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la-clausola-di-proroga-della-competenza-giurisdizionale-contenuta-in-condizioni-generali-di-contratto-non-sottoscritte-ne-espressamente-richiamata-nel-testo-contrattuale-e-inefficace
Con l’ordinanza n. 31148 del 21 ottobre 2022 la Corte di Cassazione riafferma il principio secondo cui in caso di successione di contratti collettivi non vi è ultrattività del vecchio c.c.n.l. e degli elementi contrattuali da questo previsti, potendo a limite affermarsi l’intangibilità del livello retributivo esistente al momento del passaggio contrattuale, che ha natura di “diritto quesito”. La fattispecie. Una dipendente di una emittente radiofonica rivendicava l’ultrattività del contratto collettivo di lavoro giornalistico, disapplicato dalla datrice di lavoro a partire dal 31.10.1994, momento a partire dal quale iniziava ad applicare – sulla base della volontà delle parti – il c.c.n.l. Radiotelevisioni Private. Per l’effetto, la lavoratrice chiedeva ed otteneva in primo grado le differenze retributive connesse all’applicazione degli elementi retributivi previsti dal primo c.c.n.l. (per i quali era affermata una sostanziale ultrattività). La decisione veniva totalmente riformata dalla Corte di Appello di Roma che condannava la dipendente alla restituzione delle somme percepite in forza della sentenza di primo grado. La lavoratrice ricorreva in Cassazione affermando la violazione dell’art. 27 del (nuovo) c.c.n.l. Radiotelevisioni Private, che stabiliva che «ai dipendenti in forza alla data di stipulazione del contratto collettivo Radiotelevisioni Private, il cui rapporto era disciplinato da altro contratto collettivo, non si applicavano i nuovi inquadramenti ».Ad avviso della ricorrente la «dichiarazione costituiva una clausola di salvaguardia avente la finalità di evitare mutamenti peggiorativi delle condizioni lavorative dei lavoratori i cui rapporti …. erano regolati da una diversa fonte». Ne derivava – a detta della ricorrente – l’ultrattività della vecchia regolamentazione contrattuale. Per l’effetto, la ricorrente rilevava una violazione dell’artt. 2077 c.c. che stabilisce che «le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successive, al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo». Le motivazioni. Il ricorso veniva rigettato. Preliminarmente, il Supremo Collegio evidenziava che «l’assoggettamento del rapporto di lavoro al contratto collettivo Radiotelevisioni Private del 1994» era il «frutto della comune volontà negoziale delle parti che hanno inteso modificare il contratto individuale con riferimento alla fonte collettiva applicabile al rapporto, fonte in precedenza costituita dal contratto collettivo nazionale giornalisti». Al contempo, gli ermellini disattendevano l’interpretazione dell’art. 27 del c.c.n.l. Radiotelevisioni Private prospettata dal ricorrente, che non poteva intendersi come una clausola di ultrattività dei futuri miglioramenti retributivi previsti dal precedente c.c.n.l. di lavoro giornalistico, piuttosto come disposizione con valenza esplicativa che ribadiva la «inapplicabilità automatica del nuovo e primo contratto collettivo Radiotelevisioni Private ai lavoratori che all’epoca erano diversamente inquadrati, ma non precludeva, né avrebbe potuto farlo, la possibilità di pattuizioni individuali con le quali le parti si assoggettavano volontariamente ad un determinato assetto contrattuale». Dopo queste premesse, il Supremo Collegio delineava il limitato perimetro di ultrattività di un c.c.n.l. disapplicato o non più vigente – limitato ai soli diritti quesiti – «dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente e visto che «le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole». E così, la lavoratrice «non avrebbe potuto fare valere il principio di irriducibilità della retribuzione pretendendo il trattamento retributivo previsto in relazione ai c.c.n. giornalisti succedutisi nel tempo, ma, al più, la cristallizzazione della retribuzione percepita all’atto della modifica contrattuale» . È quindi soltanto il trattamento retributivo esistente al momento della sostituzione del c.c.n.l. – insieme agli altri diritti ormai acquisiti al patrimonio giuridico del lavoratore – che è soggetto al principio di intangibilità. Nell’affermare i principi sopra indicati, la Cassazione dà continuità al principio secondo cui «le disposizioni del contratto collettivo non si incorporano nel contratto individuale, ma operano sul singolo rapporto come fonte esterna, con la conseguenza che, in caso di successione di contratti collettivi, si realizza una immediata sostituzione delle nuove clausole e le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole al lavoratore, salva diversa determinazione delle parti contraenti in ordine alla disciplina intertemporale» (si v. Cass., 18 giugno 2018, n. 16043, nel caso esaminato la S.C. ha negato che un dipendente di Poste Italiane potesse invocare come diritto quesito il più lungo comporto previsto dal c.c.n.l. del 2001 e per l’effetto ha applicato il regime meno favorevole previsto dal successivo c.c.n.l. del 2003, vigente alla scadenza del periodo di assenza dal lavoro, inserendo nel nuovo limite anche i giorni di malattia verificatisi sotto il regime precedente; Cass., 19 febbraio 2014, n. 3982 che ha respinto la domanda di un lavoratore che rivendicava l’applicazione di un criterio più favorevole quanto al calcolo dell’indennità di anzianità previsto da una clausola contrattuale sostituita; Cass., 14 giugno 2007, n. 13879). E così, l’art. 2077 c.c. disciplina esclusivamente i rapporti tra il contratto individuale di lavoro ed il contratto collettivo, mentre la successione temporale dei diversi contratti collettivi è retta dal (diverso) principio della libera volontà delle parti, sancito dall’art. 1322 c.c. (Cass., 24 agosto 2004, n. 16691; Cass., 10 ottobre 2007, n. 21234). Il principio di cui sopra è destinato a trovare applicazione in diversi scenari: si pensi, ad esempio, alle vicende successorie aziendali che implicano la sostituzione di c.c.n.l. del medesimo livello. Gli esiti, tuttavia, non sono sempre univoci e di facile e immediata applicazione, soprattutto quanto alla descrizione del “diritto quesito”. Il Tribunale di Milano – in una ipotesi di trasferimento di azienda ex art. 2112 c.c. – ha stabilito che «i trattamenti retributivi specificamente riconosciuti ai singoli lavoratori, anche in occasione di trasferimenti di azienda, in assenza di specifiche difformi clausole contrattuali anche di carattere temporale, entrano a far definitivamente parte del compenso economico spettante al dipendente costituendo dei “diritti quesiti” e non possono pertanto essere ridotti da successive disposizioni, anche collettive, ex. artt. 2077 e 2103 c.c., fatti salvi i casi in cui venga prestato conforme consenso del lavoratore anche eventualmente attraverso l’associazione sindacale di appartenenza». Nel caso esaminato – ai fini della qualificazione della situazione giuridica come diritto quesito – è risultato dirimente che al premio aziendale fosse stata espressamente riconosciuta la natura “ad personam” in funzione di presupposti di anzianità specifici. Per questo, il diritto all’emolumento era entrato definitivamente «nel patrimonio del singolo lavoratore come diritto quesito, come tale non revocabile o riducibile da parte del datore di lavoro (Tribunale di Milano 16 febbraio 2017; n. 460). In una diversa fattispecie, dove il lavoratore richiedeva il ripristino di alcune coperture previdenziali riconosciute dal cedente ma non dal cessionario, che non aderiva ad alcun fondo pensione, la Cassazione ha respinto la domanda del lavoratore ribadendo che l’ultrattività della “vecchia” regolamentazione opera solamente nel caso in cui «l’impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo, mentre, in caso contrario, la contrattazione collettiva dell’impresa cedente è sostituita immediatamente ed in tutto da quella applicata nell’impresa cessionaria anche se più sfavorevole» (Cass., 18 marzo 2011, n. 10614). Pertanto, quanto ai diritti di natura previdenziale, «la disciplina collettiva successiva, peggiorativa di quella precedente, non può incidere negativamente solo sulla posizione di chi, pur avendo maturato i requisiti, non ha ancora esercitato il relativo diritto» (Cass., 19 aprile 2003 n. 6361) e non già nei confronti di coloro che non abbiano maturato affatto i requisiti. Occorrerà quindi valutare, caso per caso, se ci si trovi di fronte a «situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come nel caso dei corrispettivi di prestazioni già rese» oppure a «situazioni future o in via di consolidamento … e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi» (Cass. 20838/09 – nella specie, la S.C. aveva cassato la sentenza impugnata, che aveva riconosciuto al lavoratore le differenze retributive sulla base di una componente variabile della retribuzione soppressa dalla contrattazione aziendale).  Nel tentativo di conferire contorni certi ai diritti quesiti, la Cassazione ne ha escluso l’esistenza «in presenza di situazioni giuridiche che, pur essendo legate ad obbligazioni assunte da una parte contrattuale, riguardavano eventi futuri, ancora incerti nel loro accadimento oltre che «relative ad uno status lavorativo in continua evoluzione». Danilo Bellini, avvocato in Milano Visualizza il documento: Cass., ordinanza 21 ottobre 2022, n. 31148 Scarica il commento in PDF L'articolo In caso di successione di contratti collettivi, soltanto il trattamento retributivo esistente al momento del passaggio contrattuale costituisce un diritto quesito non modificabile in pejus sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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