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Per poter essere efficace, il marketing (aggiungo strategico, perché sempre prima si pensa e poi si agisce) chiede a gran voce alla realtà di cui è a servizio di definire molto bene:

– il suo purpose – ossia la ragione per cui quella realtà esiste al di là dell’offrire i servizi e/o i prodotti che offre,

– la sua vision – ossia il sogno, le aspirazioni a cui quella realtà tende nel fare ciò che fa,

– la sua mission – ossia una sintesi -ancora dalla valenza ispiratrice- di che cosa fa quell’organizzazione, come e per chi.

A valle di queste riflessioni, che possono essere considerate un po’ come le fondamenta su cui costruire qualsiasi realtà e al di là dei termini e corrispondenti definizioni (di cui se ne trovano varie versioni), si inserisce la strategia, ossia il vero e proprio piano di azioni ritenute necessarie per poter conseguire gli obiettivi identificati.

Sulla scorta di questa indispensabile premessa, facciamo un ulteriore passo avanti introducendo l’idea che l’approccio tradizionale delle attività “d’impresa” -e quindi anche degli studi- debba essere ripensato alla luce di un contesto che sta generando sfide molto diverse da quelle che lo caratterizzavano anche solo 10-15 anni fa.

Uno dei sistemi per farlo è adottare i principi alla base della sostenibilità secondo cui il fine ultimo dell’attività d’impresa non può consistere nella sola massimizzazione del profitto (obiettivo tipicamente di breve periodo), ma deve essere esteso alla creazione di valore nel lungo periodo.

In questo senso, qualsiasi realtà per dirsi sostenibile deve operare con due obiettivi:

– generare un ritorno economico per i proprietari/soci -condizione questa necessaria ma non sufficiente per poter garantire la continuità

– garantire benefici, economici e non, per tutti i soggetti che a vario titolo hanno a che fare con essa, ragionando quindi non solo nell’ottica di soddisfare gli shareholder come storicamente si è sempre fatto, ma di ampliare il raggio d’azione per includere anche tutti gli altri portatori di interesse (stakeholder).

Indubbiamente se questi sono gli obiettivi è necessario ripensare anche ai modelli operativi che regolano l’attività di impresa anche perché sempre la definizione di sostenibilità contiene non solo un orientamento al lungo periodo ma anche l’idea che non si debba compromettere il patrimonio di risorse ad oggi disponibile privando così le generazioni future delle nostre stesse opportunità.

Fondamentale è che la sostenibilità non sia quindi una sorta di impegno collaterale di cui ogni tanto occuparsi ma che, al contrario, entri a pieno titolo e diventi la base stessa della strategia di quella realtà. A partire dalla governance fino ad interessare tutte le scelte che riguardano i rapporti con fornitori, clienti, dipendenti e comunità di riferimento e ancora quelle relative all’impatto e all’utilizzo delle risorse ambientali: tutto viene deciso avendo la sostenibilità come principio ispiratore -o anche come metro di giudizio per usare dei termini un po’ più decisi.

A questo punto non ci resta che concludere l’esercizio immaginando che “faccia potrebbe avere” uno studio sostenibile. A partire dai soci e della governance, sarebbe una realtà in cui attorno al tavolo dei partner (e non solo) siederebbero un numero uguale di donne e uomini, non ci sarebbero altre discriminazioni di sorta, non ci sarebbero differenze nei compensi sulla base del genere, non sarebbe nemmeno in discussione operare senza rispettare le normative o tantomeno senza pagare tutte le imposte dovute. Sarebbe una realtà pronta a rifiutare dei clienti anche profittevoli perché appartenenti a settori considerati non etici per il tipo di prodotto/servizio offerto -es. giochi e scommesse, armi, ecc. – o perché avvezzi a comportamenti scorretti o ancora le cui modalità di operare non siano in linea con quello che la sostenibilità chiede -es. utilizzo di lavoro minorile, sfruttamento delle persone a vario titolo, produzioni inquinanti, ecc.

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L'articolo Che faccia ha uno studio sostenibile? sembra essere il primo su Euroconference Legal.

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