano, risolti dalla giurisprudenza, riguardavano altri aspetti legati alla debenza del risarcimento minimo in alcuni casi particolari.
A proposito della sentenza qui annotata possiamo svolgere solo alcune considerazioni di carattere generale.
Con la sentenza n. 178 del 3 luglio 1975 la Corte Costituzionale dichiarò infondata la q. l. c. dell’art. 18, comma 2, st. lav., relativa alla misura minima predeterminata del risarcimento del danno derivante da una condotta illecita del datore di lavoro, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost.
I giudici costituzionali, dopo aver rilevato che la garanzia costituzionale della difesa opera entro i limiti del diritto sostanziale, potendosi, quindi, verificare soltanto una eventuale illegittimità della disposizione normativa sul limite minimo risarcibile per contrasto con l’art. 3, Cost, ove essa attribuisca ingiusto ed irrazionale privilegio ad una parte del rapporto di lavoro, hanno escluso la violazione del suddetto principio costituzionale con la seguente motivazione: «
La norma impugnata, innovando il regime stabilito dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, prevede che dalla sentenza di reintegra nel posto di lavoro consegua, in caso di mancata ottemperanza del datore di lavoro, l’obbligo di corrispondere al lavoratore anche le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro, dalla data della sentenza fino a quella dell’effettiva reintegrazione. Per il periodo antecedente alla sentenza, la riconosciuta invalidità del licenziamento comporta invece una disciplina particolare: da un lato il rapporto non può ritenersi estinto, sicché ai fini dell’anzianità va configurato come mai interrotto; dall’altro il legislatore ha previsto la sanzione del risarcimento danni, con la predeterminazione di un minimo. Da ciò deriva che sulla misura del risarcimento potrà incidere – oltre il limite di legge – quanto il lavoratore abbia in ipotesi guadagnato impiegando altrimenti le proprie energie. La predeterminazione di un risarcimento minimo, spettante in ogni caso di licenziamento invalido od inefficace, costituisce una presunzione legale che, per essere configurata in una misura realistica, in rapporto alle ipotesi più frequenti e alla durata media dei procedimenti pretorili, non contrasta con l’art. 3 della Costituzione, ma costituisce legittimo esercizio di discrezionalità politica da parte del legislatore»
.
Una posizione, questa, ribadita anche dalla successiva sentenza costituzionale n. 420 del 23 dicembre 1998, che ha escluso la violazione del principio costituzionale di ragionevolezza quanto alla presunzione assoluta di danno minimo pari a cinque mensilità di retribuzione, riconoscendo che «
il legislatore ha operato un non irragionevole bilanciamento complessivo per il fatto di aver simmetricamente riconosciuto al datore di lavoro l’esercizio della facoltà di recesso, idonea ad incidere unilateralmente ed immediatamente nella sfera degli interessi del lavoratore»
.
Aggiunge la Consulta: «La
previsione (di carattere eccezionale) di una presunzione iuris et de iure
di danno in caso di esercizio oggettivamente illegittimo di tale facoltà non fa che riequilibrare siffatto potere privato, a fronte del quale il lavoratore versa in una situazione di soggezione»
.
Nel solco di questa giurisprudenza merita segnalare, tra le tante, Cass., 21 settembre 1998, n. 9464, secondo la quale il risarcimento nella misura minima delle cinque mensilità costituisce una indennità «
quasi a titolo di penale avente la sua radice nel rischio di impresa»; risultando esso dovuto anche in assenza di dolo o di colpa in capo al datore di lavoro che ha intimato il licenziamento (v., anche: Cass., 27 gennaio 2011, n. 1950; Cass., 22 settembre 2011, n. 19286; Cass., 25 febbraio 2015,n. 3852; Cass., 21 marzo 2018, n. 7065).
Con la previsione del limite di risarcimento minimo delle cinque mensilità il legislatore ha inteso fornire, in favore del danneggiato, una predeterminazione del pregiudizio minimo sofferto, così essendo scolpita anche la sua funzione sanzionatoria (in tal senso, anche in coerente svolgimento della giurisprudenza costituzionale, v. Cass., 22 marzo 2011, n. 6499; Cass., 30 maggio 2005, n. 11401; Cass., 1° luglio 2004, n. 12102).
Una sanzione utile a garantire non solo l’effettività del precetto normativo in materia di licenziamento illegittimo e ingiustificato, ma anche quale concreto incentivo per l’adempimento dell’obbligo di reintegrazione disposto dal giudice.
E, tra le tante, Cass., 17 novembre 2016, n. 23435 e ancor prima Cass., 17 ottobre 2014, n. 22050 hanno precisato che, nel regime precedente alla riforma c.d. Fornero, il risarcimento minimo delle cinque mensilità rappresenta una parte irriducibile dell’obbligazione risarcitoria complessiva conseguente all’illegittimo licenziamento, dovuto, quindi, anche ove la reintegra, o l’esercizio dell’opzione per l’indennità sostitutiva, intervengano a meno di cinque mesi dal licenziamento invalido. In particolare, Cass., n. 23435/2016,
cit. supra, ha affermato che «
la predeterminazione di un risarcimento, minimo, spettante in ogni caso di licenziamento invalido od inefficace, costituisce espressione del legittimo esercizio di discrezionalità politica da parte del legislatore (v. Corte Cost. n. 178 del 1975) e determina che non possa incidere in senso riduttivo neppure un eventuale concorso colposo del lavoratore nella produzione del danno, danno che trova la sua fonte nell’illegittimità del licenziamento».
Per completezza di riferimenti, merita segnalare anche la sentenza 23 aprile 2018, n. 86 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la q. l. c. dell’art. 18, st. lav., versione “Fornero”, sollevata con riferimento all’art. 3, comma 1, Cost. per la natura risarcitoria, anziché retributiva, delle somme di denaro che il lavoratore ha diritto di ricevere dopo l’annullamento del licenziamento illegittimo; ma diversi sono gli sviluppi della giurisprudenza di legittimità, in proposito: v., tra le più recenti, Cass., 25 gennaio 2023, n. 2234, ed
ivi ulteriori riferimenti.
Il cambio di passo si verifica con la modifica dell’art. 18, st.lav., da parte della l. n. 92/2012, per quanto qui interessa, con riferimento alla fattispecie esaminata dalla sentenza annotata.
Nella disarticolazione del regime sanzionatorio conseguente al licenziamento illegittimo, giusta o sbagliata che sia, il minimo risarcitorio delle cinque mensilità come danno punitivo è previso
soltanto per le ipotesi disciplinate dal comma 1.
Per le ipotesi rientranti nella tutela reintegratoria attenuata è previsto esclusivamente il limite massimo del risarcimento del danno.
Ritenere il contrario, cioè una estensione del risarcimento minimo irriducibile anche alle ipotesi diverse da quelle disciplinate dal comma 1, non è, ad avviso di chi scrive, una interpretazione giustificata dal testo della legge e dall’intenzione del legislatore che ha inteso graduare e differenziare le tutele sanzionatorie conseguenti al licenziamento illegittimo, anche nel caso in cui sia comunque prevista la reintegrazione.
Ma procediamo con ordine.
L’incostituzionalità del comma 7 dell’art. 18, st. lav., novellato, nulla aggiunge e nulla toglie alla previsione della irriducibilità del risarcimento minimo delle cinque mensilità, che non appartiene alla fattispecie da esso disciplinata. Il fatto che nella mera (e non manifesta) insussistenza di un giustificato motivo oggettivo il giudice debba (e non possa) ordinare al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato e condannare il primo al risarcimento del danno nei limiti di quanto previsto dal comma 4 non rende possibile, a modesto avviso di chi scrive, anche l’applicazione del regime risarcitorio integrale previso dal comma 1, che, come detto, riguarda le ipotesi di particolare gravità, proprio nella scala dei valori e degli specifici vizi individuati dal legislatore.
Del resto, per arrivare alla soluzione interpretativa adottata, la Corte di Cassazione (facendo proprie le conclusione del P.G.), àncora il combinato disposto dei commi 7 e 4 dell’art. 18 anche al comma 2, che dispone il risarcimento in misura minima indefettibile, solo, però, con riferimento a quanto previsto dal precedente comma 1 per le ipotesi di reintegrazione piena (come, di fatto, avveniva per la norma statutaria).
A meno di non voler considerare dovuto il risarcimento minimo, quale “danno punitivo”, per il fatto che lo stesso deve essere necessariamente collegato alla condanna reintegratoria o, addirittura, ad ogni fattispecie di licenziamento illegittimo, anche quelle soggette alla mera tutela economica (la categoria dei “danni punitivi” si è imposta negli ultimi anni all’attenzione dei giudici di legittimità – sentenza della Prima Sezione Civile 15 aprile 2015, n. 7613 e ordinanza interlocutoria sempre della Prima Sezione Civile 16 maggio 2016, n. 9978 – per arrivare al pieno riconoscimento da parte delle Sezioni Unite con la nota sentenza 5 luglio 2017,n.16601, con l’affermazione che «
nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile»).
Un conto, infatti, è la reintegrazione in servizio, altra cosa è il risarcimento dei danni e la sua misura (senza poter entrare, in questa sede, nel merito della discussione che, soprattutto dopo le riforme del 2012 e del 2015, si è sviluppata sulla costruzione della tecnica risarcitoria pura o indennitaria per i casi illecito, secondo la graduazione della sua gravità).
In questa sede possiamo fare solo un quadro di sintesi della disciplina sanzionatoria, per arrivare ad una possibile, provvisoria conclusione.
Il principio affermato dalla Corte di Cassazione riguarda, specificamente, la fattispecie dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo, ex art. 18, comma 7, novellato (come interpretato dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale); ma a rigor di logica dovrebbe valere anche per le altre ipotesi previste dallo stesso comma 7, che rimanda all’applicazione della tutela prevista dal precedente comma 4 e alle fattispecie previste da questo stesso comma.
A mente del comma 4, infatti, la tutela prevista è quella della reintegrazione e del pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento alla data di effettiva reintegrazione, dedotto l’
aliunde perceptum e l’
aliunde percipiendum, in ogni caso entro il limite massimo delle dodici mensilità (con la conseguente regolarizzazione contributiva e previdenziale), se non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo o dai codici disciplinari applicati.
Il comma 7 rimanda alla tutela prevista dal precedente comma 4, anche per le ipotesi di insussistenza del motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, l. 12 marzo 1999, n. 68; o di violazione della disciplina del comporto ex art. 2110, comma 2, cod.civ. Rimanda, invece, al regime previsto dal comma 5 – del quale diremo subito dopo – per le altre ipotesi di ingiustificato motivo di licenziamento (assai ridotte, per la verità, dopo le pronunce della Corte Costituzionale nn. 59/2021 e 125/2022).
Il comma 7 fa salve le maggiori tutele per il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari previste dal medesimo art. 18.
Per le fattispecie previste dai commi 5 e 6, esclusa la reintegrazione, viene dichiarata la risoluzione del rapporto di lavoro, con la conseguente applicazione solo della tutela indennitaria, che in questi casi prevede un limite minimo e un limite massimo di risarcimento, così determinati: nel primo caso, tra le dodici e le ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; nel secondo caso, dalle sei alle dodici mensilità (ma se viene accertato un difetto di giustificazione del licenziamento, si ritorna ai regimi di cui ai commi 4, 5 o 7).
Va considerato, anche, che il limite minimo del risarcimento dei danni è fatto salvo dal comma 3 che disciplina l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, quale diretta conseguenza della disciplina posta dai precedenti commi 1 e 2.
Prevale, quindi, sia nelle ipotesi di tutela reintegratoria, che in quelle di mera tutela risarcitoria o indennitaria la previsione del limite minimo di risarcimento, variamente quantificato.
Lo stesso discorso vale per la disciplina, ancor più differenziata (ma al suo interno più coerente) introdotta dal d. lgs. 4 marzo 2015,n. 23 che, soltanto per le fattispecie disciplinate dall’art. 2 (commi 1 e 4 (licenziamento discriminatorio, nullo, orale, di disabile fisico o psichico per difetto di giustificazione anche ai sensi degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, l. n. 68/1999) e dall’art. 10 (che questa tutela richiama, con riferimento ai licenziamenti collettivi intimati in forma orale), prevede la reintegrazione (comma 1) e il risarcimento del danno subito (comma 2), determinato da una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, dal giorno del licenziamento alla data di effettiva reintegrazione, con la detrazione dell’
aliunde perceptum (e la conseguente regolarizzazione contributiva e previdenziale), fermo restando il limite risarcitorio minimo delle cinque mensilità.
Il comma 3, che prevede la facoltà per il lavoratore di esercitare l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, facendo salvo il regime previsto dal precedente comma 2, conferma anche il limite risarcitorio minimo delle cinque mensilità.
Per i licenziamenti disciplinari, in caso di insussistenza del fatto materiale, l’art. 3, comma 2 (che non si applica alle piccole imprese
ex art. 9) prevede la tutela reintegratoria e il pagamento di una indennità risarcitoria (determinata in base allo stesso criterio dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto), per il periodo che va dal giorno del licenziamento alla data di reintegra effettiva, dedotto l’
aliunde perceptum e l’
aliunde percipiendum (con la conseguente regolarizzazione contributiva e previdenziale). In questo caso, però, il Jobs Act non prevede alcun limite minimo risarcitorio ma soltanto il limite massimo di dodici mensilità per il periodo precedente alla pronuncia di reintegrazione. È consentita al lavoratore la facoltà di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, senza la previsione del limite minimo risarcitorio delle cinque mensilità (a differenza del regime di cui all’art. 2, comma 3), se la nostra lettura della norma è corretta.
Anche nella disciplina introdotta dal Jobs Act non mancano le previsioni di un limite minimo risarcitorio, variamente determinato, in caso di mera tutela risarcitoria o indennitaria.
L’art. 3, comma 1, per le ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o giusta causa (tranne le ipotesi di cui al comma 2), prevede l’estinzione del rapporto di lavoro e il pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio, ora non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità (importi dimezzati e in ogni caso in misura non superiore alle sei mensilità per le piccole imprese ex art. 9). Questa è la tutela prevista anche dall’art. 10, secondo cpv., per i licenziamenti collettivi in caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta.
L’art. 4, con riferimento alle ipotesi di vizi formali e procedurali, prevede l’estinzione del rapporto di lavoro e il pagamento di una indennità (come sopra indicata) determinata in una mensilità dell’ultima retribuzione (commisurata secondo il solito criterio) per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 12 mensilità ,fatte salve, comunque, le tutele ex artt. 2 e 3 se ne sussistono i presupposti (importi dimezzati e in ogni caso in misura non superiore alle sei mensilità per le piccole imprese ex art. 9).
Con lo stesso criterio di commisurazione della retribuzione (ma in questo caso la somma non è imponibile ai fini fiscali e previdenziali), per l’offerta di conciliazione l’art. 6 prevede, per ogni anno di servizio, una mensilità con i limiti minimo e massimo rispettivamente di 2 e 18 mensilità (importi dimezzati e in ogni caso in misura non superiore alle sei mensilità per le piccole imprese ex art. 9).
È appena il caso di ricordare che anche nell’area della tutela debole l’art. 8, l. n. 604/1966,
ratione temporis applicabile, prevede un limite minimo risarcitorio di 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Al netto delle molte disarmonie di sistema, non mancano i punti di contatto tra le due riforme del 2012 e del 2015, soprattutto con riferimento alle fattispecie disciplinate dalla reintegrazione piena e dal risarcimento dei danni, con la previsione del limite minimo quantificato nella misura minima delle cinque mensilità della retribuzione.
Le tutele così differenziate potrebbero essere censurate in sede costituzionale sotto il profilo della irragionevole mancata previsione di un risarcimento minimo nelle ipotesi di tutela reintegratoria attenuata, sia con riferimento alle fattispecie di tutela reintegratoria piena, sia pure con riferimento alle ipotesi di tutela meramente risarcitoria o indennitaria (non essendo praticabile una interpretazione costituzionalmente orientata della legge);tenuto conto, in ogni caso, di quanto il legislatore ha stabilito, come sanzione, per la violazione dei precetti fissati dalle norme primarie.
Ma con quale prospettiva?
La previsione del “danno punitivo”, rientrando pienamente nella discrezionalità del legislatore, dovrebbe sfuggire alla verifica della legittimità costituzionale secondo il parametro dell’art.3.
La questione di legittimità costituzionale, comunque, potrebbe essere fondata solo con riferimento alle ipotesi reintegratorie, perché nelle ipotesi meramente risarcitorie o indennitarie il limite minimo stabilito dalla legge sembra sfuggire alla natura tipicamente sanzionatoria.
Resta la forzatura interpretativa della sentenza annotata che ha affermato l’applicazione del principio della presunzione legale del risarcimento minimo delle cinque mensilità di retribuzione, quale danno punitivo, anche nelle ipotesi di tutela reintegratoria attenuata.
Per una trattazione sistematica della materia dei licenziamenti, anche nella sua evoluzione storica, si segnala il recente volume di G. Amoroso,
Articolo 18 Statuto dei lavoratori. Una storia lunga oltre cinquant’anni, Cacucci, Bari, 2022 (in particolare, cap. V, pp. 114 e ss., sulla l. n. 92/2012; cap. VI, pp. 185 e ss., sul d.lgs. n. 23/2015 e le modifiche introdotte dal c.d. decreto dignità; cap. VIII, pp. 231 e ss., sugli sviluppi recenti della giurisprudenza costituzionale).
Sulle problematiche giuslavoristiche dei danni e del loro risarcimento, in generale e con specifico riferimento ai licenziamenti, si segnala il recente volume di M. Biasi,
Studio sulla polifunzionalità del risarcimento del danno nel diritto del lavoro: compensazione, sanzione, deterrenza, Giuffrè, Milano, 2022 (in particolare, cap. II, pp. 54 e ss., sulla funzione sanzionatoria del risarcimento del danno, con rilettura critica della giurisprudenza costituzionale ed europea in tema di licenziamenti e contratti a termine; cap. III, pp. 116 e ss., sulla funzione deterrente del risarcimento del danno, che ruota intorno alla figura, complessa e variegata, della pena privata, e pp. 125 e ss., sul risarcimento minimo delle cinque mensilità della retribuzione, inteso come sanzione).
Vincenzo Antonio Poso, avvocato in Pisa
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Cass., 30 dicembre 2022, n. 38183
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L'articolo
«In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto». Una inedita ipotesi di “danno punitivo” per il licenziamento illegittimo anche nell’area della tutela reintegratoria attenuata disciplinata dall’art. 18, st. lav. Con quali prospettive? sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.