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domanda-di-fallimento-del-creditore-e-domanda-di-regolazione-della-crisi-del-debitore-dopo-lentrata-in-vigore-del-codice-della-crisi
La sentenza del Tribunale di Roma, 14 marzo 2023, n. 2589, qui annotata, è meritevole di essere segnalata per diversi profili, tra i quali quello più importante è l’affermazione del principio secondo cui è legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore che abbia intrattenuto una relazione sentimentale con una collega del medesimo gruppo di lavoro, assumendo  nei confronti della stessa un contegno abusivo, al fine di non ostacolare la propria progressione di carriera e  sfruttando la superiorità, sebbene non gerarchica, della sua posizione professionale senior rispetto a quella junior della collega. In particolare, nel caso di specie, il lavoratore non aveva comunicato al datore di lavoro la relazione sentimentale intrattenuta con la collega addetta allo stesso settore di attività, venendosi così a creare una situazione di potenziale conflitto di interessi sul luogo di lavoro, privilegiando la realizzazione dei suoi interessi personali rispetto a quelli aziendali, tanto che aveva invitato la collega, nel frattempo rimasta incinta, prima ad interrompere la gravidanza e poi a comunicare lo stato di gravidanza soltanto dopo una certa data, per non pregiudicare la sua promozione e comunque a rassegnare le dimissioni per ricollocarsi presso un’altra società operante nello stesso settore, in competizione con la società datrice di lavoro. Innanzitutto, non possiamo lasciare in disparte il problema relativo all’obbligo dell’affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti, come previsto dall’art. 7, comma 1, st.lav. (provata per testimoni, al pari della sua pubblicazione sul sito aziendale, insieme ad altra documentazione e alla normativa contrattuale), quale condizione di legittimità dell’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro (v., tra le tante pronunce, Cass. 11 agosto 2022, n. 24722, alla quale si rinvia anche per ulteriori riferimenti). Dalla lettura della sentenza non è dato capire quale fosse il contenuto del codice disciplinare e se ad essere affisso fosse solo il Codice Etico aziendale (che non sempre prevede uno specifico apparato sanzionatorio, tanto meno le disposizioni sul procedimento disciplinare) o il CCNL applicato, anche per estratto, con le complete previsioni  relative a comportamenti sanzionati, procedimento e sanzioni disciplinari ( per quest’ultima ipotesi, ritenuta sufficiente, v. Cass., 12 novembre 2021, n.33811, alla quale  si rinvia anche per un inquadramento generale di questo istituto). Come è noto, il codice disciplinare prevede non solo i comportamenti disciplinarmente rilevanti, ma anche le sanzioni applicabili e le norme procedimentali. In proposito merita richiamare il principio affermato da Cass., n. 24722/2022, cit. supra: «La previa pubblicizzazione delle norme disciplinari relative alle sanzioni ed alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata assolve alla funzione sostanziale di garanzia di legalità e prevedibilità dell’esercizio del potere disciplinare, realizzata mediante la pubblicizzazione della delimitazione concordata dalle parti collettive dell’ambito dell’intervento repressivo, in relazione alla tipizzazione degli addebiti, alla graduazione della loro rilevanza e gravità ed alla correlazione con le sanzioni previste (v. Cass. n. 54 del 2017 cit., in motivazione)». Peraltro, per pacifica acquisizione giurisprudenziale, non è necessaria l’affissione quando il comportamento sanzionato è immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, in quanto contrario al c.d. minimo etico (inteso come l’insieme dei principi di condotta che rientrano nella coscienza sociale comune, che non ha bisogno di tipizzazioni) oltre che a norme di rilevanza penale (in tal senso v., tra le tante, Cass., 9 luglio 2021, n. 19755; Cass. 8 giugno 2020, n. 10855; Cass. 26 marzo 2014, n.7105; App. Milano, 4 maggio 2021, n. 684, in Redazione Giuffrè, 2021; Trib. Milano,1° febbraio 2019, n. 285, ivi, 2019).Resta, quindi, necessaria l’affissione del codice disciplinare qualora le violazioni contestate consistano «nella violazione di norme di azione derivanti da direttive aziendali, suscettibili di mutare nel tempo, in relazione a contingenze economiche e di mercato ed al grado di elasticità nell’applicazione»; e in questo caso « l’ambito ed i limiti della loro rilevanza e gravità, ai fini disciplinari, devono essere previamente posti a conoscenza dei lavoratori, secondo le prescrizioni dell’art. 7 St. lav. (v. Cass. n. 54 del 2017; n. 22626 del 2013)» (così, Cass, n. 24722/2022, ult. cit.). Va da sé che la violazione dei doveri fondamentali comuni al rapporto di lavoro esclude la necessità della pubblicità del codice disciplinare. Nel caso di specie, però, non siamo in questa situazione: e infatti la rilevanza disciplinare dei comportamenti addebitati al lavoratore poi licenziato è stata costruita e affermata sulla base delle previsioni del Codice Etico aziendale e del CCNL applicato. Il profilo di maggiore interesse di questa pronuncia, come abbiamo già anticipato, è quello relativo alla rilevanza disciplinare della violazione del Codice Etico aziendale (in alcuni passi motivazionali si parla anche di Codice di Comportamento: non si capisce, però, se si tratti di due codici aziendali distinti o dello stesso Codice). Nel caso di specie la fonte di prova della relazione sentimentale (e degli altri comportamenti ritenuti di rilievo disciplinare) è stata rinvenuta nelle conversazioni “WhatsApp” tra i due colleghi, peraltro legittimamente acquisite agli atti di causa in quanto messe a disposizione dalla lavoratrice interessata e quindi non procurate dall’azienda in maniera arbitraria o esercitando un potere di controllo in violazione dell’art. 4, st.lav. Esclusa l’illecita acquisizione di dette conversazioni, il limite della inutilizzabilità delle stesse con riferimento alle norme sulla riservatezza (Reg. UE 2016/679, del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016,relativo al trattamento dei dati personali e alla protezione delle persone fisiche – e alla libera circolazione dei dati personali – e d.lgs. n.196 del 30 giugno 2003, con le successive modificazioni ed integrazioni) è stato superato dal Tribunale di Roma con l’affermazione della prevalenza del diritto di difesa rispetto a quello della riservatezza, che lo ha portato ad escludere anche la violazione del principio costituzionale, ex art. 15, della segretezza della corrispondenza privata. Il tutto, ovviamente, nel rispetto dei principi affermati dalla Corte di Cassazione in ordine al trattamento dei dati riservati solo per le esigenze e le finalità di giustizia e per il tempo strettamente necessario al loro perseguimento. In proposito, la sentenza annotata richiama la pronuncia della Corte di Cassazione 12 novembre        2021, n.33809, che tra l’altro ha affermato questi principi: «La produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza: dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dalla L. n. 675 del 1996, art. 9, lett. a) e d), sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3358; così pure, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 4 e 11, applicabili ratione temporis: Cass. 8 febbraio 2011, n. 3033). E che le prove precostituite, quali i documenti, entrano nel giudizio attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di semplice logica giuridica, essendo tali attività contestabili solo se svolte in contrasto con le regole rispettivamente processuali o di giudizio, che vi presiedono, senza che abbia rilievo una valutazione in termini di utilizzabilità, categoria propria del rito penale ed ignota al processo civile (Cass. 25 marzo 2013, n. 7466)». (Nella motivazione della sentenza annotata si fa riferimento anche alla pronuncia n. 19531/2021, erroneamente citata perché si occupa di tutt’altra materia). Ne consegue, pertanto, che è necessario operare un bilanciamento dei diritti di difesa e di tutela della riservatezza, posto che, in materia di trattamento dei dati personali, il diritto di difesa in giudizio è sempre prevalente su quello di inviolabilità della corrispondenza, tanto che già l’art. 24, lett. f), d.lgs. n. 196/2003, cit.,  prescindeva dal consenso della parte interessata per il trattamento di dati personali, quando l’utilizzazione dei dati riservati sia necessario per la tutela dell’esercizio di un diritto in sede giudiziaria, a condizione che gli stessi siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (così, Cass. n. 33809/2021, cit. supra; Cass., 20 settembre 2013, n. 21612): bilanciamento correttamente operato dal Tribunale di Roma nella controversia in esame. Merita evidenziare che la disposizione suindicata è stata abrogata, con l’art. 27, comma 1, lett. a), dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, che, come è noto, ha adeguato la normativa nazionale al Regolamento UE 2016/679, cit. Ai fini che qui interessano sono rilevanti le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 101/2018, ult. cit. L’art. 2-undecies (che, nell’ambito del Capo III della Parte I, sui diritti dell’interessato, disciplina le relative limitazioni) alla lettera e) mantiene la tutela privilegiata in caso di svolgimento delle investigazioni difensive o esercizio di un diritto in sede giudiziaria (devono, però, essere osservate le disposizioni di cui al successivo comma 3). Ma le problematiche poste dalla nuova normativa sono molto più complesse di quanto sembri a prima lettura, sol che si ponga attenzione al contenuto dell’art. 2-duodecies (sempre nell’ambito del Capo III sopra citato), che, disciplinando le limitazioni per ragioni di giustizia, ai commi 1 e 2 definisce il perimetro e le condizioni di applicazione delle precedenti disposizioni e prevede il rispetto di particolari procedure nell’interesse del titolare del trattamento dei dati. Si richiama, in proposito, quanto previsto dai commi 2, 3 e 4 di quest’ultima disposizione normativa: «2. Fermo quanto previsto dal comma 1,  l’esercizio  dei  diritti  e l’adempimento degli obblighi di cui agli articoli da 12 a 22 e 34 del Regolamento possono, in  ogni  caso,  essere  ritardati,  limitati  o esclusi,  con   comunicazione   motivata   e   resa   senza   ritardo all’interessato, a meno che la comunicazione possa  compromettere  la finalità della limitazione, nella misura e per il tempo in cui  ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto  conto  dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, per salvaguardare l’indipendenza della magistratura  e  dei  procedimenti giudiziari. –  3. Si applica l’articolo 2-undecies, comma 3, terzo, quarto e quinto periodo. –  4. Ai fini del presente articolo si intendono effettuati per ragioni di giustizia i trattamenti di dati personali correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie […]». Da rilevare, infine – e non è cosa di poco conto – che in base all’art. 2-decies, comma 1, d.lgs. n.101/2018, ult. cit. (che, nell’ambito del Capo II della Parte I relativo ai principi, di disciplina l’inutilizzabilità), i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati, salvo quanto previsto dall’art. 160-bis (introdotto dall’art. 14, comma 1, lett. m) del più volte menzionato d.lgs. n. 101/ 2018, che, per quanto riguarda  la validità, l’efficacia e l’utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basai sul trattamento dei dati personali non conformi a disposizioni di legge o di Regolamento, rinvia alla disciplina posta dalle pertinenti disposizioni processuali. Il discorso giuridico svolto dal Tribunale di Roma su questo tema è completato dal corretto riferimento all’art. 2712 relativo alle riproduzioni meccaniche (tali sono da intendersi le riproduzioni informatiche delle conversazioni di messaggistica “WhatsApp”, che sono idonee a provare i fatti che in esse sono rappresentati, a meno che non siano oggetto di disconoscimento); essendo, peraltro, del tutto legittima la c.d. copia forense ( realizzata, in ogni caso, nel rispetto delle specifiche tecniche – v. pag. 6, pen. cpv. della sentenza) che, nell’interesse di tutte le parti in causa, assicura l’integralità e l’affidabilità del dato così acquisito. Anche le riproduzioni meccaniche sono documenti perché per documento si intende non solo lo scritto, ma qualunque oggetto idoneo a registrare l’accadimento di un fatto storico. In questi termini merita citare Cass. Pen., Sez. V, n.1822,pronunciata il 21 novembre 2017 e depositata in data 16 gennaio 2018 (si tratta, probabilmente, della stessa pronuncia citata nella sentenza annotata, ma con riferimento all’anno 2022, che sembra essere errato), secondo la quale «L’acquisizione di dati informatici mediante la cosiddetta copia forense è una modalità conforme alla legge, che mira a proteggere, nell’interesse di tutte le parti, l’integralità e affidabilità del dato così acquisito, nel pieno rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza della misura cautelare. Ciò anche perché l’estrazione di copia integrale della memoria si spiega con il rilievo che l’attività di analisi per la selezione dei singoli dati è particolarmente complessa e non può essere condotta in loco in un limitato arco temporale, investendo l’attività di selezione una significativa attività di studio e analisi proprio al fine di un’eventuale selezione» ( in tal senso v. anche la precedente pronuncia, sempre della Sezione Quinta Penale della Corte di Cassazione, n. 25527,  pronunciata il  27 ottobre 2016 e depositata in data 23 maggio 2017). Si deve trattare, però, di un disconoscimento chiaro, circostanziato ed esplicito, come ritenuto dalla Corte di Cassazione, che è stato escluso, nel caso di specie, per la genericità della contestazione che è stata espressa dalla parte lavoratrice ricorrente, con la formulazione di una eccezione in ordine alla estrapolazione, dall’intero contesto, solo di alcune conversazioni, «senza ulteriormente precisare ed esplicitare le ragioni della censura e la non corrispondenza tra [la: n.d.r.]  realtà fattuale e quella riprodotta». Viene citata, in motivazione, la pronuncia della Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, 13 maggio 2021, n.12794, che ( in una controversia civile di separazione dei coniugi con addebito per la dedotta relazione extraconiugale) ha precisato che, in difetto delle caratteristiche sopra indicate, il disconoscimento non è idoneo ad affermare la qualità di prova delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712, cod.civ., così degradandole a presunzioni semplici, in quanto esso «deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122)». Vale la pena  evidenziare che il Codice Etico aziendale (talvolta integrato anche da separati codici di comportamento e condotta, contenenti, anche, particolari direttive e linee guida per la segnalazione degli abusi agli organi di vigilanza competenti, senza conseguenza alcuna per il whistleblower), costituisce, di norma, parte integrante del Modello di organizzazione e gestione adottato dalle società ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, estendendo e completando il suo ambito applicativo. In esso vengono definiti i comportamenti che devono essere tenuti virtuosamente dai destinatari, tra i quali anche i dipendenti, con le direttive aziendali e gli obblighi impartiti, che devono essere osservati, al precipuo fine di prevenire condotte illecite di vario contento; con la previsione, talvolta, anche di un articolato sistema sanzionatorio. Le norme del Codice Etico aziendale ( forse anche del Codice di Comportamento, se distinto da esso ed effettivamente esistente, come abbiamo evidenziato sopra) che sarebbero state violate dal lavoratore licenziato sono riportate alle pagg. 8 e 9 della sentenza e dal loro contenuto si percepisce anche la finalità della previsione contrattuale (è del tutto irrilevante – e comunque il Tribunale ha svalutato questa differenziazione – la natura affettiva continuativa o meramente sessuale caratterizzata da sporadici incontri, della relazione intrattenuta dai colleghi operanti nella medesima unità di lavoro; è data rilevanza anche al rapporto di parentela) che il Tribunale di Roma correttamente ha individuato nella «esigenza di garantire l’imparzialità e la trasparenza delle scelte lavorative adottate dai lavoratori, nonché la serenità dell’ambiente lavorativo». Fatte queste premesse, è facile per il Tribunale di Roma arrivare a ritenere, dopo la verifica della sussistenza del fatto contestato e la gravità del comportamento assunto dal lavoratore, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, la legittimità del suo licenziamento per giusta causa richiamando, oltre agli obblighi generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro, i principi specifici stabiliti  dall’art.2105, cod. civ. (per il prestatore di lavoro) e dall’art. 2087, cod. civ. (per il datore di lavoro), anche alla stregua del giudizio di proporzionalità, ex art. 2106, cod. civ., della sanzione espulsiva adottata, in applicazione dell’art. 238, CCNL del settore commercio per i dipendenti da aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi, che fa riferimento anche alla grave violazione degli obblighi di cui al precedente art. 233, commi 1 e 2, genericamente richiamato in sentenza. Per una migliore ricomprensione della fattispecie, merita riportare il testo del comma 1: «Il lavoratore ha l’obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri e il segreto di ufficio, di usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri» e del comma 2: «Il lavoratore ha l’obbligo di conservare diligentemente le merci e i materiali, di cooperare alla prosperità dell’impresa»; non senza rilevare che nel comma 1 rileva la prima e l’ultima parte; mentre non è pertinente, ad avviso di chi scrive, la previsione del comma 2 ( sicuramente per la prima parte), a meno di ritenere che il contegno abusivo del lavoratore licenziato abbia compromesso, in qualche modo, la prosperità dell’azienda, evidentemente da intendersi nel significato palese di benessere, soprattutto economico, tenuto conto, peraltro, che dalla sentenza non emergono fatti allegati per affermare il pregiudizio in tal senso arrecato. Resta, ovviamente, acclarata, in tutta la sua importanza di disvalore e grave rilevanza disciplinare, la violazione dei doveri contrattuali e anche civici che legittimano ampiamente il licenziamento per giusta causa nel caso esaminato. Vincenzo Antonio Poso, avvocato in Pisa Visualizza il documento: Trib. Roma, 14 marzo 2023, n. 2589 Scarica il commento in PDF L'articolo La violazione del Codice Etico aziendale posta a fondamento del licenziamento per giusta causa di un dipendente che aveva intrattenuto, senza darne comunicazione agli organi di vigilanza, una relazione sentimentale con una collega addetta alla medesima unità di lavoro (assumendo nei confronti della stessa una condotta aggravata da altri poco edificanti comportamenti) sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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