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Trib. di Napoli, Sezione VII civile, 17 aprile 2020 – estensore L. De Gennaro

Successivamente all’omologazione di una procedura di piano del consumatore, manifestatasi la situazione emergenziale della pandemia Covid-19, il debitore, di concerto con l’OCC, rivolge istanza al giudice della procedura chiedendo la sospensione dell’esecuzione del piano, per sei mensilità, dal 15 marzo 2020 al 15 settembre 2020 (si ricava che il piano prevedeva la soddisfazione dei creditori mediante pagamenti rateali). A sostegno dell’istanza, accompagnata da parere favorevole dell’OCC, il debitore adduce di aver sempre dato puntuale esecuzione al piano, ma di essere stato posto dalla grave situazione emergenziale nell’impossibilità di proseguire nell’esecuzione secondo le modalità e i tempi concordati.

Il Tribunale assume la decisione, senza disporre né la convocazione dei creditori, né ch’essi siano avvisati (e, se del caso, espongano la loro posizione al riguardo), adducendo ragioni d’urgenza e la presenza del parere favorevole dell’organismo; nel merito, richiama, da un lato l’art. 13, comma 4-ter l. 3/2012, che consente al debitore, nel caso in cui l’esecuzione del piano sia divenuta impossibile, di modificarlo e, dall’altro lato, il disposto dell’art. 91 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, che ha aggiunto all’art. 3 del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazione in legge 5 marzo 2020, n. 13, un ulteriore comma, 6-bis, a tenore del quale “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 c.c. e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati od omessi adempimenti”; e, in applicazione di questa norma, il tribunale afferma la prevalenza del disposto dell’art. 13, comma 4-ter, rispetto a quello dell’art. 14-bis, comma 2, lett. b), il quale ultimo prevede che i creditori possano chiedere di far dichiarare cessati gli effetti del piano del consumatore, “se l’esecuzione del piano diviene impossibile anche per ragioni non imputabili al debitore”.  A tale argomentazione, costituente il nucleo centrale della motivazione si accompagnano, poi, a mo’ di corollario, il richiamo alle disposizioni emergenziali in tema di sospensione dei termini di esecuzione del piano nelle procedure di concordato preventivo e accordi di ristrutturazione e al principio generale di buona fede.

I termini della questione Chiamata a dirigere il traffico nel non facile incrocio tra la disciplina della legge speciale sulle procedure negoziali di composizione del sovraindebitamento, le norme e, ancor prima, i principi generali dell’ordinamento in tema di responsabilità per inadempimento e, infine, la legislazione emergenziale – la decisione in commento opta per la soluzione apparentemente più equa, con serio rischio, peraltro di provocare nuovi ingorghi nel traffico o, peggio, incidenti dalle conseguenze alquanto serie.

Il punto di partenza della motivazione s’incentra nella norma di nuova introduzione e dichiaratamente volta a regolare le conseguenze della situazione eccezionale venutasi a creare per effetto della grave crisi economica prodottasi a seguito della pandemia. La lettura datane, se pienamente comprensibile sotto altri profili, si palesa a dir poco dubbia in termini di stretto diritto. Il richiamo al “rispetto delle misure di contenimento” quale scriminante della responsabilità del debitore opera senza alcun dubbio nel caso in cui il factum principis abbia impedito normativamente l’esecuzione della prestazione: il divieto di eseguire certe lavorazioni, ad esempio il blocco dei cantieri edili, costituisce certamente il fatto non imputabile al debitore e che giustifica la sua mancata esecuzione della prestazione; se il decreto vietava che fossero eseguite quelle prestazioni, il debitore è senz’altro giustificato; in simili casi, le “misure di contenimento” vanno sempre valutate, ça va sans dire.

Ma il discorso è diverso se si fa riferimento a ipotesi in cui la mancata esecuzione della prestazione non dipende da una norma imperativa che la vieti; si consideri che la norma eccezionale si riferisce agli artt. 1218 e 1223 c.c. e che la costante interpretazione di queste disposizioni è nel senso che l’inadempimento deve dipendere da impossibilità della prestazione che deve essere assoluta[1], e non dalla maggiore o difficoltà od onerosità della prestazione stessa per il singolo debitore[2]; insomma, non è rilevante l’impossibilità soggettiva, ma soltanto quella oggettiva[3]: il debitore è liberato soltanto nell’ipotesi in cui la mancata esecuzione sia impossibile per tutti, non per il singolo debitore, quale che sia la ragione per cui, per quello, la prestazione non sia possibile. Così, se il debitore non è in grado di adempiere perché, ad esempio, i suoi dipendenti scioperano[4], non si versa in ipotesi d’inadempimento incolpevole; del pari, se non gli è stata consegnata, da un fornitore a cui l’aveva chiesta per tempo, la merce che egli avrebbe dovuto lavorare, etc. E ciò vale, in particolare, per l’inadempimento di obbligazioni pecuniarie, per le quali, costantemente, si è sempre affermato che l’incapacità ad adempiere che dipenda dall’inadempimento dei propri clienti o debitori non costituisce motivo per escludere la responsabilità del debitore[5].

Se questi sono i termini della questione, si vede bene che ragionare nei termini della decisione, che considera esimente le difficoltà derivanti dalla gravissima crisi che ha avuto come conseguenza la perdita del lavoro da parte del debitore (come nel caso di specie), merita sicuramente la massima comprensione dal punto di vista umano, ma difficilmente sembra corretto in punto di diritto.

E, per quanto simili letture si stiano diffondendo[6], l’orientamento sul quale la giurisprudenza emergenziale sembra volersi adeguare è errato. Ed è tanto più errato se si considera che, senza stravolgere principi giuridici ben consolidati, sarebbe bastato al tribunale, per risolvere la questione, invocare la disposizione dell’art. 9, comma 1, del d.l. 8 aprile 2020, n. 23, a tenore del quale i termini  di adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione omologati, aventi scadenza nel periodo tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021, sono prorogati di sei mesi. Disposizione, certo, dettata per le due procedure previste dalla legge fallimentare, ma, considerata l’indubbia natura di procedura concorsuale del piano del consumatore e la sua intrinseca modellazione in conformità all’istituto del concordato, sia pure coattivo, l’applicazione analogica della disposizione sarebbe stata senz’altro possibile, tanto più che la stessa decisione richiama, sia pure a conforto della diversa argomentazione, la norma del d.l. 23/2020.

Conclusioni Bisogna riconoscere che non è facile districarsi dovendo interpretare la legge n. 3/2012, che non poche volte è stata criticata per una certa farraginosità, per evidenti errori (basti pensare alla menzione di un’inesistente omologazione della procedura di liquidazione del patrimonio[7]) e per varie contraddizioni. Tra queste ultime, una delle più stridenti, è quella tra l’art. 13, comma 4-ter (il quale consente al debitore di modificare il piano omologato, quando l’esecuzione del piano diviene impossibile “per ragioni non imputabili al debitore”) e l’art. 14-bis, comma 2, lett. b) (che prevede che i creditori possano chiedere la cessazione di diritto degli effetti dell’omologazione quando l’esecuzione del piano diviene impossibile “anche per ragioni non imputabili al debitore”). Verosimilmente, il conflitto va risolto ritenendo che l’impossibilità di esecuzione inimputabile dia titolo per chiedere, ad opera del debitore, la modificazione del piano, e che, se questo non avviene, ne consegua la facoltà di chiedere la cessazione degli effetti dell’omologazione. Sul punto la decisione in rassegna appare corretta.

Ci pare di dover dissentire, invece, dall’interpretazione dell’art. 1218 c.c. in termini del tutto divergenti rispetto a quella della giurisprudenza consolidata; e, se è consentito, ci pare che, a voler tutto concedere, ai creditori debba essere riconosciuto, se non di essere convocati, almeno il diritto di esprimere il loro parere, come è espressamente previsto dallo stesso art. 13, comma 4-ter, che rimanda, in caso di modifiche del piano, alle disposizioni in tema di procedimento di omologazione del piano, con necessario interpello dei creditori[8]. La legislazione emergenziale già ha immutato diversi scenari anche nel capo del diritto; ma non ci pare che ancora abbia spazzato via la regola che si riassume nell’antico brocardo audiatur et altera pars.

[1] Cass. 15 novembre 2013, n. 25777; Trib. Roma 3 ottobre 2013, in Juris Data.

[2] Cass. 15 novembre 2013, n. 25777; Trib. Reggio Calabria 27 novembre 2019, in Juris Data.

[3] Cass. 28 novembre 1998, n. 12093.

[4] Cass. 2 maggio 2006, n. 10139, che precisa che sarebbe invece incolpevole lo sciopero di tutti i lavoratori appartenenti al medesimo settore produttivo.

[5] Cfr. Cass. 15 novembre 2013, n. 25777; Cass. 20 maggio 2004, n. 9645.

[6] Si veda l’immediato precedente, in termini analoghi, Trib. Napoli 3 aprile 2020 (altro estensore), in Il Caso.it, pubb. 7.4.2020; per un provvedimento, ex art. 700 c.p.c., con cui è stato vietato al creditore di porre all’incasso titoli di credito in scadenza, sempre sulla base della motivazione delle sopravvenute difficoltà ad onorarli, a causa delle difficoltà economiche provocate dalla crisi, v. Trib. Genova 1° giugno 2020, proc. n. 3634/2020.

[7] Art. 14-quinquies, comma 2, lett. b.

[8] Cfr., per un’ipotesi di modifica del piano per essere questo divenuto impossibile, in cui è stato ritenuto che ai creditori dovesse almeno essere dato avviso, cfr. Trib. Mantova 3 febbraio 2020, in Il Caso.it, p. 18.2.2020.

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