L’art. 2 della legge n. 297/1982 e s.m.i., di attuazione,
in parte qua, della direttiva n. 80/987/CEE del 20.10.1980 (alla quale ha poi fatto seguito la direttiva n. 2002/74/CE, recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 186/2005), ha com’è noto istituito, presso l’Inps, il Fondo di garanzia per il Trattamento di Fine Rapporto (TFR), il cui scopo fondamentale è quello di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento del TFR e delle ultime tre mensilità della retribuzione dovuta, garantendone la fruizione al lavoratore, ovvero ai suoi eredi, in tutte quelle situazioni in cui le vicende aziendali rendano il datore di lavoro inadempiente a queste sue obbligazioni
Il Fondo (ai sensi del comma 8 dell’indicato art. 2) è alimentato da un contributo, a totale carico del datore di lavoro, pari allo 0,50% della retribuzione annua del lavoratore.
È quindi l’insolvenza del datore di lavoro la base giuridica dell’intervento del Fondo di che trattasi che, all’evidenza funge da misura sussidiaria del pagamento del TFR (e delle eventuali ultime tre mensilità di retribuzione non corrisposte al lavoratore).
Con la circolare n. 74/2008 (sul punto è utile rammentare anche la precedente circolare n. 53/2007), l’Inps ha a suo tempo chiarito che il Fondo di garanzia interviene in presenza di alcuni presupposti che variano in relazione alla soggezione o meno del datore di lavoro alle c.d. procedure concorsuali.
Qualora, infatti, il datore sia soggetto alle procedure concorsuali in base alla nota disciplina fallimentare (d.lgs. n. 14/2019 -Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge n. 155/2017-) il Fondo interviene in presenza di alcuni requisiti:
a) la cessazione del rapporto di lavoro subordinato;
b) l’accertamento dello stato d’insolvenza e l’apertura di una procedura concorsuale di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa o di amministrazione straordinaria; l’accertamento dell’esistenza del credito a titolo di TFR mediante ammissione al passivo del fallimento. Se, invece, il datore di lavoro non è soggetto alle procedure concorsuali i requisiti per l’intervento del Fondo sono:
a) la cessazione del rapporto di lavoro subordinato;
b) l’inapplicabilità al datore di lavoro delle procedure concorsuali; l’esistenza del credito per TFR rimasto insoluto;
c) l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro a seguito dell’esecuzione forzata.
Questo requisito, come espressamente chiarito dall’Inps, si concretizza nel momento in cui il lavoratore provi di aver tentato di realizzare il proprio credito in modo serio e adeguato ricercando, con la normale diligenza, i beni del datore di lavoro nei luoghi ricollegabili alla persona dello stesso.
Nel caso in cui l’accesso al Fondo abbia esito positivo, il lavoratore o i suoi eredi riceveranno il pagamento di quanto loro spettante entro 60 giorni dalla presentazione della domanda (che va presentata all’Inps attraverso i noti canali).
Per la liquidazione di quanto dovuto, il Fondo è surrogato di diritto al lavoratore o ai suoi aventi causa nel privilegio spettante sul patrimonio dei datori di lavoro.
Con mess. n. 2272/2019 l’Inps ha fornito specifici chiarimenti operativi circa le modalità di intervento del Fondo nelle diverse ipotesi di trasferimento d’azienda, sia da parte del cedente
in bonis, sia da parte del cedente assoggettato a procedura concorsuale, sia ancora in caso di affitto d’azienda (con il mess. n. 3854/2019 l’Istituto ha successivamente fornito istruzioni in merito all’intervento del Fondo nelle ipotesi di cancellazione della società dal Registro delle imprese, in ragione della quale la data di notifica del ricorso e del decreto ingiuntivo deve essere anteriore alla data di cancellazione).
Profili particolari e a volte problematici emergono quando siamo in presenza di situazioni oggettive nelle quali si colloca l’insolvenza del datore di lavoro in grado di “generare” l’intervento del Fondo
Un caso del genere è ad esempio quello di una società in liquidazione, in presenza di un affitto di ramo d’azienda, e un pregresso debito per (ferie, permessi e) TFR e, quindi, con richiesta di intervento del Fondo di Garanzia dell’Inps. In fase di accertamento dell’esistenza e della misura del credito relativo al TFR in sede di ammissione al passivo, è necessario determinare l’insolvenza di chi sia datore di lavoro al momento della cessazione del rapporto di lavoro, magari in presenza della prosecuzione del medesimo con la società cessionaria, senza alcuna soluzione di continuità, prima del fallimento della società cedente.
Ed è proprio questo il caso affrontato dalla sezione lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza n. 37789 del 27.12.2022 secondo la quale l’ammissione allo stato passivo del credito vantato per TFR, con provvedimento divenuto definitivo, non preclude in ogni caso all’Inps (quale gestore del Fondo di garanzia) di contestare i presupposti di operatività dell’intervento di detto Fondo, incentrati sull’insolvenza del soggetto “datore di lavoro” al momento in cui è cessato definitivamente il rapporto di lavoro e, conseguentemente, con il credito per TFR che diviene definitivamente esigibile sulla scorta della disciplina applicabile
ratione temporis.
In altre parole, il TFR, ancorché ammesso al passivo di una procedura concorsuale, può essere sempre contestato, anche dall’Inps.
La fattispecie.
Alcuni lavoratori proponevano nei confronti dell’Inps azione tesa ad ottenere il pagamento del TFR da parte del Fondo di garanzia, a seguito di ammissione del loro credito allo stato passivo del fallimento dell’azienda già datrice di lavoro. In
prime cure il Tribunale rigettava la domanda ma la Corte d’appello ne riconosceva il diritto, condannando l’Inps al pagamento del TFR a carico del Fondo. L’Istituto ricorreva quindi in Cassazione.
All’origine vi era stata una successione cronologica di rapporti di lavoro che aveva coinvolto i lavoratori ricorrenti in
prime cure. L’originaria datrice di lavoro aveva successivamente affittato il ramo d’azienda nel quale erano occupati detti lavoratori; con sentenza successiva al trasferimento del rapporto
ex art. 2112 cod. civ., l’azienda concedente veniva dichiarata fallita e, in seguito, la affittuaria del ramo d’azienda acquistava quest’ultimo in sede di asta giudiziale.
A sostegno della iniziale pretesa dei ricorrenti verso il Fondo di garanzia dell’Inps era stato dedotto:
a) un accordo sottoscritto in deroga all’art. 2112 cod. civ. che faceva gravare sul solo fallimento della società cedente la responsabilità per i debiti relativi al TFR;
b) la vincolatività dello stato passivo nei confronti dell’Inps, che non lo aveva ritualmente impugnato.
La posizione della Suprema Corte.
Punctum pruriens della questione era essenzialmente il tema della possibilità dell’Inps di contestare i presupposti di intervento del Fondo di garanzia, anche quando sia definitivo lo stato passivo che ha accertato il credito dei lavoratori per TFR.
Richiamando alcuni recenti precedenti, la sentenza in commento conferma che, con riguardo alle vicende connesse con la circolazione dell’azienda, i principi sul punto già nel tempo enunciati (v. Cass. n. 19277/2018; Cass., sez. lav., n. 1861/2022 e n. 4897/2021; Cass., sez. VI-L, n. 31128/2019), secondo i quali il diritto del lavoratore di ottenere la corresponsione del TFR dallo speciale Fondo di cui all’art. 2 della legge n. 297/1982 si configura come il diritto di credito a una prestazione previdenziale, distinto e autonomo rispetto al credito retributivo vantato nei confronti del datore di lavoro e rimasto insoddisfatto (più di recente, anche Cass., sez. lav., n. 3165/2022).
Tale diritto si perfeziona, quindi, al verificarsi dei presupposti di legge, che si correlano all’insolvenza del datore di lavoro, all’accertamento dell’esistenza e della misura del credito in sede di ammissione al passivo, ovvero all’esito di procedura esecutiva. La definitività dello stato passivo, che consacra il credito del lavoratore, impedisce all’Inps
«opporre eccezioni derivanti da ragioni interne al rapporto di lavoro che mirino a contestare esistenza ed entità dei crediti in ragione del concreto atteggiarsi delle situazioni giuridiche soggettive del lavoratore e del datore di lavoro» (v. Cass. n. 19277/2018, punto 18). Nondimeno, tale definitività non preclude però all’Istituto di contestare i presupposti d’intervento del Fondo e gli elementi costitutivi della propria obbligazione previdenziale, autonoma rispetto a quella del datore di lavoro, oramai accertata in maniera incontrovertibile.
In sede di legittimità è stato già chiarito che le risultanze dello stato passivo non sono opponibili all’Inps
«in ordine agli elementi soggettivi e oggettivi al cui ricorrere scatti l’obbligo di tutela assicurativa interni alla stessa autonoma fattispecie previdenziale» (v. Cass., sez. VI-L, n. 38696/2021, punto 2) e l’obbligo d’intervento del Fondo di garanzia deve essere conseguentemente assoggettato alla verifica giudiziale, anche al fine di salvaguardare la compatibilità del sistema congegnato dal legislatore con l’art. 24 Cost. (v. Cass. n. 19277/2018, cit., punto 36).
Ad avviso della Suprema Corte l’impugnata sentenza di merito ha errato nell’annettere un’efficacia dirimente e assoluta alla vincolatività dello stato passivo e colgono nel segno le censure mosse con il secondo mezzo, che qualifica l’ammissione al passivo come condizione necessaria, ma non sufficiente per il subentro del Fondo, atteso che i presupposti dell’intervento del Fondo, che il giudice è chiamato a riscontrare senza essere vincolato dalle risultanze dello stato passivo, sono quelli definiti dall’art. 2 della legge n. 297/1982 che, a sua volta, richiama l’art. 2120 cod. civ. Quindi, è necessario
«che: a) sia venuto ad esistenza l’obbligo di pagamento del TFR fissato dall’art. 2120 cod. civ. in capo al datore di lavoro; b) egli, in tale momento, si trovi in stato di insolvenza» (v. Cass. n. 19277/2018, cit., punto 22).
Il Fondo di garanzia, proprio in virtù della funzione esclusivamente assicurativa e previdenziale che svolge, protegge i lavoratori dal rischio dell’insolvenza di colui che è il datore di lavoro, quando il credito per TFR diviene esigibile; non sussistono pertanto i presupposti d’intervento del Fondo quando, in seguito alla circolazione dell’azienda, manchi
«la relazione causale e temporale tra inadempimento datoriale ed insolvenza dichiarata con procedura concorsuale che costituisce l’ambito applicativo fisiologico dell’intervento del Fondo di garanzia legato allo scopo sociale della normativa Europea» (v. Cass. n. 19277/2018, cit., punto 31).
Sul punto la sentenza in commento ribadisce pertanto che
«il credito del lavoratore non è più relativo al periodo “determinato” che connota lo scopo sociale dell’obbligo di copertura assicurativa, ma viene agganciato, senza limiti temporali e prescindendo dalla attuale individuazione dei soggetti del rapporto di lavoro, ad uno degli ex datori di lavoro, interessati dalle vicende circolatorie pregresse, che viene dichiarato fallito in epoca in cui il rapporto di lavoro non è più in essere nei confronti del lavoratore istante perché proseguito con altro soggetto» (v. Cass. n. 19277/2018, cit., punto 32).
A contrariis, l’estensione -anche ad una situazione come quella affrontata- della protezione accordata dall’art. 2 della legge n. 297/1982 non sarebbe coerente né con il dato testuale né con la
«funzione di tutela del bisogno socialmente rilevante indicato dalla direttiva 987/80 e successive modificazioni» (v. il già citato punto 32 della sentenza n. 19277/2018). Infatti, a voler assecondare una lettura estensiva, si distoglierebbe il Fondo, finanziato dai contributi dei datori di lavoro e dallo Stato, dalla sua funzione primaria, in contrasto con l’art. 2, co. 8, della legge n. 297/1982, che vieta d’impiegare le disponibilità del Fondo
«al di fuori della finalità istituzionale del fondo stesso». È dunque necessaria la risoluzione del rapporto di lavoro ed
«è la stessa fattispecie di cui della legge n. 297 del 1982, art. 2, che include la risoluzione del rapporto, espressamente, fra i presupposti di applicazione della tutela» (v. Cass. n. 19277/2018, cit., punto 22 e,
amplius, punto 23).
Sempre ad avviso della Suprema Corte, verso una diversa conclusione non militano neanche le innovazioni recate dal d.lgs. n. 14/2019, essendo già stato affermato in sede di legittimità che detto Codice non è applicabile alle procedure aperte prima della sua entrata in vigore. Le norme in esame possono nondimeno rappresentare però un utile criterio interpretativo degl’istituti della legge fallimentare solo quando, nello specifico segmento considerato, si riscontri un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro (v. Cass., S.U., n. 8504/2021).
Orbene, nella fattispecie oggetto di scrutinio una tale continuità (indispensabile per evincere elementi interpretativi anche in chiave retrospettiva) dev’essere esclusa.
A ben vedere, infatti, nel testo novellato dall’art. 368, co. 4, lettera
c), del d.lgs. n. 14/2019, l’art. 47, co. 5, primo periodo), della legge n. 428/1990 stabilisce che, qualora il trasferimento d’azienda
«riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata», i rapporti di lavoro continuino con il cessionario.
Il Fondo di garanzia, in presenza delle condizioni previste dall’articolo 2 della legge n. 297/1982, interviene anche a favore dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente. In queste ipotesi la data del trasferimento tiene luogo di quella della cessazione del rapporto di lavoro, anche ai fini dell’individuazione dei crediti di lavoro diversi dal trattamento di fine rapporto, da corrispondere ai sensi dell’art. 2, co. 1, del d.lgs. n. 80/1992 (i crediti per TFR sono corrisposti dal Fondo di Garanzia nella loro integrale misura, quale che sia la percentuale di soddisfazione stabilita, nel rispetto dell’art. 84, co. 5, del codice della crisi e dell’insolvenza, in sede di concordato preventivo).
In altre parole, secondo il ragionamento seguito dalla sentenza in commento, è stata necessaria una previsione espressa, in evidente e consapevole discontinuità con le conclusioni cui la Suprema Corte era già giunta, per sancire, a determinate condizioni, l’immediata esigibilità del credito del TFR nei confronti del cedente dell’azienda e per equiparare il trasferimento dei lavoratori all’acquirente dell’azienda a una cessazione del rapporto di lavoro, anche quando il rapporto di lavoro prosegua senza cesure e, pertanto, dall’innovativa disciplina del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, assoggettata a puntuali presupposti, non si possono dunque trarre elementi chiarificatori della normativa pregressa,
ratione temporis applicabile.
Da qui, in conclusione, il principio di diritto al quale la Corte d’Appello di Milano, quale giudice del rinvio, dovrà attenersi:
«L’ammissione allo stato passivo del credito per TFR, con provvedimento definitivo, non preclude all’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia, di contestare i presupposti di operatività dell’intervento del Fondo, incentrati sull’insolvenza di chi è datore di lavoro al momento in cui cessa definitivamente il rapporto di lavoro e il credito per TFR diviene conseguentemente esigibile, in base alla disciplina applicabile ratione temporis. Le previsioni dettate dall’art. 368, comma 4, lettere c) e d), del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, nel novellare l’art. 47 della legge n. 428 del 1990, in quanto radicalmente innovative, non offrono elementi di interpretazione della disciplina previgente in ordine alla esigibilità del credito per TFR nel caso di rapporto di lavoro che continua con il cessionario e di successivo fallimento del cedente».
Luigi Pelliccia, avvocato in Siena
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Cass., 27 dicembre 2022, n. 37789
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La vincolatività dello stato passivo non ha efficacia dirimente e assoluta ai fini dell’accesso del lavoratore al Fondo di Garanzia ex legge n. 297/1982 sembra essere il primo su
Rivista Labor - Pacini Giuridica.