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Salario-minimo-legale-tra-proposte
1. Le ragioni dell’intervento dell’Unione europea La direttiva 2022/2041/UE relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione europea, approvata il 9 ottobre 2022 dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea, rappresenta la risposta che, in ambito eurounitario, si è inteso dare a fronte di una ormai ineludibile “questione salariale” che, emersa negli anni della crisi del debito sovrano e acuitasi con l’insorgere dell’emergenza pandemica, ha finito per investire anche le economie più avanzate. Nello stesso testo della direttiva, in particolare al “considerando 9”, si dà conto del fenomeno del diffondersi della povertà lavorativa che coinvolge un numero sempre più elevato di lavoratori colpendo in particolare le categorie più deboli sul mercato del lavoro, puntualmente elencate, senza alcuna pretesa di esaustività, nel “considerando 10”, le donne, i lavoratori giovani, i lavoratori migranti, i genitori soli, i lavoratori scarsamente qualificati, le persone con disabilità e le persone che subiscono molteplici forme di discriminazione, notoriamente destinatari di retribuzioni sperequate rispetto ai livelli ordinari. Neppure si manca di fare riferimento alle cause più prossime del diffondersi del fenomeno del “working poor”, dall’incidenza della crisi indotta dalla pandemia, in particolare sul settore dei servizi connotato dalla presenza di piccole imprese e microimprese con personale mantenuto a livelli retributivi minimi ed alle trasformazioni strutturali del mercato del lavoro, che vedono elevarsi le percentuali di forme di lavoro precario o atipico, che siano ad orario ridotto, come nel caso del part time, o ad impiego saltuario come i lavori stagionali o interinali, o di incerta qualificazione come i lavori tramite piattaforma propri dell’attuale fase di transizione all’economia digitale. È così che l’Unione giunge a legare il proprio intervento al rischio di ineffettività di un diritto, quello del lavoratore ad un’equa retribuzione che assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita dignitoso riconosciuto, come non si manca di evidenziare nel testo della direttiva, dai trattati sull’Unione Europea e sul suo funzionamento, dalla Carta sociale europea e da ultimo dal Pilastro Europeo dei Diritti Sociali proclamato a Göteborg il 17 novembre 2017. Quest’ultimo, non a caso, si spinge oltre, a sancire che siano garantiti salari minimi adeguati che soddisfino i bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando allo stesso tempo l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro e ciò appunto in una prospettiva di prevenzione della povertà lavorativa. Ed è in questa prospettiva che si colloca l’iniziativa legislativa delle Istituzioni europee nel ribadito convincimento che i salari minimi se fissati a livelli adeguati, così garantendo un tenore di vita dignitoso e rispettando quindi una soglia di dignità, possono contribuire a ridurre la povertà a livello nazionale e a sostenere la domanda interna ed il potere d’acquisto, a rafforzare gli incentivi al lavoro, a ridurre le disuguaglianze salariali, il divario retributivo di genere e la povertà lavorativa e a limitare il calo del reddito nei periodi di contrazioni economiche. In sostanza, la fissazione di un salario minimo adeguato ed equo è riguardata quale strumento atto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro e così ad apportare vantaggi ai lavoratori e alle imprese dell’Unione, come pure alla società e all’economia in generale ponendosi quale presupposto per conseguire una crescita equa inclusiva e sostenibile. Di qui il ritenersi le istituzioni europee legittimate all’intervento diretto, senza la mediazione del dialogo sociale, che, come sottolineato nella stessa direttiva, sebbene sollecitato, avendo la Commissione consultato le parti sociali in un processo a due fasi in merito ad una possibile azione volta ad affrontare le sfide connesse ad una tutela garantita dei salari minimi adeguati nell’Unione, non ha ricevuto l’adesione delle parti sociali essendo mancato tra queste l’accordo per l’avvio di negoziati a riguardo. 2. Gli obiettivi dell’intervento L’obiettivo perseguito è dunque, come precisato nel “considerando 7”, colmare le differenze nella copertura e nell’adeguatezza della tutela garantita dal salario minimo, ciò contribuendo a migliorare l’equità del mercato del lavoro dell’Unione, a prevenire e ridurre le disuguaglianze retributive e sociali e a promuovere il progresso economico e sociale e la convergenza verso l’alto. In termini netti è dichiarata l’esclusione di obiettivi ulteriori dati in particolare dall’armonizzazione del livello dei salari minimi nell’Unione o dall’istituzione di un meccanismo uniforme per la determinazione dei salari minimi. Si intravede al fondo la preoccupazione delle Istituzioni europee di non eccedere la propria competenza, esorbitando dai limiti segnati dall’art. 153, paragrafo 5, TFUE che esclude l’intervento del diritto eurocomunitario in materia di retribuzioni e loro misura riservata agli Stati membri e chiaramente si afferma che la direttiva non stabilisce il livello delle retribuzioni che rientra nel diritto delle parti sociali di concludere accordi a livello nazionale e nella competenza degli Paesi aderenti. E in questa prospettiva si ritiene di dover ulteriormente specificare che la direttiva non interferisce con la libertà degli Stati membri di fissare salari minimi legali o di promuovere l’accesso alla tutela garantita dal salario minimo prevista da contratti collettivi, in linea con il diritto e la prassi nazionale e con le specificità di ciascuno Stato membro e nel pieno rispetto delle competenze nazionali e del diritto delle parti sociali, di modo che la stessa non impone e non dovrebbe essere interpretata come se imponesse ai Paesi nei quali la formazione dei salari sia fornita esclusivamente mediante contratti collettivi  l’obbligo di introdurre un salario minimo legale o di dichiarare i contratti collettivi universalmente applicabili Qui viene in evidenza la distinzione tra le diverse opzioni di accesso alla tutela garantita dal salario minimo, quella per la quale alcuni Stati membri assicurano tale tutela in base a disposizioni legislative o amministrative e a contratti collettivi ed altri che la rimettono esclusivamente alla contrattazione collettiva, dal cui funzionamento dipende tanto il livello dei salari minimi che la percentuale dei lavoratori tutelati. E tali opzioni non vengono poste in contrapposizione, rilevandosi nella stessa direttiva l’opportunità di rispettare le diverse tradizioni nazionali degli Stati membri. È pur vero – ed è ancora la stessa direttiva a segnalarlo – che negli ultimi decenni le strutture tradizionali di contrattazione collettiva si sono indebolite, a causa, tra l’altro, di spostamenti strutturali dell’economia verso settori meno sindacalizzati e a causa del calo delle adesioni ai sindacati, in particolare come conseguenza di attività antisindacali e dell’aumento delle forme di lavoro precarie e atipiche. Tuttavia, è la stessa direttiva a rilevare come la contrattazione collettiva a livello settoriale ed intersettoriale debba essere promossa e rafforzata quale fattore essenziale per conseguire una tutela garantita dai salari minimi. Anzi la direttiva sembra privilegiare la tutela apprestata dai contratti collettivi, contrapponendo alla considerazione per cui quella tutela per le occupazioni a bassa retribuzione è adeguata e garantisce pertanto un tenore di vita dignitoso, risultando efficace al fine di ridurre la povertà lavorativa, il rilievo per il quale in diversi Stati membri i salari minimi legali sono solitamente bassi rispetto ad altri salari offerti dal sistema economico, tanto che nel 2018 in nove Stati membri il salario minimo legale non costituiva per un singolo lavoratore che lo percepiva un reddito sufficiente a superare la soglia di rischio di povertà. Si giunge addirittura ad affermare che gli Stati membri in cui i salari, ivi compresa la tutela garantita dal salario minimo, sono previsti esclusivamente mediante la contrattazione collettiva tra le parti sociali, presentano salari medi tra i più alti dell’Unione europea, facendo registrare una copertura estremamente elevata della contrattazione collettiva, spinta fino a superare l’80%, cui corrispondono salari minimi di livello elevato. Un dato questo che, come vedremo, riveste valore essenziale ai fini dell’applicazione negli Stati membri della direttiva in esame. 3. I riflessi sul dibattito nazionale circa la determinazione per legge di un salario minimo    Il che vale a stemperare l’alternativa secca – salario minimo legale o salari minimi garantiti mediante la contrattazione collettiva – che sta caratterizzando il dibattito nel nostro Paese. L’alternativa è rappresentata dall’introduzione di un salario minimo legale in luogo, o ad integrazione, della prassi di determinazione dei salari attraverso la contrattazione collettiva invalsa a seguito del riconoscimento giurisprudenziale della natura precettiva dell’art. 36, comma 1, Cost. Riconoscimento per effetto del quale si è identificato l’inveramento della direttiva  costituzionale del diritto del lavoratore alla retribuzione proporzionata alla qualità o quantità di lavoro e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla propria famiglia una esistenza libera e dignitosa, nel considerare dovuto il valore economico attribuito in sede di contrattazione collettiva a prestazioni assimilabili a quelle per le quali si rivendica per via giudiziaria l’equa retribuzione, ammettendosi che quel valore possa essere sostituito di diritto al corrispettivo concordato tra le parti del rapporto. La proposta è avanzata  a fronte della crisi di rappresentatività che già da oltre un decennio ha colpito il sindacalismo confederale in conseguenza di diversi fenomeni succedutisi nel tempo, dal mutamento antropologico della figura del lavoratore medio, da cui è derivato il progressivo sbiadire della solidarietà di classe, alla fuga dal contratto nazionale emblematicamente riflessa nella nota vicenda FIAT del 2010, nella frammentazione della rappresentanza, sfociata nella proliferazione di contratti collettivi destinati ad insistere negli ambiti categoriali dei contratti confederali ma tendenzialmente negoziati al ribasso quanto alle condizioni di lavoro e perciò definiti “pirata”. Una crisi di rappresentatività che ha consentito il riproporsi nel nostro ordinamento del tema dell’efficacia erga omnes del contratto collettivo, contemplata nei commi da 2 a 4 dell’art. 39 Cost., ma lasciato sempre nel limbo della non attuazione in virtù dell’iniziale escamotage dato dall’operatività della l. del 14 luglio 1959, n. 741 e poi dal consolidarsi della stagione statutaria segnata dal Patto di Unità sindacale tra CGIL, CISL, UIL del 3 luglio 1972. A tale problema hanno posto mano quelle stesse sigle sindacali, definendo nell’ambito di accordi successivi, da quello del 28 giugno 2011 sulla “Rappresentanza e sulla Validità dei Contratti Aziendali” a quello del 10 gennaio 2014, c.d. “Testo Unico sulla Rappresentanza” conclusi tra Confindustria, CGIL, CISL, UIL, requisiti idonei a conferire validità generale ai contratti collettivi. Ciò, peraltro, vanamente, risultando insuperabile il limite alla vincolatività di simili intese derivante dalla natura meramente negoziale dell’atto. Dal canto suo il legislatore non ha offerto il necessario sostegno che sarebbe derivato dall’approvazione di una legge volta al riconoscimento selettivo della rappresentatività sindacale, pur ripetutamente proposta. L’invocata introduzione di un salario minimo legale varrebbe ad aggirare questo ostacolo finora rivelatosi insormontabile. Soprattutto, si afferma, rappresenterebbe un efficace argine al fenomeno dei “working poors” destinatari, o perché sottratti alla copertura dei contratti collettivi o per essere questi disattesi e senza adeguata reazione in sede amministrativa o giudiziaria, di una retribuzione inferiore alla soglia della “povertà relativa”. Non si tiene conto, tuttavia, dell’impatto che l’introduzione di un salario minimo legale avrebbe nell’ambito di quei settori, rispetto ai quali non solo le statistiche misurano il grado di efficace copertura in una percentuale superiore all’80 %, considerata come detto adeguata dalla direttiva, ma altresì si devono registrare livelli salariali ben più elevati di quelli da determinarsi alla stregua degli indici che, come vedremo, sono presi in considerazione dalla direttiva stessa. Non è difficile ipotizzare una perdita di autorità della contrattazione collettiva ( in tal senso vedi BAVARO, BORRELLI, ORLANDINI, La proposta di Direttiva UE sul salario minimo adeguato, in RGL, p. 111 ss.; FABOZZI, Il salario minimo, in PESSI, PROIA e VALLEBONA (a cura di), Approfondimenti di diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2021, p. 223 ss.) con specifico riguardo alla determinazione del salario minimo ed una conseguente fuga dal contratto collettivo in funzione dell’applicazione del più ridotto salario minimo legale, in contrasto con l’obiettivo di convergenza verso l’alto dichiaratamente perseguito dalla direttiva. Il fatto è che, come stato autorevolmente osservato (BAVARO, BORRELLI, ORLANDINI, La proposta di Direttiva UE sul salario minimo adeguato op. cit.), il concorrere di salari minimi legali con salari minimi contrattuali si concreterebbe in una antinomia destinata ad essere superata nei fatti, non essendo giustificabile che possano essere ritenuti adeguati ed equi salari diversi a parità di condizioni di lavoro a seconda che venga o meno applicato un contratto collettivo. 4. La disciplina posta dalla direttiva sull’adeguatezza e la copertura dei salari minimi La direttiva, comunque, prescinde, come si è detto, dalle modalità di determinazione del salario minimo, per legge o per contratto collettivo, per fissare prescrizioni minime a livello dell’Unione che valgano a “promuovere” l’accesso effettivo dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo, sotto il profilo dell’adeguatezza degli stessi alle condizioni di vita e di lavoro e del livello di copertura in rapporto alla forza lavoro in ciascuno Stato membro. Un’azione promozionale di cui la direttiva in via prioritaria si preoccupa di definire il perimetro applicativo individuandone i destinatari nei “lavoratori dell’Unione che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia”. Una formula non scevra di ambiguità, non solo per l’intrecciarsi in essa, per quel che riguarda la definizione della nozione di lavoratore, del diritto nazionale e di quello eurocomunitario, ma altresì per l’equivocità che all’interno di quest’ultimo connota quella nozione. Questa infatti risulta nel contempo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia qualificata da elementi sintomatici propri della subordinazione, quali la soggezione al potere direttivo e l’inserzione della prestazione lavorativa nell’organizzazione del datore di lavoro ed, invece, suscettibile di estensione a rapporti esulanti dall’area della subordinazione, ove si consideri che la formula in questione ricalca quella utilizzata nella direttiva 2019/1152 relativa al diritto a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili attuata in termini tali da sancirne l’applicabilità a rapporti di collaborazione etero-organizzata o coordinata e continuativa ed occasionali. Qui è l’oggetto stesso della direttiva, la promozione di salari minimi adeguati, a suggerire di circoscrivere l’applicabilità della direttiva all’area del lavoro subordinato (contra SIGILLO’, Prime osservazioni sulla direttiva europea sul salario minimo, in MGL, n. 3, 2022, p. 603) Del resto i rapporti distinti dal modello standard cui la direttiva fa riferimento al “considerando 21”  non si sottraggono alla qualificazione come rapporti di lavoro subordinato, se si eccettua il rapporto di lavoro tramite piattaforma che altra proposta di direttiva dell’Unione configura come tale da essere strutturato tanto come lavoro subordinato quanto come lavoro autonomo, che, pertanto, resta l’unico elemento attestante la vocazione della direttiva ad intervenire in termini complessivi sulla problematica della povertà lavorativa. L’ulteriore riferimento ai falsi lavoratori autonomi ed ai lavoratori non dichiarati investe il diverso problema della disapplicazione delle norme vigenti relative alla qualificazione e regolarizzazione di rapporti di lavoro comunque subordinati. La direttiva si volge poi a definire le forme dell’azione promozionale e qui viene in rilievo la distinzione circa i modi di determinazione dei salari minimi, per legge o tramite contratti collettivi. E ben si comprende essendo, con riferimento al modo di determinazione dei salari minimi tramite contratti collettivi, l’adeguatezza dei salari concepita in seno alla direttiva quale esito proprio di una genuina dinamica delle relazioni industriali in cui il valore economico del lavoro così determinato viene a costituire il punto di equilibrio di interessi contrapposti dal lato della domanda e da quello dell’offerta di lavoro nello specifico contesto di mercato, laddove la determinazione per legge, prescindendo dal confronto tra le parti e condizionata da logiche di tipo politico, non assicura esiti altrettanto conformi ai canoni dell’adeguatezza e dell’equità. È così che la direttiva solo con riguardo alla modalità di determinazione dei salari minimi per legge giunge a prevedere l’istituzione da parte degli Stati membri di apposite procedure per la determinazione e l‘aggiornamento dei salari minimi, orientando le stesse al rispetto di criteri mirati al raggiungimento di adeguati livelli retributivi e funzionalizzandole così al conseguimento di un tenore di vita dignitoso, alla riduzione della povertà lavorativa, alla promozione della coesione sociale alla convergenza sociale verso l’alto ed alla riduzione del divario retributivo di genere. Né la direttiva, per quanto riconosca la libertà degli Stati membri di definire essi stessi, conformemente alle rispettive prassi nazionali, quei criteri guida per lo svolgersi delle procedure in questione ed il peso relativo di ciascuno, non si esime dall’imporre la considerazione di specifici criteri ritenuti essenziali quali il potere d’acquisto dei salari minimi legali in rapporto al costo della vita, il livello generale dei salari e la loro distribuzione, il tasso di crescita dei salari, i livelli e l’andamento nazionali a lungo termine della produttività, disponendo altresì in ordine ai tempi dell’aggiornamento periodico previsto a cadenze di due o quattro anni a seconda che gli Stati membri si siano avvalsi della facoltà prevista dal comma 3 dell’art. 5 della direttiva di ricorso a meccanismi automatici di adeguamento dell’indicizzazione dei salari minimi legali. Ma la direttiva si spinge oltre finendo per indicare essa stessa il livello di adeguatezza che ritiene debba essere raggiunto con il “raccomandare” il riferimento ad indici comunemente utilizzati a livello internazionale. Il riferimento è all’indice di Kaitz, ovvero il 60% del salario lordo mediano nazionale, o all’indice utilizzato dal Consiglio d’Europa, pari al 50 % del salario medio netto nazionale, mentre non si tiene conto dell’ìndice fatto proprio dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali che fissa il livello dei minimi salariali da ritenersi adeguati agli standard internazionali al 60% del salario medio netto. La direttiva, tuttavia, ammette la determinazione di salari minimi legali differenti per specifici gruppi di lavoratori o trattenute che comportino riduzioni del trattamento economico inferiori al salario minimo legale, condizionandole al perseguimento di un obiettivo legittimo da valutarsi alla stregua dei principi di non discriminazione e proporzionalità. In ogni caso ai fini della legittima determinazione per legge dei salari minimi la direttiva richiede che gli Stati membri assicurino il coinvolgimento delle parti sociali su base volontaria ed in termini tali da consentirne la partecipazione all’intero processo decisionale ferma restando la specificazione delle fasi con riguardo non si può prescindere dalla negoziazione con le parti sociali (punti da a. ad e. dell’art. 7). Gli Stati membri che adottino tale modalità di determinazione dei salari minimi sono impegnati altresì a migliorare l’accesso effettivo dei lavoratori alla tutela garantita del salario minimo legale attraverso la previsione di controlli ed ispezioni sul campo effettuati dagli ispettorati del lavoro o dagli organismi responsabili dell’applicazione del salario minimo legale (lett. a. e b. art. 8). Per quel che riguarda il modo di determinazione dei salari minimi tramite contratti collettivi la direttiva si limita a sollecitare gli Stati membri alla promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari come recita la rubrica dell’art. 4. Ma è evidente come tale opzione derivi dalla mancata considerazione del problema che, come abbiamo visto con riguardo all’esame del tema della garanzia del salario minimo nel contesto italiano, investe tutti i Paesi a regime di libertà sindacale, non tanto quello della mancata applicazione da parte di singoli datori di lavoro dei contratti collettivi cui l’ordinamento ha reagito attraverso il riconoscimento giurisprudenziale del carattere prescrittivo dell’art. 36 Cost., quanto quella della concorrenza al ribasso da parte di sigle sindacali non qualificabili come rappresentative ma tuttavia in grado di rendersi disponibili ad una contrattazione settoriale o intersettoriale alternativa a quella propria delle maggiori confederazioni, la c.d. contrattazione “pirata”. La direttiva non indica criteri di selezione tra i soggetti sindacali rimandando agli ordinamenti nazionali le soluzioni al tema della rappresentatività La direttiva si preoccupa soltanto che sia garantita l’effettività e la genuinità dell’interlocuzione sindacale prevedendo che le negoziazioni siano costruttive, significative ed informate, cosi da svolgersi su un piano di parità, che l’esercizio del diritto alla contrattazione collettiva non implichi per i lavoratori ed i rappresentanti sindacali l’esposizione a discriminazioni nel loro impiego, che tanto i sindacati quanto le organizzazioni dei datori di lavoro non abbiano a soffrire in ragione della loro partecipazione alla  negoziazione interferenze reciproche o da parte di agenti o membri della controparte nella loro istituzione, nel loro funzionamento o nella loro amministrazione, ad evitare l’operare dei c.d. “sindacati gialli”. Il tema di fondo resta dunque la copertura che la direttiva ritiene adeguata se, come sopra rilevato, collocata al livello dell’80% della forza lavoro. A fronte del mancato raggiungimento di tale soglia la direttiva prevede che lo Stato membro definisca, previa consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste o anche a seguito di richiesta congiunta delle stesse, un piano d’azione che stabilisca un calendario chiaro e misure concrete per aumentare progressivamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva, pur nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali, piano da riesaminare periodicamente almeno ogni cinque anni ed eventualmente aggiornare sempre previo coinvolgimento delle parti sociali e con osservanza dell’obbligo di comunicazione del piano e degli aggiornamenti alla Commissione. 5. Le disposizioni orizzontali Le disposizioni definite “orizzontali” nella rubrica del capo III (artt. 9-13) della direttiva, a segnalare la valenza generale delle stesse, a prescindere dai distinti modi di determinazione dei salari minimi adottati dai singoli Stati membri, sono mirate ad assicurare l’effettività della tutela garantita dell’accesso al salario minimo, scongiurando pratiche elusive in ipotesi di affidamento in appalto dell’esecuzione di lavori, prevedendo il monitoraggio dei risultati dell’azione promozionale, sancendo il diritto al ricorso all’azione giudiziaria a fronte del mancato riconoscimento dell’apprestata tutela e di eventuali azioni ritorsive intentate in relazione alla rivendicazione di quella tutela e imponendo la predisposizione di un apparato sanzionatorio. A riguardo è da segnalare come l’art. 9, nell’imporre agli Stati membri l’adozione di misure atte a garantire che gli operatori economici e i loro subappaltatori nell’aggiudicazione dell’esecuzione di appalti pubblici o contratti di concessione si conformino agli obblighi  di rispetto dei salari stabiliti dai contratti collettivi per il settore e l’area geografica di riferimento, intervenga a risolvere una problematica ancora aperta nel diritto dell’Unione europea, quella dei limiti di legittimità delle clausole di equo trattamento per gli effetti distorsivi  della concorrenza, risultando il riferimento ai “salari” utile a superare la previsione riduttiva, risalente alla sentenza Rüffert del 3 aprile 2008,  di un obbligo circoscritto al rispetto dei soli “minimi” retributivi, su cui si potrebbe far leva per disapplicare la norma del Codice degli Appalti, l’art. 30, comma 5, d. lgs. n. 50/2016, che nell’ordinamento italiano intendeva risolvere il problema, imponendo l’applicazione del contratto “leader” quale condizione per l’affidamento dell’appalto nell’ambito del settore e della zona geografica in cui si eseguono le prestazioni. Non minore rilievo rivestono le disposizioni poste dal successivo art. 10 in tema di “monitoraggio e raccolta dei dati” che obbligano gli Stati membri a fornire ogni due anni alla Commissione, in data anteriore al 1° ottobre dell’anno di riferimento, informazioni distinte in base al modo di determinazione del salario minimo nei vari Paesi membri. Per gli Stati a salario minimo legale le informazioni riguardano il livello del salario minimo legale e la percentuale di lavoratori coperti da tale salario minimo legale; nonché una descrizione delle variazioni e delle trattenute esistenti e dei motivi della loro introduzione, la percentuale di lavoratori interessati da tali variazioni, nella misura in cui i dati siano disponibili (art. 10, paragrafo 2, lettera b), punti i) e ii)). Gli Stati in cui la tutela garantita del salario minimo è prevista esclusivamente dai contratti collettivi, l’obbligo informativo appare più pregnante e impegnativo investendo le retribuzioni più basse previste dai contratti collettivi che coprono i lavoratori a basso salario o una loro stima; il livello dei salari versati ai lavoratori non coperti dai contratti collettivi e il suo rapporto con il predetto livello (art. 10, paragrafo 2, lettera c), punti i) e ii)). Significativo, in quanto innovativo, è l’obbligo per gli Stati membri di fornire le statistiche e le informazioni disaggregate per genere, fascia di età, disabilità, e dimensioni dell’impresa di settore, da rendersi disponibili a partire dal 15 novembre 2024. Completano il quadro regolativo le richiamate disposizioni volte a consentire la tutela giudiziaria del diritto e contro eventuali azioni discriminatorie legate alla rivendicazione del medesimo nonché volte ad apprestare misure sanzionatorie effettive proporzionate e dissuasive. Livia Tamburro, avvocato in Roma e dottoranda di ricerca nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Visualizza il documento: Dir. 2022/2041/UE Scarica il commento in PDF  

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