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Con l‘ordinanza n. 21950 del 21 luglio 2023, la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata sull’accertamento del nesso di causalità tra l’insorgenza di un tumore e l’esposizione all’amianto. In particolare, i giudici di legittimità hanno riconosciuto la possibilità di qualificare come malattia di origine professionale il tumore insorto a seguito del contatto con l’amianto durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, nonostante un’elevata attività di tabagismo del lavoratore. La Corte di Cassazione ha, infatti, sancito che il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendosi escludere l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni (La letteratura in materia di responsabilità oggettiva è sterminata; relativamente ad i più noti contributi « classici », di tipo monografico, in materia di responsabilità oggettiva, è d’obbligo il riferimento, almeno, a Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961; Comporti, Esposizione al pericolo e responsabilità civile, Napoli, 1965; Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964; Calabresi, Costo degli incidenti e responsabilità civile, Milano, 1975). La Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello proposto dagli eredi del lavoratore nei confronti della società datrici di lavoro, confermando la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni dai medesimi rivendicati, iure proprio e iure hereditatis, a causa del decesso del loro congiunto per malattia professionale contratta nello svolgimento dell’attività lavorativa di operaio elettromeccanico manutentore di mezzi rotabili presso le officine delle società medesime. La Corte territoriale, premesso che in primo grado era stato dichiarato il difetto di legittimazione passiva di (Omissis) spa e che il ricorso in appello era stato notificato a questa società solo ai fini dell’integrità del contraddittorio processuale, ha dato atto che la c.t.u. svolta in primo grado ha escluso il nesso causale tra l’attività lavorativa e il decesso del lavoratore sulla base dei seguenti elementi: – la manifestazione della malattia era avvenuta solo dopo quattro anni dall’inizio dell’attività lavorativa; – le lavorazioni precedenti all’assunzione presso altre officine meccaniche avevano comportato il contatto con fibre di amianto per circa 15-20 anni; – la durata dell’esposizione nel corso del rapporto alle dipendenze di dell’attuale società datrice di lavoro era stata breve; – il lavoratore fumava 30 sigarette al giorno da molti anni; – l’esposizione era stata non intensa poiché solo occasionalmente il lavoratore, durante le varie fasi di lavorazione, entrava in contatto con amianto aerodisperso. Ha ritenuto pacifici i primi quattro elementi, non oggetto di specifica censura con i motivi di impugnazione. Sul quinto elemento, attinente alla intensità dell’esposizione, ha rilevato come, anche dalle prove testimoniali raccolte, non fosse “emerso il dato della frequenza con la quale le lavorazioni comportassero specifiche attività dalle quali si generava la produzione di polveri aerodisperse (annerimento di caminetti, i cui residui venivano tolti a mano con l’aiuto di stracci, oppure segatura/carteggio di pannelli o altri componenti contenenti amianto, oppure pulizia delle corsie di passaggio dei locomotori in manutenzione), non risultando sufficiente, ai fini del giudizio di causalità, per quanto indicato dal c.t.u., il solo contatto con materiali costituiti da fibre di amianto, pur maneggiati quotidianamente nelle ordinarie attività di manutenzione” (Ciò ha spinto il legislatore comunitario ad introdurre il c.d. principio di precauzione (art. 191 TFUE), secondo cui «l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive » (principio 15 della Dichiarazione di Rio): in merito, sia consentito il rinvio a Nanna, Principio di precauzione e lesioni da radiazioni non ionizzanti, Napoli, 2003; tra i contributi più recenti, v. Rossano, Principio di precauzione e attività di impresa, in Riv. crit. dir. priv., 2016, 65 ss.; Vivani, Principio di precauzione e conoscenza scientifica, in Giur. it., 2015, 2474 ss.; Landini, Principio di precauzione, responsabilità civile e danni da eventi catastrofali, in Contratto impr. Europa, 2014, 14 ss.; Del Prato, Il principio di precauzione nel diritto privato: spunti, in Rass. dir. civ., 2009, 634 ss.). Secondo i giudici di appello, dati significativi non potevano desumersi dalle relazioni peritali eseguite in altri procedimenti instaurati da colleghi di lavoro del dipendente e dalle relative sentenze non risultando, ai fini della intensità dell’esposizione nociva, l’equipollenza delle rispettive mansioni; inoltre, da una relazione tecnica della società, concernente le lavorazioni comportanti esposizione a fibre di amianto nel periodo 1992/1994, emergeva che “per le manutenzioni sui rotabili svolte nel deposito ferroviario cui era adibito il dipendente per controllo e manutenzione di apparati elettrici, pneumatici, sostituzione di componenti, manutenzione e riparazione cassoni contenitori di apparati elettrici e pulizia relativi ambienti, la concentrazione di fibre di amianto era stimata in 30 ff/l” e che “nello stesso stabilimento dal 1992 non erano più utilizzati rivestimenti contenenti amianto oppure rivestimenti a spruzzo negli interni della carrozzeria, nei sottocassa, nelle cabine di guida e nei vagoni, né (erano usati) i caminetti spegniarco di interruttori, costituiti da miscele con rilevante presenza di amianto, il cui annerimento, come riferito dai testi, il ricorrente puliva a mano con l’aiuto di stracci”. La sentenza impugnata per Cassazione esclude l’esistenza di un nesso causale tra l’attività lavorativa e il decesso del lavoratore poiché “l’attività lavorativa del medesimo non era in grado di determinare da sola la produzione dell’evento lesivo, non avendo la forza di superare, in termini di efficienza causale, fattori estranei alla causa di servizio quali la prolungata massiccia dedizione al fumo e lo svolgimento di una precedente attività lavorativa a rischio per un considerevole arco di tempo”. Avverso tale sentenza gli eredi del dipendente hanno proposto ricorso per cassazione. Date tali premesse, i Giudici della Suprema Corte giungono ad affermare che nel caso di malattia astrattamente ricollegabile a distinte cause di origine lavorativa ed extra lavorativa (fra le quali ultime, come nella fattispecie considerata dalla sentenza, il fumo di sigaretta) un singolo fattore può essere considerato causa esclusiva della malattia solamente qualora, innescando una serie causale autonoma, sia stato in grado, da solo, di produrre l’evento (Per una ricostruzione storica sull’utilizzo dell’amianto, cfr. Coggiola, Alla ricerca delle cause. Uno studio sulla responsabilità per i danni da amianto, Napoli, 2011, 27 ss.; Ead., Amianto (danno alla persona), in Dig. civ., Agg., 2010, Torino, 2 ss.; Fabiani-Bonanni, Il danno da amianto. Profili risarcitori e tutela medico-legale, Milano, 2013, 15 ss.). Tale prova, tuttavia, non può essere oggetto di semplici presunzioni, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, in termini di “probabilità qualificata”. Alla luce di tali premesse, la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva assegnato al fumo di sigaretta il ruolo di fattore causale autonomo, idoneo di per sé a produrre la patologia tumorale, in ragione di semplici presunzioni e non di un accertamento concreto ancorato a dati scientifici, è stata ritenuta errata. Secondo gli eredi, infatti, l’insorgenza della patologia era da attribuirsi all’esposizione del lavoratore alle fibre di amianto presenti nei luoghi di lavoro. Nei primi due gradi di giudizio, però, come accennato, viene escluso che il decesso del lavoratore sia stato causato dall’esposizione alle fibre di amianto in quanto: a) la malattia si sarebbe manifestata dopo un lungo lasso di tempo rispetto al momento di esposizione alla sostanza cancerogena; b) la consulenza tecnica dell’organo giudicante avrebbe accertato un’elevata attività di tabagismo da parte del dipendente. Tanto è bastato ai giudici di merito per stabilire che la malattia del lavoratore deceduto non poteva essere considerata connessa all’attività di lavoro svolta, negandone così la genesi di natura professionale. Di diverso avviso, invece, è la Corte di Cassazione la quale, investita della questione, ha ravvisato come le corti di merito avessero fatto erronea applicazione del principio dell’equivalenza delle cause, previsto dal codice penale. Nell’ambito dell’accertamento del nesso di causalità in materia di malattia ad eziologia multifattoriale, infatti, trova applicazione l’art. 41 c.p., come confermato dal consolidato orientamento giurisprudenziale (tra le tante, Cass. Civ., Sez. Lav., 5 febbraio 1998, n. 1196), secondo cui, in presenza di più fattori a cui è possibile ricondurre l’insorgere della patologia, è necessario considerarli tutti come concause, a meno che uno da solo non sia stato sufficiente a determinarla (Stella, L’allergia alle prove della causalità individuale, cit., 380 ss.; Manca, Assalti e difese ai bastioni della causalità scientifica nei contributi più recenti di dottrina e giurisprudenza, cit., 492; Coggiola, Alla ricerca delle cause, cit., 135 s., secondo la quale l’approccio « rigoroso » della dottrina penalistica, pur « meritevole », porterebbe all’« impossibilità di accertare la responsabilità penale degli imputati, e di conseguenza, il risarcimento dei danni subiti dai soggetti lesi ». Sembra invece corretto ritenere che un giudizio di responsabilità civile e risarcitoria possa in ogni caso instaurarsi, indipendentemente dal risultato (o dall’esistenza) di quello penale). Sulla scia di tale orientamento, la Corte di Cassazione, a più riprese, è intervenuta applicando il principio di equivalenza delle cause per accertare l’origine professionale di malattie insorte a seguito dell’esposizione all’amianto del lavoratore, nonostante una perdurante attività di tabagismo. I giudici di legittimità hanno infatti posto l’accento sull’effetto sinergico e moltiplicatore dell’esposizione del lavoratore ad amianto e tabagismo (Cass. Civ., Sez. Lav., 9 settembre 2005, n. 17959). Pertanto, non si può escludere la possibilità che la patologia si sia sviluppata non solo in ragione del fumo di sigarette ma anche per l’esposizione all’amianto durante lo svolgimento dell’attività di lavoro. Questo fa sì che la malattia possa dirsi “professionale”, in quanto contratta “nell’esercizio e a causa delle lavorazioni“, come recita l’art. 3 del D.p.r. n. 1124/1965. Come è noto, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali trova applicazione la regola dell’art. 41 c.p., con la conseguenza che il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendosi escludere l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni (v. tra le tante, Cass. n. 6105 del 2015; n. 27952 del 2018; n. 678 del 2023). La Suprema Corte ha ribadito che, nel caso di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all’origine professionale della malattia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, e, se questa può essere data anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie (essendo impossibile, nella maggior parte dei casi, ottenere la certezza dell’eziologia), è necessario pur sempre che si tratti di “probabilità qualificata”, da verificarsi attraverso ulteriori elementi (come, ad esempio, i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale. I giudici prendono le mosse da un filone ermeneutico sposato dalla Suprema Corte per cui si era addivenuti alla riforma della sentenza di merito per non aver fatto corretta applicazione di tale principio di diritto, avendo ritenuto non sufficientemente dimostrato il nesso causale tra un tumore polmonare e l’attività lavorativa di un lavoratore tabagista ed esposto al rischio amianto, senza considerare l’intrinseca contraddittorietà esistente fra il riconoscimento dell’effetto sinergico fra esposizione ad asbesto e tabagismo, e la mancata valutazione di tale effetto fin dai tempi di incubazione della malattia, per non aver tenuto nel giusto conto la localizzazione del tumore nella zona ove vi è maggiore deposizione delle fibre di asbesto e per non aver adeguatamente considerato le più recenti acquisizioni scientifiche, affermanti che il rischio di tumore al polmone aumenta per i lavoratori esposti all’amianto, sia in presenza di una asbestosi, sia in assenza di tale malattia. In senso fortemente critico, Manca, Assalti e difese ai bastioni della causalità scientifica nei contributi più recenti di dottrina e giurisprudenza, cit., 471 ss., il quale parla di « improprie pulsioni giurisprudenziali » e di giudice visto quasi come « pontifex » o come « sciamano », che si spinge fino a preferire la condanna di un soggetto potenzialmente innocente, pur di assicurare « la tranquillità di tutti ». Sono qui riprese le idee di Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003, III ed., 23 ss.; Id., Fallacie e anarchia metodologica in tema di causalità. La sentenza Orlando, la sentenza Loi, la sentenza Ubbioli, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 48 ss). Secondo il Supremo Consesso, dunque, i giudici di merito avrebbero falsamente applicato il principio dell’equivalenza delle cause, avendo considerato il tabagismo come unica causa della malattia e qualificandolo, pertanto, come un fattore alternativo all’esposizione all’amianto durante l’ultima attività lavorativa svolta. Peraltro, ad avviso della Suprema Corte, la prova circa l’idoneità del fumo di sigarette di porsi come fattore alternativo scatenante la patologia tumorale non può essere oggetto di semplici presunzioni, ma deve essere dimostrata “in termini di probabilità qualificata” (Cass. Civ., Sez. Lav., 27 giugno 1998, n. 6388). Con tale sentenza, dunque, la Suprema Corte ha confermato il proprio orientamento ritenendo applicabile, in caso di malattia professionale ad eziologia multifattoriale, il principio di equivalenza delle cause e i suoi corollari. Giuseppe Maria Marsico, dottorando di ricerca in diritto privato e dell’economia e funzionario giuridico-economico-finanziario Visualizza il documento: Cass., ordinanza 21 luglio 2023, n. 21950 Scarica il commento in PDF L'articolo Causalità, danno lungolatente e principio di equivalenza delle condizioni: tra efficienza causale e produzione dell’evento dannoso sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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