Blog

la-corte-di-cassazione-si-pronuncia-sulla-valutazione-del-dato-statistico-da-parte-del-giudice-in-una-fattispecie-relativa-allattribuzione-del-punteggio-utile-per-la-graduatoria-con-riferime
Nell’ambito dell’evoluzione della vigente normativa antidiscriminatoria e del diritto comunitario in materia emerge una progressiva articolazione nella classificazione dei fenomeni antidiscriminatori, laddove, si distinguono tradizionalmente la discriminazione diretta e quella indiretta. Com’è noto, la legislazione comunitaria definisce la discriminazione diretta come la situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente, in base al sesso, di quanto sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga (v. Direttiva n. 2006/54). L’art. 25, co. 1, del d.lgs. n. 198/2006 (il c.d. Codice delle Pari Opportunità), considera discriminazione diretta “qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”. Per discriminazione diretta si deve quindi intendere ogni condotta con la quale la persona, in ragione del genere, viene fatta oggetto di un trattamento sfavorevole, rispetto alle persone appartenenti all’altro genere. La discriminazione indiretta riguarda invece i casi in cui un trattamento omogeneo produce conseguenze diverse sui gruppi individuati dal legislatore, a causa delle specificità che connotano la maggioranza degli appartenenti ad un certo gruppo. Parliamo quindi di discriminazione che afferisce non ad un determinato fattore di rischio, ma ad un criterio neutro e di per sé legittimo, idoneo a provocare un impatto differenziato –e quindi con esiti discriminatori– tra gruppi di persone considerate, sfavorendo un gruppo rispetto ad un altro. Muovendo dalla formulazione normativa di cui all’art. 25, co. 2, del d.lgs. n. 198/2006 (che, sul punto, che riprende quella comunitaria), una discriminazione indiretta si verifica “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, sono in ogni caso possibili deroghe al divieto di discriminazione nelle particolari ipotesi di attività lavorative in cui il sesso rappresenta una condizione determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa; è, ad esempio, il caso dell’assunzione di soli lavoratori uomini o di sole lavoratrici donne nel campo della moda, con la finalità di partecipare ad una sfilata per una collezione maschile o femminile. In tali ipotesi, la discriminazione all’accesso al lavoro è quindi del tutto legittima. La giurisprudenza formatasi nel tempo in materia, in specie per la discriminazione “indiretta”, è andata progressivamente a sedimentarsi verso posizioni molto garantiste, ravvisando ad esempio l’esistenza di una tale ipotesi in quei bandi di concorso che prevedano, per i concorrenti, un’altezza minima al di sopra di quella che statisticamente è la media femminile, ma entro quella maschile (v. Cass. n. 23562/2007). Ancora (in tema di dati statistici), al fine di verificare la esistenza di una discriminazione indiretta di genere il giudice, nel caso in cui disponga di dati statistici, deve in primo luogo prendere in considerazione l’insieme dei lavoratori assoggettati alla disposizione di cui si dubita; il miglior metodo di comparazione consiste, poi, nel confrontare tra loro: le proporzioni rispettive di lavoratori che sono e che non sono “colpiti” dall’asserita disparità di trattamento all’interno della manodopera di sesso maschile (rientrante nel campo di applicazione della disposizione) e le medesime proporzioni nell’ambito della mano d’opera femminile (v. Cass. n. 21801/2021). E ancora (in tema di mancata assunzione di apprendista donna dopo due gravidanze), può ottenere l’accertamento e la repressione della condotta datoriale discriminatoria in ragione del sesso l’unica dipendente a cui, dopo due gravidanze in corso di rapporto, non sia trasformato il contratto di apprendistato: rileva il dato statistico, dal quale emerga che era stata l’unica non assunta all’esito del periodo di apprendistato, a fronte di 200 assunzioni di lavoratori che avevano svolto il medesimo apprendistato (v. Cass., ord. n. 3361/2023). La Corte di cassazione, con una lunga e articolata sentenza della sezione lavoro (la n. 10328 del 18 aprile 2023), ha chiarito come può essere provata la situazione svantaggiosa idonea a configurare una discriminazione indiretta di genere, precisando che, a tal fine, occorre dimostrare che una determinata disposizione colpisce in maniera negativa le persone di un certo sesso in misura significativamente maggiore rispetto a quelle di un altro sesso. Il fatto La Corte d’appello di Brescia, nell’accogliere l’appello principale proposto da una ex Azienda Sanitaria Locale e respingere gli appelli incidentali proposti dai lavoratori dalla Consigliera di parità, in parziale riforma della sentenza di prime cure, ha respinto integralmente le domande proposte dai lavoratori e intese ad accertare la nullità degli avvisi e delle graduatorie all’esito delle selezioni per l’accesso alle progressioni professionali orizzontali, indette dal 2010 in poi, per avere l’ASL redatto le graduatorie suddividendo i dipendenti non per categorie contrattuali bensì per “famiglie professionali”. Identica sorte per la domanda tesa ad accertare la nullità dei medesimi avvisi per discriminazione di genere, in relazione al computo dell’anzianità di servizio con il criterio del riproporzionamento alle ore di servizio prestato. Nel sottostante primo giudizio di merito era stata invece accolta la domanda sotto il diverso profilo della ritenuta discriminazione dei lavoratori a tempo parziale in generale rispetto ai lavoratori a tempo pieno, con ordine all’Azienda sanitaria di parificare ai fini delle già menzionate progressioni i lavoratori part-time a quelli full-time e adottare ogni utile determinazione sulla posizione di ciascuno dei ricorrenti interessati alla modifica. Sempre il tribunale aveva ritenuto che il predetto criterio realizzasse una discriminazione indiretta tra lavoratori e lavoratrici a tempo parziale e lavoratori e lavoratrici a tempo pieno, in quanto il calcolo dell’anzianità di servizio in maniera proporzionale alla percentuale di part-time comportava l’attribuzione di un punteggio minore in sede di valutazione delle domande e quindi un’effettiva situazione di svantaggio per i lavoratori a tempo parziale rispetto a quelli a tempo pieno a parità di anni di servizio, e ciò in violazione della norme dell’ordinamento Europeo (Direttiva 97/81/CE, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale) e anche dell’ordinamento interno (art. 4 del d.lgs. n. 61/2000, applicabile ratione temporis), in tal modo ravvisando una discriminazione a danno delle ricorrenti non in quanto donne ma in quanto lavoratrici con orario a tempo parziale, con riferimento pertanto al contratto di lavoro e non al genere di appartenenza. Da qui il ricorso per cassazione proposto sia dai, sia dalla Consigliera di parità, entrambi articolati in quattro motivi. Il decisum Va immediatamente premesso che la sentenza in esame, nell’accogliere il primo e il quarto motivo del ricorso principale, assorbito il secondo e dichiarato inammissibile il terzo, ha rigettato il ricorso incidentale, cassando la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con conseguente rinvio al Tribunale di Brescia, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., atteso che la domanda di rielaborazione delle graduatorie per la denunciata nullità degli avvisi e dei criteri adottati è potenzialmente destinata ad incidere sulla platea dei lavoratori già utilmente collocati nelle graduatorie impugnate, che assumono la posizione di controinteressati e vanno, di conseguenza, correttamente evocati in giudizio. Punctum pruriens della questione oggetto dell’esame di legittimità sono stati i due primi motivi del ricorso, valutati dalla Corte regolatrice unitariamente, in quanto intesi a censurare la sentenza impugnata per non aver ravvisato la discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, dovendosi comunque partire dalla disamina del primo motivo, che pone, fra l’altro, la questione dell’ammissibilità del rilievo officioso della nullità, di carattere pregiudiziale. Esame che ha ritenuto i medesimi fondati (il secondo motivo -inteso a denunciare la violazione di legge, sub specie di mancato apprezzamento della discriminazione dei lavoratori a tempo parziale, allegata in punto di fatto dalle parti sin dal ricorso introduttivo del giudizio- è rimasto assorbito dall’accoglimento del primo motivo). Nel richiamare proprio precedenti ed altri principi di diritto, la sentenza in commento,  contrariamente a quanto assunto dalla Corte territoriale, ritiene i medesimi pienamente applicabili al caso in esame posto che: a) siamo di fronte ad un atto negoziale, in quanto l’atto di cui si predica la nullità (avviso di selezione) va inquadrato come atto paritetico di gestione del rapporto e non già come atto amministrativo (cfr., in via più recente, Cass. Sez. n. 23827/2021), sicché rientra nello scenario prefigurato dalle Sezioni Unite, applicabile all’atto unilaterale ai sensi dell’art. 1324 cod. civ.; b) ricorre nella specie l’interesse generale tutelato, trattandosi di discriminazione in danno dei lavoratori a tempo parziale, oggetto di specifica previsione normativa interna (id est, l’art. 4 del d.lgs. n. 61/2000, applicabile ratione temporis) emanata in recepimento di normativa sovranazionale (la direttiva 97/81/CE relativa all’accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale), come (opportunamente) evidenziato già in prime cure, a protezione del soggetto tradizionalmente “debole” del rapporto lavorativo; c) la domanda di accertamento di nullità (parziale) degli avvisi per denunciata discriminazione di genere, in relazione al previsto criterio del riproporzionamento dell’anzianità di servizio dei lavoratori part-time, si prospetta in sé autodeterminata in relazione al petitum (la riformulazione delle graduatorie escludendo il criterio attinto da nullità), legittimando, in via astratta, l’accoglibilità della domanda sotto il diverso titolo della discriminazione dei lavoratori a tempo parziale, nella ricorrenza dell’ulteriore presupposto, rappresentato dalle risultanze ex actis, avendo i lavoratori ritualmente allegato le circostanze in fatto, come precisato nel secondo motivo (sul profilo della necessaria allegazione dei fatti su cui la nullità si fonda, ai fini dell’ammissibilità del rilievo officioso, già Cass. Sez. Un., n. 14828/2012, nonché, più di recente, Cass. n. 36353/2021, secondo la quale “Il rilievo d’ufficio di una nullità sostanziale è ammissibile esclusivamente se basato su fatti ritualmente introdotti, o comunque acquisiti in causa, secondo le regole che disciplinano, anche dal punto di vista temporale, il loro ingresso nel processo, non potendosi fondare su fatti di cui il giudice (o la parte, tardivamente rispetto ai propri oneri) possa ipotizzare solo in astratto la verificazione e la cui introduzione presupponga l’esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito.”). Ad avviso del collegio di legittimità la Corte territoriale ha ravvisato nella specie una violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, risultando invece ammissibile e, sotto certi profili doverosa, la rilevazione della nullità per discriminazione dei lavoratori part-time; e da qui la conseguente cassazione della sentenza impugnata sul punto. L’individuato giudice del rinvio (come detto, ex art. 383 c.p.c., il Tribunale di Brescia) viene quindi chiamato ad un nuovo esame della questione, nel cui ambito andranno vagliate anche le argomentazioni addotte dall’Asl per confutare in concreto la configurabilità della discriminazione già ritenuta dal giudice di primo grado. Sul punto, la sentenza in commento si premura di precisare che, in ragione di un proprio precedente (Cass. Sez. lav. n. 21801/2021) –cui dare continuità- “l’obiettivo di apprezzare in misura puntale l’esperienza di servizio è in sé legittimo. Occorre, tuttavia, rammentare, in relazione al giudizio di adeguatezza e necessità dei mezzi impiegati, che, come risulta da giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, “l’affermazione secondo la quale sussiste un nesso particolare tra la durata di un’attività professionale e l’acquisizione di un certo livello di conoscenze o di esperienze non consente di elaborare criteri oggettivi ed estranei ad ogni discriminazione. Infatti, sebbene l’anzianità vada di pari passo con l’esperienza, l’obiettività di un siffatto criterio dipende dal complesso delle circostanze del caso concreto, segnatamente dalla relazione tra la natura della funzione esercitata e l’esperienza che l’esercizio di questa funzione apporta a un certo numero di ore di lavoro effettuate” (cfr. CGUE, sent. C-274/18, punto 39, del 03.10.2019), con onere della prova a carico del datore. Con la sentenza n. 10328/2023 i giudici di legittimità hanno infatti dato delle linee guida per l’accertamento di una discriminazione indiretta, affermando che il giudicante, se dispone di dati statistici deve: a) preliminarmente considerare l’insieme dei lavoratori che sono interessati dalla disposizione di cui si discute; b) compararli, andando a confrontare quanti di loro sono colpiti dalla presunta disparità tra quelli di sesso maschile e quanti ne sono colpiti tra quelli di sesso femminile.  Seguito di questa comparazione, può ritenersi sussistente una discriminazione se i dipendenti colpiti da una certa disposizione con effetti negativi sono costituiti in maniera significativa da rappresentanti di uno dei due sessi. In altre parole, la valenza potenzialmente discriminatoria di un certo atto deve necessariamente essere apprezzata in concreto, anche su base comparativa e statistica. La decisione appena annotata ha colto l’occasione per precisare anche che non è possibile elaborare dei criteri oggettivi di trattamento dei lavoratori, estranei a qualsivoglia discriminazione, collegando la durata di un’attività professionale all’acquisizione di un determinato livello di conoscenze ed esperienze; del resto, sebbene sia vero che all’aumentare dell’anzianità aumenta l’esperienza, è parimenti vero che non possono non considerarsi tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, la natura della funzione e l’esperienza che questa fa maturare in relazione a un determinato numero di ore lavorate (ed è soltanto tenendo conto di ciò è possibile conferire a detto criterio i connotati dell’obiettività). Luigi Pelliccia, avvocato in Siena Visualizza il documento: Cass., 18 aprile 2023, n.10328 Scarica il commento in PDF L'articolo La Corte di Cassazione si pronuncia sulla valutazione del dato statistico da parte del giudice in una fattispecie relativa all’attribuzione del punteggio utile per la graduatoria, con riferimento alle lavoratrici a tempo parziale sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

Gestionali per studi e uffici professionali

Hai bisogno di nuovi strumenti per aumentare la produttività del tuo studio?
Chiamaci a questi numeri 0815374534 o 3927060481 (anche via whatsapp)
Lo staff di Safio ti aiuterà ad individuare la soluzione più adatta alle tue esigenze

    Accetta la Privacy Policy

    Please prove you are human by selecting the tree.