I presupposti per l’impugnazione della rinuncia all’eredità ex art. 524 cod. civ.
Cassazione Civile, Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 5994 del 04/03/2020
SUCCESSIONI “MORTIS CAUSA” – DISPOSIZIONI GENERALI – RINUNZIA ALL’EREDITA’ – IMPUGNAZIONE DA PARTE DEI CREDITORI – Presupposti – Danno ai creditori – Nozione – Onere probatorio – Riparto.
Per l’impugnazione della rinuncia ereditaria ai sensi dell’art. 524 cod. civ. il presupposto oggettivo è costituito unicamente dal prevedibile danno ai creditori, che si verifica quando, al momento dell’esercizio dell’azione, i beni personali del rinunziante appaiono insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori; ove dimostrata da parte del creditore impugnante l’idoneità della rinuncia a recare pregiudizio alle sue ragioni, grava sul debitore provare che, nonostante la rinuncia, il suo residuo patrimonio è in grado di soddisfare il credito dell’attore.
Disposizioni applicate
Articoli 524, 2697 e 2901 cod. civ.
[1] Morti entrambi i genitori, i due figli di questi rinunciavano alle eredità loro delate.
Tizia, titolare dell’omonima ditta individuale, premettendo di essere creditrice verso costoro di una somma accertata in un giudizio passato in giudicato, conveniva in giudizio i predetti fratelli Caio e Sempronio al fine di essere autorizzata ad accettare ex art. 524 cod. civ. l’eredità dei genitori dei convenuti.
Il giudice di prime cure accoglieva la domanda, autorizzando l’attrice ad accettare le dette eredità sino alla concorrenza della somma accertata, rilevando che era pacifica la qualità di creditrice dell’attrice, sicché non poteva dubitarsi della natura pregiudizievole della rinuncia posta in essere dai germani, la quale aveva reso più incerto o difficile il soddisfacimento del credito dell’istante.
Caio e Sempronio proponevano appello avverso la sentenza di primo grado; appello che veniva rigettato. In particolare, gli appellanti lamentavano, tra l’altro, la violazione del principio dell’onere della prova, ed al riguardo i giudici di appello osservavano che il Tribunale aveva correttamente valutato la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda poiché aveva ritenuto che “a) l’autorizzazione alla accettazione dell’eredità deve essere concessa qualora la rinuncia renda semplicemente più incerto o difficile il soddisfacimento del credito; b) spetta al convenuto che eccepisca la mancanza dell’eventus damni provare l’insussistenza del predetto rischio in ragione di ampie residualità patrimoniali“. E Caio e Sempronio non avevano offerto alcuna prova circa l’esistenza di altre componenti mobiliari o immobiliari di loro personale spettanza suscettibili di essere aggredite da parte della creditrice.
[2] I fratelli proponevano ricorso in Cassazione, fondandolo su un solo motivo: essi denunciavano la violazione e falsa applicazione dell’art. 524 cod. civ. in relazione all’art. 2697 cod. civ., sostenendo che ai fini della prova dell’eventus damni era la creditrice a dover dimostrare anche la consistenza del patrimonio dei debitori, il che non era stato fatto, non avendo l’attrice allegato una relazione tecnica attestante tale circostanza, né potendosi a tal fine trarre argomenti dal solo fatto che alcuni pignoramenti non avevano avuto esito positivo, in quanto la causa di ciò era individuabile nella circostanza che i domicili dei debitori erano sempre stati rinvenuti chiusi. L’affermazione della Corte d’Appello, a giudizio dei ricorrenti, avrebbe quindi indebitamente invertito l’onere della prova avendo richiesto erroneamente che fossero gli stessi debitori a dover dimostrare la capienza dei propri beni rispetto alle ragioni dell’attrice, anche a seguito dell’intervenuta rinuncia all’eredità.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo il motivo infondato e che i giudici di merito abbiano correttamente applicato il principio dell’onere della prova, onerando per l’appunto i debitori di dimostrare, nonostante la rinuncia all’eredità, la capienza del loro patrimonio al fine di fare fronte alla pretesa creditoria dell’attrice. A sostegno della propria decisione, gli Ermellini richiamano la costante giurisprudenza di legittimità, a giudizio della quale per l’impugnazione della rinunzia ereditaria ai sensi dell’art. 524 cod. civ., è richiesto il solo presupposto oggettivo del prevedibile danno ai creditori, che si verifica quando, al momento dell’esercizio dell’azione, fondate ragioni facciano apparire i beni personali del rinunziante insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori.[1] Inoltre,[2] la norma richiede un unico presupposto di carattere oggettivo, ossia che la rinunzia all’eredità da parte del debitore importi un danno per i suoi creditori, in quanto il suo patrimonio personale non basti a soddisfarli e l’eredità dimostri un attivo, aggiungendosi che basta che al momento della proposizione dell’azione il danno sia sicuramente prevedibile, nel senso che ricorrano fondate ragioni per ritenere che i beni personali del debitore possano non risultare sufficienti per soddisfare del tutto i suoi creditori.
Nel caso in esame, le eredità rinunciate presentavano un attivo, e ciò ha portato la Corte ha ritenere riscontrato il presupposto oggettivo al quale la norma subordina l’azione di cui all’art. 524 cod. civ. Quanto poi in merito alla concreta operatività del riparto dell’onere della prova, nella sentenza epigrafata si afferma “che possa farsi richiamo ai principi espressi da questa stessa Corte in ordine all’azione revocatoria (con la quale quella in esame, pur distinguendosi sotto il profilo operativo e strutturale, mantiene evidenti affinità, trattandosi sempre di strumento di conservazione della garanzia patrimoniale, volto a reagire contro atti del debitore pregiudizievoli delle ragioni creditorie) secondo cui, una volta dimostrato il presupposto oggettivo dell’azione revocatoria ordinaria (cd. “eventus damni”), che ricorre non solo nel caso in cui l’atto dispositivo comprometta totalmente la consistenza patrimoniale del debitore, ma anche quando lo stesso atto determini una variazione quantitativa o anche soltanto qualitativa del patrimonio che comporti una maggiore incertezza o difficoltà nel soddisfacimento del credito (onere probatorio che incombe sul creditore) è invece onere del debitore, che voglia sottrarsi agli effetti di tale azione, provare che il suo patrimonio residuo sia tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore”.[3]
[3] La pronuncia in oggetto, in linea con gli assesti precedenti, diviene l’occasione per una breve disamina dell’azione disciplinata dall’art. 524 cod. civ. a tutela degli interessi dei creditori personali di un chiamato ad un’eredità che decida di rinunziare alla stessa.
È di tutta evidenza che il conseguimento di un complesso di beni a titolo ereditario (ovviamente qualora la massa sia attiva) comporta un incremento del patrimonio personale dell’erede e ciò è di giovamento anche ai creditori personali di quest’ultimo.
La rinuncia all’eredità, pertanto, può costituire un pregiudizio per i creditori stessi; ed a tutela di tali ipotesi che è stato introdotto nel nostro codice l’articolo 524 cod. civ., in forza del quale i creditori personali del chiamato possono farsi autorizzare ad accettare l’eredità in nome e in luogo del rinunziante, al fine di soddisfarsi sui beni ereditari.
Come anche evidenziato dalla Suprema Corte, l’azione presenta caratteristiche che la fanno avvicinare alla revocatoria ordinaria, sebbene si differenzi da questa sotto diversi profili. Innanzitutto, manca nel caso de qua un atto dispositivo: il debitore si limita a rinunciare ad una facoltà e non va ad incidere sul proprio patrimonio disperdendo poste che già ne facevano parte. Si prescinde, inoltre, da qualsiasi valutazione i ordine alla volontà di recare un danno ai propri creditori.
Nemmeno si può ritenere il rimedio in oggetto quale espressione della generale azione surrogatoria. Basti considerare che il rimedio di cui alla norma in esame è azionato per far valere un diritto proprio del creditore e non per sostituirsi al debitore nell’esercizio di un suo diritto.
Si tratta, dunque, di un’azione particolare con caratteristiche proprie e peculiari, tali da far sostenere a parte della dottrina la natura eccezionale della norma, non suscettibile di applicazione analogica.
Seguendo tale impostazione dovrebbe ritenersi che solo in caso di espressa rinuncia troverebbe applicazione il rimedio in esame.
Si immagini, tuttavia, il seguente (non raro) caso. Tizio, chiamato all’eredità del proprio padre, non rinunzia espressamente, bensì rimane inerte. Il suo creditore personale aziona, dunque, la c.d. actio interrogatoria ex art. 481 cod. civ., ottenendo dal giudice la fissazione di un termine entro il quale Tizio dovrà pronunciarsi in merito all’accettazione o rinuncia dell’eredità. Se tizio, entro il termine accetta, il creditore potrà aggredire i beni ereditari, entrati a far parte del patrimonio del proprio debitore. Se dovesse rinunciare, il creditore potrà azionare il rimedio di cui all’art. 524 cod. civ.. Ma cosa accade se Tizio, di nuovo, nulla dice e nulla fa? A norma dell’art. 481 cod. civ., se il chiamato non si pronuncia egli perde il diritto di accettare: non vi è alcuna rinunzia espressa. Per evitare che il debitore possa così sottrarsi all’azione dei creditori, deve potersi ritenere che la mancata espressione da parte del chiamato, nell’ipotesi predetta, equivalga ad una rinunzia espressa ai fini dell’esperibilità del rimedio in esame.[4]
[4] Come visto, presupposto dell’azione in oggetto è l’esistenza di un pregiudizio per i creditori personali del chiamato. Non è, tuttavia, necessario che tale pregiudizio sia tale da configurare un vero e proprio danno attuale ed esistente, essendo sufficiente che esso sia prevedibile, ossia sussistano ragioni tali da ritenere che la garanzia patrimoniale generica del patrimonio del chiamato non sia sufficiente a tutelare le ragioni dei creditori. Dovrà, inoltre, potersi rinvenire un attivo ereditario poiché solo in tal caso sussisterebbe un interesse dei creditori ad agire.
Si è già detto, invece, che non ha alcuna rilevanza l’elemento soggettivo.
[5] Effetto dell’azione in esame è quello, non di far conseguire la qualità di erede in capo al rinunciante[5], bensì di rendere aggredibili i beni che sarebbero a lui pervenuti se avesse accettato l’eredità, al fine di soddisfarsi fino a concorrenza dei crediti da loro vantati.
Coloro che dovessero subire l’aggressione da parte dei creditori – fermo restando, in ogni caso, il diritto di regresso verso il rinunziante – potranno sottrarsi all’azione esecutiva mediante il rilascio dei beni ereditari oppure offrendo loro l’equivalente di quanto si sarebbe potuto ricavare dalla vendita dei beni stessi.
[6] Giova, da ultimo, sottolinearsi, come l’art. 524 cod. civ. disponga che l’azione si prescrive in cinque anni, decorrenti dalla data della dichiarazione di rinuncia (che, invece, può essere espressa, qualora il chiamato all’eredità non si trovi nel possesso di beni ereditari, entro dieci anni dall’apertura della successione).
Pertanto, l’azione può essere esperita anche quando si sia prescritto il diritto stesso di accettare l’eredità in capo al rinunciante, con ciò evidenziandosi ulteriormente la differenziazione del rimedio in esame dall’azione surrogatoria, ove non è certamente azionabile un diritto prescritto.
[1] Cass. Civ., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 8519 del 29/04/2016
[2] Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 2394 del 10/08/1974
[3] Si vedano, altresì, Cass. Civ., Sez. 3, Ordinanza n. 19207 del 19/07/2018; Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 1902 del 03/02/2015; Cass.Civ., Sez. 1, Sentenza n. 11471 del 24/07/2003
[4] La questione si pone parallela a quella, che non può essere adeguatamente trattata nella presente sede, della possibilità di esercitare da parte dei creditori personali del chiamato all’eredità, in caso di inerzia di costui, l’azione surrogatoria da parte dei creditori al fine dell’accettazione (quesito a cui viene data risposta generalmente negativa).
[5] Né, tantomeno, in capo al creditore. L’azione in oggetto, infatti “non implica che il debitore rinunciante all’eredità o i suoi creditori impugnanti la rinuncia acquistino la qualità di erede, continuando il primo a non essere partecipe dell’eredità, che, appunto, ha rifiutato di accettare, ed essendo riconosciuta ai secondi esclusivamente la possibilità di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti” (Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 17866 del 24/11/2003)
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