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In queste ultime settimane l’attenzione di noi operatori del diritto, e non solo, è stata carpita dalla proposta dell’attuale governo di introdurre una disciplina ad hoc delle dimissioni per fatti concludenti. Più nello specifico è stata proposta una modifica dell’attuale art. 9 del D.lgs. 151/15 con l’introduzione di un nuovo comma che prevede espressamente come “in caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo”. Si tratta del DDL Lavoro approvato dal Consiglio dei Ministri il 1° maggio 2023 e presentato alla Camera l’8 novembre 2023, registrato come AC 1532, in corso di esame nelle Commissioni competenti, sul quale v. l’articolo di Gionata CAVALLINI, «Dimissioni mai!», neanche per fatti concludenti. Qualche riflessione critica sulla novità del DDL governativo in materia di lavoro (AC 1532/2023), in Labor, 21 novembre 2023, al quale si rinvia anche per gli ulteriori riferimenti. Analizzando la proposta parrebbe chiara la volontà di introdurre una presunzione in forza della quale la condotta del lavoratore, che non giustifichi l’assenza per un determinato periodo, debba essere interpretata come volontà di dimettersi. Le conseguenze direttamente riconducibili all’operatività di tale presunzione sarebbero, ovviamente, l’impossibilità per il prestatore di lavoro di accedere alla NASPI. Tale proposta del Governo è stata accolta dalla platea in modo non uniforme con pregevoli ed approfondite argomentazioni da ambedue le parti. Senza volere, in alcun modo, entrare nella disputa, ma riallacciandoci al tema segnalo una pressoché recente ordinanza resa dalla Cassazione, la n. 27331 del 26 settembre 2023 ove la Suprema Corte ha analizzato il caso delle dimissioni per fatti concludenti. Più nello specifico la Corte d’Appello di Catania aveva ritenuto sprovvista di prova la domanda proposta dal lavoratore di accertamento di un provvedimento espulsivo (licenziamento orale) del datore di lavoro qualificando la condotta come dimissioni. Il tema relativo alla ripartizione dell’onere probatorio nel caso di licenziamento orale e più in particolare nell’ipotesi in cui sia il datore di lavoro a contestare che si sia trattato di licenziamento, è stato oggetto di un lungo dibattito giurisprudenziale. Un primo orientamento, che poneva l’accento sul primo comma dell’art. 2697 c.c., riteneva che l’onere di provare il recesso datoriale gravasse pressoché esclusivamente sul lavoratore che agiva per rivendicare il proprio diritto (ex multis, Cass., 22.03.1963, n. 701; Cass., 21.09.1965, n. 2027). A tale convinzione ha fatto seguito una giurisprudenza che ha ritenuto, piuttosto, di valorizzare il secondo comma della citata norma codicistica (ex multis, Cass., 27.08.2007, n. 18087; Cass., 20.05.2005, n. 10651). Si è sostenuto, dunque, che qualora il datore di lavoro non riuscisse a provare che il rapporto si fosse interrotto per effetto delle dimissioni ricevute sarebbe rimasto, in ogni caso, a suo carico la prova di avere osservato il principio della forma scritta del licenziamento mentre la prova gravante sul lavoratore sarebbe stata limitata alla cessazione del rapporto lavorativo. Più recentemente la Cassazione ha precisato, invece, come “qualora il datore eccepisca le dimissioni del proprio dipendente, il giudice sarà tenuto ad un’indagine rigorosa volta alla ricostruzione dei fatti, avvalendosi dei poteri istruttori d’ufficio riconosciutigli dalla legge e, solo nell’ipotesi in cui perduri un’insuperabile impasse probatoria, ad applicare la regola residuale desumibile dall’art. 2697 c.c. primo comma, rigettando la domanda del lavoratore che non abbia provato il fatto costitutivo della sua pretesa” (Cass.,09.07.2019, n. 18042). In questo senso, poi, la Suprema Corte ha inteso dare continuità a tale orientamento precisando come gravi sul lavoratore l’onere della prova “circa l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro ad iniziativa datoriale” (Cass., 08.01.2021, n. 149). Nel caso, invece, della sentenza resa nel settembre 2023 la Suprema Corte analizza la questione sotto un altro profilo concludendo per l’accoglimento del ricorso promosso dal lavoratore. L’accento è, infatti, stato posto sull’art. 26 del D.lgs. 151/2015, norma che sanziona con l’inefficacia le dimissioni (e risoluzione consensuale) rese senza il rispetto della procedura telematica. Si badi bene che tale disposizione è stata introdotta proprio per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco e la Cassazione, nella citata sentenza, precisa come tale requisito formale non alteri la natura unilaterale e recettizia delle dimissioni ma richiede il rispetto di determinate forme fatti salvi, ovviamente, i casi espressamente previsti dalla legge (ovvero che le dimissioni intervengano in sede assistita o avanti alla Commissione di certificazione). Logica conseguenza, per la Suprema Corte, è che il rapporto di lavoro possa essere risolto per dimissioni solo previa adozione di specifiche modalità formali, pena l’inefficacia dell’atto. A ben vedere già  con la sentenza 25583 del 10.10.2019 la Cassazione, nell’aprire la via alle dimissioni per fatti concludenti, precisava come tale possibilità sussistesse solo laddove non era prevista, ai fini del recesso, alcuna forma convenzionale. Ciò che emerge, dunque, alla luce della sentenza qui annotata è che la questione relativa all’osservanza dei requisiti formali pare così superare le problematiche relative all’assolvimento dell’onere probatorio. Il mancato rispetto della forma scritta, dunque, ha valore dirimente rispetto ad altre questioni. Mi pare, tuttavia, che se, da un lato, sia perfettamente aderente e rispettosa della normativa attuale la conclusione alla quale la Suprema Corte giunge, dall’altro, non si possa ritenere priva di valore, così come alcune sentenze di merito hanno fatto, la condotta tenuta dalle parti. Ciò a maggior ragione considerando che in diversi casi la Suprema Corte ha ritenuto priva di conseguenze la mancata osservanza delle forme previste dalla legge. Ritengo, pertanto, meritevoli di attenzione le conclusioni alle quali giunge il Tribunale di Udine con le note sentenze n. 106 del 30.09.2020 e n. 20 del 27.05.2022 (quest’ultima si può leggere in Labor, 8 luglio 2022, con nota di SPOSATO, Dimissioni senza dimissioni: tra interpretazione costituzionalmente orientata e creatività del giudice). Se nella prima pronuncia, il Tribunale friulano aveva riconosciuto il diritto del datore di lavoro ad essere risarcito dal lavoratore assente ingiustificato del costo del ticket NASPI, nella seconda è stato fatto un passaggio ulteriore. Il Giudice, infatti, pur nella vigenza dell’art. 26 del D.lgs. 151/2015, ha qualificato come dimissioni per fatti concludenti la prolungata assenza del lavoratore precisando come la non corretta formalizzazione delle dimissioni abbia valore secondario rispetto alla condotta concretamente mantenuta dalla parte di non dare seguito al contratto di lavoro, determinando tale condotta la risoluzione per fatti concludenti. Nel caso di specie il lavoratore aveva espressamente comunicato al proprio responsabile la volontà di non proseguire nel rapporto lavorativo senza fornire alcuna giustificazione alla sua assenza. Il Tribunale di Udine non ignora certo le forme sacramentali previste dall’art. 26 ritenendo, tuttavia, che tale norma disciplini il caso delle cd. “dimissioni istantanee” dove il legislatore ha voluto introdurre un correttivo al fine di evitare il già citato fenomeno delle “dimissioni in bianco”. Un’attenzione e valutazione diversa meriterebbe il caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore si sia manifestata nel tempo per effetto di condotte inequivocabili, condotte espressamente citata dalla legge delega 183 /2014 che, nel disporre l’introduzione di strumenti atti a garantire data certa ed autenticità delle dimissioni, impone identici obiettivi con riguardo all’ipotesi di “cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente” del lavoratore. Di certo ricondurre l’assenza ingiustificata sic et simpliciter ad una volontà abdicativa del lavoratore, senza prevedere preventivi ed indispensabili oneri di diffida in capo al datore, appare arduo ma, parimenti, escludere a priori validità ed efficacia alla condotta tenuta dalle parti sulla base della mancata osservanza delle forme previste dalla legge (non sempre “care” al diritto del lavoro) non pare essere soluzione altrettanto corretta. Alessandro Tonelli, avvocato in Milano Visualizza il documento: Cass., ordinanza 26 settembre 2023, n. 27331 Scarica il commento in PDF L'articolo Dimissioni per fatti concludenti e oneri formali: una questione ancora aperta! sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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