Decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento di testamento olografo
Cassazione Civile, Sez. 2, sentenza n. 4449 del 19/02/2020
SUCCESSIONI “MORTIS CAUSA” – SUCCESSIONE TESTAMENTARIA – Testamento olografo – Azione di annullamento – Termine di prescrizione quinquennale – “Dies a quo” – Individuazione – Riscossione del canone di locazione – Compimento di un atto gestionale per un solo bene dell’asse – Sufficienza.
Il “dies a quo” di decorso del termine di prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento del testamento olografo per incapacità del testatore, ex art. 591 cod. civ., va individuato in quello di compimento di un’attività diretta alla concreta realizzazione della volontà del “de cuius” – come la consegna o l’impossessamento dei beni ereditati o la proposizione delle azioni giudiziarie occorrenti a tale scopo – anche da parte di uno solo dei chiamati all’eredità e senza che sia necessario eseguire tutte le disposizioni del testatore. Ne consegue che, in caso di istituzione di un erede universale, non occorre che questi dimostri, al fine predetto, di aver disposto a titolo esclusivo dei beni costituenti l’intero “universum ius defuncti”.[1]
Disposizioni applicate
Articoli 591, 606 cod. civ.
[1] Nel novembre 2015 Tizio, Caio e Sempronio convenivano in giudizio la propria sorella Mevia per sentir annullare, ai sensi dell’articolo 591 cod. civ., il testamento olografo redatto dalla propria madre Tiziona con il quale la sorella convenuta era stata istituita erede universale.
Il giudice di primo grado, a seguito di C.T.U. e non ritenendo prescritta la domanda di annullamento, accertava lo stato di incapacità di intendere e di volere del testatore e, conseguentemente, accoglieva la domanda attorea e, per l’effetto, dichiarava aperta la successione legittima. La soccombente proponeva appello e la Corte adita dichiarava – nel dispositivo – l’inammissibilità del gravame, pur avendo, in effetti, confermato nel merito la decisione di prime cure in ordine all’insussistenza della maturata prescrizione dell’azione di annullamento (non potendosi ritenere che fosse stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie) e alla ricorrenza delle condizioni per dichiarare l’annullabilità dell’impugnato testamento.
[2] Mevia proponeva, quindi, ricorso per cassazione, articolandolo in tre motivi, dei quali è il secondo ad essere oggetto della presente analisi.
Con tale censura la ricorrente denunciava l’erroneità della sentenza di appello nella parte in cui non aveva rilevato che l’avversa azione di annullamento fosse da considerarsi ormai prescritta al momento della sua introduzione, con riferimento al disposto dell’articolo 606 cod. civ., comma 2.
Gli Ermellini hanno ritenuto fondato tale motivo, analizzando in maniera approfondita la questione relativa alla decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dell’azione di annullamento del testamento per incapacità naturale (con ragionamento applicabile anche all’ipotesi di annullamento per difetto formale ex art. 606, secondo comma, cod. civ.).
Dapprima, la Suprema Corte ricorda che il dies a quo ai fini di detto decorso viene, dal nostro codice, identificato con il “giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie“, ed evidenzia come il nodo da sciogliere sul piano giuridico sia “quello di stabilire con quali modalità la manifestazione di detta esecuzione possa essere ritenuta idonea per determinare l’effettivo momento utile per la decorrenza del suddetto termine”.
A sostegno della propria tesi, richiamano la giurisprudenza precedente della Suprema Corte la quale, in due pronunciati (Cass. Civ. n. 892/1987 e n. 18560/2009) ha statuito “che per esecuzione del testamento, al fine in questione, deve intendersi un’attività diretta alla concreta realizzazione della volontà del testatore come la consegna o l’impossessamento dei beni ereditati o la proposizione delle azioni giudiziarie occorrenti a tale scopo, con la conseguenza che non valgono a far decorrere il detto termine ne’ la pubblicazione del testamento olografo, che è atto anteriore e soltanto preparatorio alla sua effettiva esecuzione, ne’ la presentazione della denuncia di successione ed il pagamento dell’imposta, che costituiscono atti dovuti, volti ad evitare conseguenze sfavorevoli alla massa ereditaria”.
Nel caso di specie, la Cassazione ritiene errato il ragionamento condotto dalla Corte d’Appello che aveva escluso potersi rinvenire un’attività qualificabile come esecuzione delle disposizioni testamentarie. Mevia aveva continuato a percepire, subito dopo la morte della madre, il canone di locazione di un immobile commerciale (già locato dalla testatrice) facente parte del compendio ereditario ed al riguardo, il giudice di secondo grado aveva rilevato che “il menzionato comportamento (…) poteva inquadrarsi nell’attività di amministrazione della “res comune” (per effetto della successione nel contratto di locazione di tutti gli eredi) e che, inoltre, la riscossione dei canoni relativi ad un singolo cespite non potesse considerarsi indizio inequivoco della volontà dell’odierna ricorrente di disporre a titolo esclusivo dei beni ereditari”.
Il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale ed il suo esito non sono, ad avviso del giudice di legittimità, corretti in punto di diritto.
Si osserva, infatti, che, “per un verso, deve ritenersi che l’attività di riscossione dei canoni relativi all’immobile già locato dalla testatrice, realizzata in continuità subito dopo il decesso di quest’ultima e successivamente proseguita, ha rappresentato una condotta sufficiente a far emergere la volontà di Mevia di dare seguito alla condotta gestionale già eseguita dalla madre (…), facendo propri i relativi frutti nel tempo, così intendendo porre in esecuzione, ancorché’ parzialmente, le disposizioni testamentarie; per altro verso, la circostanza che l’attività esecutiva si fosse concretizzata solo in detta condotta avrebbe dovuto essere considerata, comunque, idonea ad avere rilievo in funzione dell’applicazione del disposto di cui al citato articolo 591 cod. civ., comma 3”.
E’, infatti, sufficiente che un’attività esecutiva sia posta in essere anche solo da uno dei chiamati e non appare necessario che siano eseguite tutte le disposizioni del testatore, “poiché’ altrimenti la situazione giuridica inerente allo “status” dei chiamati all’eredità e alla qualità stessa di eredi rimarrebbe indefinitamente incerta, eventualità che la legge ha inteso evitare assoggettando l’azione di annullamento, su istanza di chiunque vi abbia interesse, al breve termine quinquennale dall’esecuzione anche parziale dell’atto di ultima volontà”[2].
[3] Se le argomentazioni della Suprema Corte appaiono condivisibili, sia ugualmente concesso allo scrivente di svolgere alcune riflessioni critiche.
Senza dubbio, l’esecuzione parziale delle disposizioni testamentarie anche da parte di uno solo degli eredi, integra tutti gli estremi e porta alle conseguenze riconosciute dalla Cassazione.
Ed è pur vero che dall’accettazione dell’eredità, quale atto formale, non necessariamente discende un’attività esecutiva (diversamente è a dirsi per i casi di accettazione tacita e presunta, laddove l’accettazione stessa discende dal compimento di un’attività da parte del chiamato).
E deve ammettersi che non si rinvengono in giurisprudenza pronunce difformi a quella in esame in ordine all’identificazione del dies a quo della prescrizione.
Tuttavia, alcune perplessità permangono.
In larga parte dei casi, non sorgono problemi, poiché è facilmente rinvenibile un’attività esecutiva da parte del chiamato già a ridosso della pubblicazione del testamento o dell’accettazione dell’eredità.
Si faccia però, ora, il seguente esempio. Viene a mancare Tizio, lasciando a sé superstiti la moglie Sempronia ed i figli Tizietto e Caietto.
Il patrimonio ereditario si compone esclusivamente della casa coniugale, di proprietà del solo Tizio
e dal valore ingente. Sempronia si reca dal Notaio Romolo Romani per la pubblicazione del testamento di Tizio, in forza del quale ella è nominata unica erede.
I figli – che potrebbero trovare tutela attraverso l’azione di riduzione, ma solo per la quota loro riservata dalla legge – ritengono, tuttavia, che il testamento sia viziato (si ipotizzi per incapacità naturale ovvero perché privo di data) e vorrebbero chiederne l’annullamento.
Sempronia, già titolare quale legataria ex lege (ai sensi dell’art. 540, secondo comma, cod. civ.) del diritto di abitazione sull’appartamento, non compirà alcun atto di esecuzione né, con tutta probabilità, formalizzerà l’accettazione dell’eredità.
Ora, se è vero che il termine di prescrizione, ai sensi dell’art. 2935 cod. civ., decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere (o, in caso di azioni giudiziali, da quello in cui la tutela può essere azionata), seguendo pedissequamente il ragionamento della Suprema Corte si dovrebbe giungere ad affermare che anche la legittimazione ad agire per l’annullamento spetterebbe solo dopo che sia stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie. In tal modo, nei casi come quello appena esemplificato, si avrebbe il paradosso di dover (nella pratica) negare tutela ai figli esclusi dal testamento, ai quali residuerebbe l’esperibilità dell’azione di riduzione (che, tuttavia, li reintegrerebbe in una quota di eredità minore rispetto a quella loro spettante per il caso di annullamento del testamento).
Non pare un risultato accettabile e, personalmente, dubito che un Tribunale riconoscerebbe la paventata carenza di legittimazione.
Certamente auspicabile sarebbe stato un dettato legislativo più puntuale in ordine al termine iniziale del quinquennio per l’esercizio dell’azione di annullamento in esame che, a giudizio dello scrivente, non si vede perché non dovrebbe rinvenirsi nella data di pubblicazione del testamento, ossia dal momento in cui il testamento diviene conoscibile dai terzi. E ciò ben si inquadrerebbe in quella che la stessa giurisprudenza rinviene come finalità del (breve) termine di prescrizione stabilito dal legislatore, ossia limitare nel minor tempo possibile l’incertezza in ordine alla validità del testamento.
[1] Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che integrasse gli estremi di una condotta esecutrice, sia pure parzialmente, delle disposizioni testamentarie, quella con la quale l’erede aveva continuato a percepire, dopo la morte della “de cuius”, il canone di locazione di un immobile commerciale facente parte del compendio ereditario.
[2] La sentenza epigrafata riprende Cass. Civ. n. 9466/2012, ove è, altresì, precisato che “Il termine di prescrizione di cinque anni, che l’art 606, secondo comma, cod. civ. stabilisce per impugnare il testamento olografo per difetti di forma diversi dalla mancanza di autografia o di sottoscrizione, decorre dal giorno in cui è stata data, anche da uno soltanto dei chiamati all’eredità, esecuzione alle disposizioni testamentarie, senza che sia necessario che siano eseguite tutte le disposizioni del testatore”.
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