Simul stabunt, simul cadent: l’amministratore cessato che agisca per il risarcimento danni deve provare il carattere abusivo e/o strumentale della vicenda sociale che ha condotto alla sua decadenza
Tribunale Ordinario di Milano, Sezione specializzata in materia di impresa B, sentenza n. 1124/2019 del 31 gennaio 2019 (pubblicata in data 5 febbraio 2019)
Parole chiave: consiglio di amministratore – clausola simul stabunt, simul cadent –amministratori – cessazione organo amministrativo – assenza di giusta causa – azione risarcitoria – principio di buona fede – prova dell’abusività – prova strumentalità .
Massima: “Qualora un amministratore di S.r.l. decaduto per via dell’operatività dell’art. 2386 c.c. agisca in giudizio per chiedere il risarcimento del danno agli altri amministratori, graverà su di esso l’onere della prova in ordine alla abusività della condotta altrui, non essendo sufficiente a tal fine dimostrare l’assenza di propri comportamenti negligenti o comunque l’assenza di situazioni integranti giusta causa di revoca”.
Disposizioni applicate: artt. 1723 c. 2, 1725, 2383, 2386 c. 4 c.c.
Il Tribunale Ordinario di Milano, con l’ordinanza in commento, si è pronunciato in merito all’onere probatorio a carico dell’amministratore cessato che richieda il risarcimento danni alla società, a seguito dell’operare della così detta clausola simul stabunt, simul cadent.
La prassi ante riforma riconosceva infatti fra i meccanismi di sostituzione del consiglio di amministrazione – alternativo alla cooptazione – la clausola per effetto della quale la cessazione anche di uno solo dei suoi componenti determinava la decadenza dell’intero consiglio (simul cadent). Si discuteva tuttavia, in assenza di una espressa previsione legale, della legittimità di una siffatta previsione statutaria, a causa dell’uso distorto e strumentale da parte di parte di taluni amministratori, in presenza di lotte di potere in seno al consiglio. L’orientamento maggioritario riteneva tuttavia legittime, quantomeno, quelle clausole che prevedevano la decadenza dell’intero consiglio a seguito della cessazione della maggioranza degli amministratori. La Giurisprudenza meritoria evidenziava, in particolare, come la clausola in esame avesse lo scopo di evitare una gestione della società da parte di un organo amministrativo “minoritario”, nell’ipotesi in cui la cessazione di taluni consiglieri comportasse una rottura degli equilibri e dei rapporti di forza interni al C.d.A..
Oggi ogni questione appare superata per effetto della riforma – che ha inteso risolvere in modo espresso il problema – introducendo il comma 4 dell’art. 2386, con il quale è stata consacrata, per via normativa, la liceità delle clausole statutarie in base alle quali “a seguito della cessazione di taluni amministratori cessi l’intero consiglio”.
La nuova regola prevista al comma 4 dell’art. 2386 disciplina un meccanismo statutario di cessazione dell’organo amministrativo che opera come condizione risolutiva del rapporto, con la conseguenza che l’assemblea per la nomina del nuovo consiglio sarà convocata d’urgenza dagli amministratori rimasti in carica oppure, ove istituito, dal collegio sindacale.
Tuttavia, è stato negli anni correttamente evidenziato come l’applicazione della clausola possa prestarsi a facili abusi quali, fra gli altri, l’estromissione di un amministratore inviso alla maggioranza, ed espressione, casomai, di una sparuta minoranza.
Sul punto, la giurisprudenza ha altresì osservato come ogni condotta debba essere esaminata, da un lato, alla luce del principio di buona fede e, dall’altro, in virtù della disposizione di cui all’art. 2383, il quale prevede al comma 3 che: “Gli amministratori […] sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa”.
Tale previsione è tesa a garantire la stabilità al singolo amministratore ed una giusta retribuzione del mandato che, per giurisprudenza costante, si assume oneroso e della quale può essere legittimamente privato solamente nell’ipotesi di revoca per giusta causa.
Nel caso di specie, l’amministratore (e socio di minoranza) di una S.r.l. cessato dalla carica, conveniva in giudizio la società lamentando il carattere abusivo delle dimissioni rassegnate dagli altri componenti del C.d.A., per effetto delle quali avrebbe trovato applicazione la clausola statutaria simul stabunt, simul cadent.
L’attore asseriva, invero, come tale clausola fosse stata strumentalmente azionata al fine di ottenere la sua revoca in assenza di giusta causa e di preavviso, con una conseguente elusione dell’obbligo risarcitorio ai sensi dell’art. 1725 c.c., mentre i convenuti ne negavano il carattere abusivo, sostenendo come tali dimissioni fossero riconducibili a inconciliabili “divergenze interne” in seno al C.d.A..
Il Tribunale, in composizione collegiale, evidenzia come il carattere abusivo di tali dimissioni – con attivazione della clausola in commento – sia ravvisabile “ogni qual volta le dimissioni di quell’amministratore o di quegli amministratori capaci di provocare la decadenza di tutto l’organo di gestione siano dettate unicamente o prevalentemente dallo scopo di eliminare amministratori sgraditi, in assenza di giusta causa, e quindi eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui che spetterebbero loro se fossero cessati dalla carica per revoca ex art. 2383 comma 3 nelle S.p.A. ed ex art. 1723 comma 2 1725 c.c. nelle S.r.l.” (Trib. Milano 2 aprile 2016 n. 4955).
La Giurisprudenza ha perciò inteso reprimere siffatti comportamenti, in quanto contrari alla buona fede, riconoscendo comunque agli amministratori non dimissionari decaduti il diritto al risarcimento del danno allorquando sia tuttavia dimostrato che le dimissioni siano rassegnate abusivamente, ossia per scopi diversi, distorti o ultronei ovvero siano strumentali, al fine di eludere l’obbligo risarcitorio connesso alla revoca in assenza di giusta causa.
Tuttavia, in punto di onere probatorio, il Collegio osserva come “l’amministratore che assume illegittima la propria decadenza per effetto delle altrui dimissioni è gravato dell’onere di provare che quelle dimissioni costituiscono un abuso del diritto da parte di chi le ha rese”.
Ne deriva che l’onere della prova ricade, in ultima istanza, sull’amministratore decaduto il quale non potrà limitarsi a dimostrare l’assenza di comportamenti negligenti o di una giusta causa di revoca, ma dovrà apportare elementi sufficienti a dimostrare la strumentalità e/o l’abusività del contegno degli altri consiglieri.
Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto, in conclusione, che l’attore non abbia provato il carattere abusivo o strumentale delle dimissioni degli altri consiglieri, in quanto gli elementi a sostegno delle sue tesi sono risultati “privi di univocità”, conseguentemente ne ha rigettato le domande e ha posto le spese di lite secondo soccombenza.
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