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Tribunale di Pordenone, sezione civile, sentenza 5 marzo 2020, Giudice Dott. Francesco Tonon (inedita)

Contratto d’affitto d’azienda – risoluzione del contratto per mancata certificazione di agibilità – non sussiste – clausola risolutiva espressa – risoluzione del contratto per omesso/tardivo pagamento canoni – occupazione senza titolo di immobile altrui – indennità di occupazione – azione di restituzione – risarcimento danno (c.d. figurativo) – criterio di determinazione – valore locativo del bene usurpato

Riferimenti normativi: artt. 1615 c.c. e 2562 c.c. – art. 24 D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) – art. 1456 c.c.

“… l’assenza del certificato di agibilità non è di ostacolo alla valida costituzione del rapporto locatizio e, in caso di utilizzazione del bene in concreto, non può legittimare la richiesta di risoluzione del contratto (se non in caso di definitivo diniego della competente autorità amministrativa al relativo rilascio) …”

“… ai sensi dell’art. 2 del contratto … il canone di affitto deve pagarsi in via anticipata entro il giorno 5 di ogni mese … il mancato pagamento dopo 5 giorni dalla scadenza anche di una sola rata dell’affitto o eventuali oneri accessori determina la risoluzione immediata del contratto con conseguente sfratto dai locali affittati, senza bisogno di diffida o di speciali atti a norma dell’art. 1456 c.c. …”

“… il contratto d’affitto d’azienda stipulato tra le parti si è risolto … successivamente a tale data vi è stata una occupazione sine titulo da parte dell’affittuaria … il proprietario che agisce con l’azione di restituzione ha diritto al risarcimento dei danni derivanti dall’occupazione senza titolo …”

“…la perdita della disponibilità del bene e l’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura normalmente fruttifera effettivamente appaiono elementi piuttosto convincenti in ordine all’affermazione che il danno è in re ipsa. Per tali motivi è ragionevole stabilire che la convenuta sia tenuta a pagare a favore della ricorrente a titolo di canone di occupazione la somma mensile stabilita per il canone di locazione …” 

CASO

La sentenza in commento ha ad oggetto un contratto d’affitto d’azienda, relativo alla gestione di un pubblico esercizio commerciale, un bar, sottoscritto nel 2009 tra il proprietario del compendio aziendale ed una società affittuaria.

Trascorso regolarmente il primo decennio, i rapporti s’incrinavano e il proprietario promuoveva azione cautelare ex art. 700 c.p.c., dinanzi al Tribunale di Pordenone, per ottenere la restituzione del contratto di affitto di azienda: declinava a tal fine una serie di domande in via principale (cessazione degli effetti del contratto a far data dal 1° gennaio 2019 o, in alternativa, dal 1° agosto 2019) e in via subordinata (risoluzione del contratto per grave ritardo nel pagamento di quattordici mensilità o, in alternativa, di quattro mensilità o, in ulteriore subordine, per impossibilità totale della prestazione intervenuta a seguito di dichiarazione di inagibilità accertata dalle Autorità competenti).

Ad ogni modo, sul presupposto della mancata riconsegna del bene nei termini di legge, veniva chiesto dal proprietario il risarcimento del danno per occupazione e utilizzo illegittimo del compendio aziendale, quantificato in una somma mensile corrispondente al canone, sino al giorno dell’effettiva riconsegna.

Si costituiva in giudizio la parte convenuta, dichiarando l’insussistenza di morosità e chiedendo il rigetto di tutte le domande, compresa la restituzione del pubblico bar.

SOLUZIONE

Il Giudice, esaminati gli atti e i documenti, esclusa nel caso la risoluzione del contratto per carenza del certificato di agibilità, ravvisava la fondatezza della domanda di risoluzione del contratto per grave ritardo nel pagamento di quattro mensilità, ordinava all’affittuaria il rilascio immediato del compendio aziendale, condannandola altresì al risarcimento del danno per occupazione sine titulo sino all’effettivo rilascio.

Quanto alla prova, il Giudice riteneva il danno in re ipsa, quantificandolo nella somma mensile stabilita per il canone di locazione.

QUESTIONI GIURIDICHE

La sentenza in commento offre lo spunto per esaminare alcune questioni giuridiche relative al contratto d’affitto d’azienda[1], segnatamente alle ipotesi di risoluzione anticipata, alle conseguenze del mancato rilascio del bene e al successivo diritto al risarcimento del danno (onere probatorio e criterio di quantificazione), in favore del proprietario/concedente.

1) La risoluzione del contratto ex art. 1456 c.c.

La sentenza in commento esamina due diversi presupposti, evocati dalla difesa del ricorrente per l’applicazione della clausola risolutiva espressa (e la conseguente declaratoria di risoluzione del contratto): il sopravvenuto difetto del certificato di agibilità rilasciato dal competente Ufficio Comunale e il ritardo nell’adempimento del pagamento del canone di affitto.

Quanto al primo presupposto, si rammenta che, ad un certo momento, l’Autorità Amministrativa aveva dichiarato inagibile il pubblico esercizio.

Il Giudice, tuttavia, non accoglie tale circostanza quale presupposto per dichiarare risolto il contratto, atteso che l’irregolarità amministrativa non aveva compromesso il godimento del bene (azienda), né, del resto, era intervenuto un diniego definitivo al relativo rilascio, da parte della Pubblica Amministrazione competente (Il mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d’uso dei beni immobili – ovvero alla abitabilità dei medesimi – non è di ostacolo alla valida costituzione di un rapporto locatizio, sempre che vi sia stata, da parte del conduttore, concreta utilizzazione del bene, mentre, nell’ipotesi in cui il provvedimento amministrativo necessario per la destinazione d’uso convenuta sia stato definitivamente negato, al conduttore è riconosciuta la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto)[2].

Si aggiunga che non sussistono i presupposti per la risoluzione del contratto nemmeno nel diverso caso di cui all’art. 1578, I co., c.c., quando cioè “… il conduttore, essendo a conoscenza della destinazione d’uso dell’immobile locato (nella specie, commerciale e non artigianale) al momento in cui al contratto venne data attuazione (nella specie, come desunto dalla clausola contrattuale relativa al divieto di mutamento della destinazione originaria) e, quindi, anche della inidoneità dell’immobile a realizzare il proprio interesse, abbia accettato il rischio economico dell’impossibilità di utilizzazione dell’immobile stesso come rientrante nella normalità dell’esecuzione della prestazione. In tal caso, il mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d’uso dell’immobile locato non è di ostacolo alla valida costituzione del rapporto di locazione, sempre che vi sia stata, da parte del conduttore, concreta utilizzazione del bene secondo la destinazione d’uso convenuta[3].

Diverse le conclusioni, invece, riguardo alla risoluzione del contratto per ritardo nel pagamento del canone.

Il Tribunale di Pordenone ha giustamente osservato che, stabilita contrattualmente la corresponsione dell’affitto entro un determinato giorno, “… il mancato pagamento dopo 5 giorni dalla scadenza anche di una sola rata dell’affitto o eventuali oneri accessori determina la risoluzione immediata del contratto con conseguente sfratto dai locali affittati, senza bisogno di diffida o di speciali atti a norma dell’art. 1456 c.c. …”.

Come opportunamente sottolineato dalla dottrina[4] e dalla giurisprudenza:“… In giurisprudenza è stato evidenziato come l’azione ex art. 1456 c.c. abbia presupposti, caratteri e natura sostanzialmente diversi dall’azione ordinaria di risoluzione ex art. 1453 c.c. Mentre quest’ultima ha come scopo principale quello di ottenere una pronuncia costitutiva diretta a sciogliere il vincolo contrattuale sul presupposto dell’accertamento da parte del giudice della gravità dell’inadempimento contrattuale, la prima tende invece ad una pronuncia ad effetti meramente dichiarativi dell’intervenuta risoluzione di diritto del contratto …”[5].

Va da sé che, qualora le parti non abbiano pattuito la clausola risolutiva espressa (la quale presuppone l’inadempimento rispetto ad uno o più specifici e concordati obblighi), la risoluzione per inadempimento resta sottoposta alla disciplina generale di cui all’art. 1455 c.c. (importanza dell’inadempimento)[6].

2) Risarcimento del danno da occupazione sine titulo: aspetti probatori e criterio di quantificazione

 Accertata la risoluzione anticipata del contratto d’affitto d’azienda, è pienamente condivisibile la conclusione del Giudice laddove dichiara che, a partire dal giorno successivo a tale data, la permanenza dell’affittuario all’interno dell’esercizio abbia configurato un’occupazione sine titulo.

Del resto, può dirsi acquisito anche il diritto del concedente/proprietario di richiedere il risarcimento del danno derivante da tale situazione di fatto, contestualmente all’azione di restituzione (fatto salvo un orientamento minoritario che esclude, in via generale, qualunque pretesa risarcitoria)[7].

 Tuttavia, la posizione della giurisprudenza non è altrettanto netta per quanto riguarda l’onere probatorio, a carico del proprietario: secondo un primo orientamento – cui aderisce la sentenza in commento – il danno è in re ipsa, in quanto discende direttamente dalla perdita della disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso[8].

Da ciò deriva l’assenza di oneri probatori del danno subìto, in capo alla parte che fa valere la pretesa risarcitoria.

Diversamente opinando, altro orientamento giurisprudenziale nega la natura “in re ipsa” del danno, atteso che Nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa” – pena lo sconfinamento nel c.d. “danno punitivo”, che tuttavia dovrebbe avere copertura normativa – “… atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.; ne consegue che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dall’allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto (In applicazione del principio, la S.C., in fattispecie relativa a richiesta di risarcimento danni per trasloco di mobilio e trasferimento degli abitanti in altro alloggio, ha confermato la sentenza secondo cui difettava la prova del danno – qualificato come emergente – avendo i ricorrenti invocato un obbligo di liquidazione “in re ipsa”, attraverso il criterio equitativo del valore locativo dell’immobile, anziché provare nell’”an” e nel “quantum” le conseguenze negative derivanti, di regola, dallo spossessamento)[9].

Sicché, sulla scorta di codesto secondo orientamento, sussiste un onere probatorio del danno in capo al proprietario, che ben può essere integrato anche mediante presunzioni semplici (ovverosia gravi, precise e concordanti).

Ritenuto quindi l’an “in re ipsa” (vale a dire nel fatto dell’intervenuta occupazione sine titulo) ovvero accertatane la sussistenza anche mediante presunzioni semplici, la giurisprudenza – compresa quella in commento – è concorde nella relativa quantificazione secondo il criterio del c.d. “danno figurativo”, parametrato sulla scorta del valore locativo del bene usurpato e corrispondente, quindi, al canone mensile di affitto[10]. 

[1] Con la recente sentenza n. 3888/2020, la terza sezione della Suprema Corte ha ribadito il granitico principio – già definito “ius receptum” dalla Consulta negli ormai lontani anni ’90 (Corte Cost. 13/07/1994 n. 294) – secondo cui La locazione di immobile con pertinenze si differenzia dall’affitto di azienda perché la relativa convenzione negoziale ha per oggetto un bene, l’immobile concesso in godimento, che assume una posizione di assoluta ed autonoma centralità nell’economia contrattuale, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi che, legati materialmente o meno ad esso, assumono, comunque, carattere di accessorietà, rimanendo ad esso collegati sul piano funzionale in una posizione di coordinazione-subordinazione, mentre, nell’affitto di azienda, lo stesso immobile è considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni (mobili ed immobili) legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, così che oggetto del contratto risulta proprio il complesso produttivo unitariamente considerato, secondo la definizione normativa di cui all’art. 2555 c.c.: la corretta qualificazione giuridica della fattispecie attiene dunque alla valutazione se oggetto del contratto sia, in modo prevalente, il godimento dell’immobile (e relativi beni accessori) ovvero dell’azienda, intesa come “… complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555 c.c.), unitamente alla valutazione (positiva) della preesistenza dell’azienda (rispetto alla formazione del contratto) o, quantomeno, dell’organizzazione dei beni per fini produttivi (Cass. civ., sez. III, 29/09/1999 n. 10767). Ne deriva l’inapplicabilità all’affitto d’azienda della Legge n. 392/1978 sull’equo canone (salvo l’art. 36), regolato invece dalle norme del codice civile in materia di affitto (art. 1615 c.c.) e di azienda (art. 2562 c.c.) (Cass. civ., sez. III, 12/06/1995 n. 6591).

[2] Cass. civ., sez. III, 25/05/2010 n. 12708; conformi, ex multis, Cass. civ., sez. III, 22/12/2010 n. 25798; Cass. civ., sez. III, 21/12/2004 n. 23695; Cass. Civ., sez. II, 08/01/2013 n. 259; Cass. civ., sez. VI, 18/05/2018 n. 12226.

[3] Cass. civ., sez. III, 21/01/2011 n. 1398; conformi: Cass. civ., sez. III, 07/06/2011 n. 12286; Cass. civ., sez. III, 09/06/2010 n. 13841; Cass. civ., sez. III, 26/04/2010 n. 9910.

[4] LUPPINO S., “Locazioni immobiliari: redazione e impugnazione del contratto”, Maggioli Ed. Santarcangelo di Romagna, 2018, pag. 165.

[5] Sulle conseguenze processuali della sentenza di accertamento della risoluzione del contratto ex art. 1456 c.c. si vedano Cass. civ., sez. II, 26/03/2009 n. 7369 e Cass. civ., sez. III, 15/11/2013 n. 25743, in cui si legge: “L’azione di accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto per effetto d’una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c. tende ad una pronuncia dichiarativa, perché implica l’accertamento dell’inadempienza, con la conseguenza che non ha l’idoneità, con riferimento all’art. 282 c.p.c., all’efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato; pertanto, fino al momento della definitività della sentenza di accertamento … il rapporto contrattuale permane e con esso, nel caso di contratto a prestazioni corrispettive, qual è quello di locazione, l’obbligo del conduttore di continuare a corrispondere il canone”.

[6] Sotto questo specifico profilo, la disciplina giuridica dell’affitto d’azienda e delle locazioni commerciali è la medesima, attesa la comune inapplicabilità degli artt. 5 e 55 L. n. 392/1978, poste dall’ordinamento a speciale tutela delle sole locazioni abitative.

[7] Sul punto si veda Cass. civ., sez. III, 05/05/2020 n. 8482, con nota di LUPPINO S., “La misura del risarcimento del danno da risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore”, in www.eclegal.it del 09/06/2020, in cui vengono inquadrati i due diversi orientamenti giurisprudenziali.

[8] Ex multis: Cass. civ., sez. III, 25/02/2014 n. 4442; Cass. civ., sez. III, 16/04/2013 n. 9137; Cass. civ., sez. VI, 06/09/2017 n. 20856; Cass. civ., sez. II, 24/09/2009 n. 20617; Cass. civ., sez. II, 17/11/2011 n. 24100; Cass. civ., sez. II, 09/05/2011 n. 10153; Cass. civ., sez. II, 01/03/2011 n. 5028; Cass. civ., sez. III, 13/02/2015 n. 2865; Cass. civ., sez. I, 20/11/2018 n. 29990: Cass. civ., sez. II, 22/11/2019 n. 30549; Cass. civ., sez. I, 20/11/2018 n. 29990.

[9] Cass. civ., sez. III, 24/04/2019 n. 11203; conformi: Cass. civ., sez. III, 04/12/2018 n. 31233; Cass. civ., sez. III, 17/06/2013 n. 15111; Cass. Civ., sez. III, 11/01/2005 n. 378; Cass. civ., sez. VI, 10/12/2013 n. 27614; Corte d’Appello Catania, sez. II, 27/03/2020; Trib. Bergamo, IV sez., 11/02/2020.

[10] Ex multis Cass. civ., n. 5028/2011, cit.

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