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il-diritto-di-critica-del-lavoratore-ovvero-riconoscere-il-dissenso-come-forma-piu-nobile-di-fedelta-allorganizzazione-datoriale
La vicenda Il caso trae origine da una procedura di licenziamento collettivo avviata per crisi aziendale, conclusasi con la sottoscrizione di un accordo sindacale in cui si dava atto dell’intenzione della società, datrice di lavoro di procedere alla risoluzione della totalità dei rapporti di lavoro, risultando prevista la cessazione definitiva delle attività. A distanza di un mese, tuttavia, la medesima società cedeva in affitto l’azienda ad una s.r.l. a tal fine costituita. La Corte d’appello di Catanzaro, confermando la sentenza di primo grado, riteneva accertato come l’attività di produzione della società cedente non fosse mai cessata ma fosse, al contrario, proseguita presso la cessionaria successivamente all’affitto di azienda, come desumibile da una serie di elementi tra cui l’identità di oggetto sociale della cedente e della cessionaria, l’utilizzo da parte della cessionaria degli stessi stabilimenti e beni aziendali della cedente, lo svolgimento dell’attività con gli stessi clienti e fornitori. Sulla scorta di tali circostanze di fatto, i giudici di appello ritenevano che l’omessa comunicazione, in sede di avvio della procedura di licenziamento collettivo, delle reali finalità di parte datoriale, cioè della volontà di procedere alla cessione dell’attività aziendale, avesse inficiato l’intero iter della procedura, alla luce della violazione dell’obbligo di fornire le informazioni di ex art. 4, co. 3, L. n. 223/1991, con conseguente inefficacia dei licenziamenti intimati. I rapporti di lavoro dovevano quindi considerarsi in essere al momento della stipula del contratto di affitto di azienda e gli stessi proseguiti, ai sensi dell’articolo 2112 cod. civ., alle dipendenze della società cessionaria. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia la società cedente che la cessionaria, negando la sussistenza di cessione d’azienda e sostenendo che il passaggio dei lavoratori alle dipendenze della cessionaria presupponeva l’esistenza del rapporto di lavoro all’atto del trasferimento, laddove, nel caso in esame, i rapporti di lavoro erano stati già risolti all’epoca di stipula del contratto di affitto di azienda. La risposta della Corte di Cassazione la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 33492 del 14.11.22, in commento, ha rigettato il ricorso, condividendo la ratio decidendi della sentenza impugnata che aveva ritenuto l’intera operazione di licenziamento collettivo, di cessazione dell’attività e di affitto di azienda, elusiva delle disposizioni di cui all’art. 2112 c.c. e aveva dichiarato inefficace il licenziamento intimato ai lavoratori a causa della violazione dell’obbligo di comunicazione previsto dall’art. 4, co. 3, della legge 223 del 1991, per essere stata nascosta la reale finalità datoriale di cessione dell’attività aziendale. Sul punto il Collegio ha chiarito che il rapporto di lavoro del lavoratore, illegittimamente licenziato prima del trasferimento di azienda, continua con il cessionario dell’azienda qualora, per effetto della sentenza intervenuta tra le parti originarie del rapporto, il recesso sia stato annullato, senza che rilevi l’anteriorità del recesso rispetto al trasferimento d’azienda, salva la possibilità per il cessionario, convenuto in giudizio ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., di opporre le eccezioni relative al rapporto di lavoro, alle modalità della sua cessazione o alla tutela applicabile al cedente avverso il licenziamento  (v. Cassazione 4130 del 2014; Cassazione 5507 del 2011). A tali principi si era attenuta la Corte di merito che, a seguito della declaratoria di inefficacia dei licenziamenti ed in ragione della cessione d’azienda nel frattempo intervenuta, aveva dichiarato la prosecuzione dei rapporti di lavoro alle dipendenze della cessionaria. I Giudici di legittimità non hanno mancato, inoltre, di evidenziare che nessun rilievo poteva attribuirsi alla sfasatura temporale tra la cessazione dell’attività della cedente e la costituzione della società cessionaria, atteso che, dal punto di vista logico e giuridico, la conclusione del contratto di affitto di azienda presuppone necessariamente la contemporanea esistenza dei due soggetti giuridici e la dichiarata inefficacia del licenziamento consente il passaggio dei lavoratori, unitamente al complesso aziendale, alle dipendenze della cessionaria. Sulla base di tali presupposti la Cassazione ha giudicato inammissibili le censure mosse alla sentenza impugnata, perché fondate su una diversa ricostruzione in fatto e su una critica alla valutazione dei dati probatori come operata dalla Corte di merito, non ammessa in sede di legittimità. Si vedano sul punto anche le seguenti sentenza di merito: Trib. Roma sent. n. 6948 del 22/04/2021 e Trib. Treviso n. 2395 del 30/11/2018. In particolare, il Tribunale di Treviso ha avuto il merito di soffermarsi su quali fatti possono valere come “presunzioni” per accertare che un’azienda abbia occultamente acquistato un’altra azienda. In particolare, ciò può avvenire quando l’azienda che si presume essere l’acquirente abbia: l’identità del nome e/o della ragione sociale dell’azienda cedente; l’identità fisica della sede di esercizio dell’azienda cedente; l’identità (o anche la sola somiglianza) dell’attività svolta dall’azienda cedente; l’identità dei recapiti, quali numero di telefono e di fax dell’azienda cedente; l’utilizzo dello stesso dominio internet dell’azienda cedente; l’eventuale riferimento nelle comunicazioni al pubblico (cartacee o digitali) alla attività dell’azienda cedente; l’uso degli elementi caratterizzanti l’avviamento dell’azienda cedente (es. vanto dei lavori pregressi, uso delle liste clienti ecc.). La riassunzione di tutti i dipendenti il giorno immediatamente successivo al licenziamento disposto dall’azienda cedente. Occorre chiarire come tali elementi non siano requisiti legislativi obbligatori per accertare una “cessione occulta d’azienda”, ma rappresentino apprezzamenti di fatto del giudice che – in quanto tali – potrebbero essere valutati e/o interpretati diversamente caso per caso. Con una recente sentenza n. 6948 del 22/4/2021 il Tribunale di Roma ha ritenuto sufficienti il n. 2 (identità di sede) e il n. 3 (identità o somiglianza dell’attività) degli elementi dell’elenco, aggiungendo, rispetto al Tribunale di Treviso, l’elemento dell’identica ripartizione delle partecipazioni sociali da parte dei soci dell’azienda ceduta (nel caso di specie, gli stessi soci dell’azienda cedente al 50% erano divenuti soci al 50% dell’azienda cessionaria). In definitiva la valutazione circa l’esistenza della fattispecie della “cessione d’azienda occulta” dipende, quindi, da un apprezzamento del singolo giudicante sulle singole vicende fattuali. Il giudice che si trova a decidere di un caso di cessione occulta d’azienda potrebbe utilizzare uno, alcuni o tutti i fatti sopra riportati a secondo del suo prudente apprezzamento. Sulla medesima questione si segnala inoltre la pronuncia della S.C. n. 26262/21 che ha ribadito come ”affinché si realizzi compiutamente l’effetto traslativo del rapporto di lavoro tra il datore di lavoro cedente e il cessionario ex art. 2112 c.c., è necessario che il trasferimento d’azienda da cui la cessione origina risulti legittimo, con la conseguenza che l’accertamento circa la non conformità giuridica di detta operazione comporta l’instaurarsi di due distinti e paralleli rapporti di lavoro le cui rispettive sorti risultano tra loro indipendenti. In particolare, nel caso di specie vertente, appunto, su un trasferimento d’azienda impugnato da alcuni lavoratori successivamente licenziati dall’azienda cessionaria, la Suprema Corte ha confermato che “soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c.: con il conseguente venir meno dell’unicità del rapporto, qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare. Una volta che pertanto ne sia accertata l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale), determinandosi il trasferimento del medesimo rapporto solo quando si perfezioni una fattispecie traslativa conforme al modello legale. Diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente (Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure ribadito il consolidato orientamento circa l’interesse ad agire del lavoratore ceduto nonostante la prestazione di lavoro resa in favore del cessionario). Si spiega così come i rapporti di lavoro siano due (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa), a fronte di una prestazione solo apparentemente unica: posto che, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve n’è un’altra giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per il rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto”. Claudia Grassi, avvocato in Roma Visualizza il documento: Cass., 14 novembre 2022, n. 33492 Scarica il commento in PDF L'articolo Licenziamento collettivo e cessione di azienda dissimulata. Reintegro dei lavoratori sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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