Il risarcimento del danno da lucro cessante, conseguente al tardivo rilascio dell’immobile locato, e il mutamento della domanda in corso di causa
Locazione – risarcimento del danno – lucro cessante – mutamento della domanda in corso di causa – rimessione in termini – inadempimento contrattuale – rilascio tardivo.
“Nei giudizi soggetti al rito lavoro, costituisce implicita istanza di rimessione in termini il deposito, con le note conclusive, di documenti formati successivamente tanto alla domanda, quanto al maturare delle preclusioni istruttorie; a fronte di tale produzione , pertanto, il giudice non può dichiararla inammissibile, ma deve valutare se ricorrano i presupposti di cui all’art. 153 c.p.c., ed in caso affermativo esaminare nel merito la rilevanza probatoria dei documenti tardivamente depositati.”
“Nel giudizio di risarcimento del danno (tanto da inadempimento contrattuale, quanto da fatto illecito) non costituiscono domande nuove: (a) la riduzione del quantum rispetto alla originaria pretesa; (b) la deduzione dell’aggravamento del medesimo danno già dedotto con la domanda originaria. La richiesta di risarcimento dei danni sopravvenuti al maturare delle preclusioni istruttorie, anche se di qualità e di quantità differenti da quelli richiesti con la domanda originaria, costituisce invece una domanda nuova, ma ammissibile se ricorrano i presupposti della rimessione in termini, di cui all’art. 153 c.p.c..”
PREMESSE GENERALI
L’inquadramento del caso, consente trarre approfonditi spunti per l’esame del merito delle questioni di diritto sostanziale e processuale coinvolte in questa interessante sentenza.
La vicenda riguarda il ritardato rilascio di un immobile da parte del conduttore, a distanza di molto tempo (tre anni) dalla data di scadenza del contratto, fissata e giudizialmente accertata.
Conseguentemente al ritardo, la locatrice domandava che le venisse risarcito il danno asseritamente subito e conseguente alla perdita della possibilità di pattuire nuova locazione con terzi, a condizioni maggiormente vantaggiose, ai sensi dell’articolo 1591 c.c. e 1223 c.c..
La fattispecie assume specificità legate al rito conseguentemente applicabile ratione materiae, ed alle preclusioni, anche istruttorie, che le cause di lavoro/locatizio suppongono.
La richiesta di risarcimento dei danni invocata dalla ricorrente-locatrice, veniva rigettata in entrambi i gradi di giudizio di merito, in quanto, le corti:
- non ritenevano provata la presenza di serie offerte di locazione dell’immobile in oggetto, per carenze di allegazioni, “ma nemmeno indizi da cui desumere ex art. 2727 c.c l’esistenza e l’entità del danno”;
- il contratto preliminare di locazione stipulato successivamente all’introduzione del giudizio di primo grado, allegato e depositato con la memoria conclusiva nel giudizio di primo grado, veniva ritenuto inutilizzabile ed inammissibile, in quanto tardivamente prodotto, la pretesa era considerata nuova rispetto alla domanda principale, il danno doveva sussistere al momento dell’introduzione del giudizio”, attesa la peculiarità del rito e le preclusioni istruttorie maturate.
La ricorrente impugnava la sentenza d’appello avanti la Suprema Corte e proponeva unico motivo di gravame, articolato in più censure:
- la Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere inammissibili ed inutilizzabili i documenti prodotti in primo grado e depositati unitamente alla memoria conclusiva, tenuto conto che trattandosi di documenti di epoca successiva all’introduzione del giudizio, non si sarebbero potuti produrre precedentemente;
- la domanda di risarcimento danni, di cui si allegava ad indizio il contratto preliminare stipulato successivamente alla domanda introdotta in primo grado, veniva ritenuta nuova e pertanto inammissibile; in realtà la ricorrente aveva introdotto una mera precisazione della domanda (riduzione) e non modificazione della stessa;
- l’allegazione del contratto preliminare veniva ritenuta non sufficiente a dimostrare l’esistenza stessa di un danno risarcibile, in quanto stipulato solamente pochi mesi prima del rilascio dell’immobile in oggetto.
SULLA RISARCIBILITA’ DEL DANNO EX ARTICOLO 1591 C.C. E 1223 CC. E SULLA NOVITA’ DELLA DOMANDA
La Suprema Corte, nel cassare con rinvio la sentenza del giudice dell’impugnazione, si esprime in senso opposto alle sentenze di merito ed accoglie il gravame.
L’articolo 1591 c.c. prevede: “i danni per ritardata restituzione dell’immobile”, riconoscendo il diritto del locatore a ricevere dal conduttore in mora, oltre al corrispettivo, anche il risarcimento del maggior danno (art. 1223 c.c).
Chi scrive si è già occupato esplicitamente dell’argomento sulla risarcibilità del danno e la costituzione in mora[1], definendo che gli elementi dell’articolo 1591 c.c. possono essere così individuati:
a) la mora del conduttore nella restituzione del bene;
b) l’obbligazione di pagamento del canone di locazione fino alla riconsegna ;
c) l’obbligazione di risarcire il danno ulteriore rispetto a quello costituito dal canone.
Il diritto al risarcimento del danno presuppone il ritardato rilascio del conduttore, oltre i limiti di legge consentiti e quindi oltre il termine di scadenza del contratto, accertato dal giudice per effetto di ordinanza di convalida di licenza o sfratto per finita locazione e/o comunque collegato alle vicende anche “patologiche” del rapporto contrattuale (risoluzione).
Richiamando la dottrina prevalente in materia, trattasi indubbiamente di ipotesi di responsabilità di natura contrattuale, dovendosi fare riferimento agli articoli 1223 e 1224 codice civile, in quanto siamo di fronte a pregiudizi di natura patrimoniale.[2]
Al locatore sarà sufficiente provare: l’esistenza del contratto, il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione restitutoria e del maggior danno, dovendosi la colpa del conduttore ritenere presunta, sino a prova contraria.
La giurisprudenza ha precisato che occorrerà la specifica prova di una effettiva lesione del patrimonio del locatore, il quale avrà l’onere di provare, nel rispetto delle regole sulla prova ex articolo 2697 c.c.: di non aver potuto locare l’immobile o alienarlo a condizioni vantaggiose e di dimostrare siffatta lesione attraverso la prova dell’esistenza di ben precise proposte di locazione o di acquisto ovvero di altri concreti propositi di utilizzazione.[3]
SULLA DISTINZIONE TRA MUTATIO ED EMENDATIO LIBELLI
Il Giudice di secondo grado, nel valutare se le deduzioni fatte con memoria conclusionale ed i documenti allegati costituissero domanda nuova ha tenuto conto esclusivamente della data di introduzione del giudizio, ritenendo che eventuali nuovi pregiudizi subiti dal locatore non rilevano, in quanto tardivi, rispetto alla litispendenza. Nel ricorso per Cassazione viene sottolineato come la documentazione prodotta recasse data successiva all’introduzione della domanda, pertanto non poteva essere allegata tempestivamente.
In particolare, tenuto conto che uno dei motivi di rigetto della domanda proposta dal ricorrente nei gradi di merito, era collegata alla produzione di tardive allegazioni, la Suprema Corte sostiene che il giudice di prime cure non avrebbe dovuto dichiarare tout court inammissibile la domanda di risarcimento dei danni sopravvenuti, allegata alla memoria conclusiva in primo grado, bensì procedere ad un’accurata valutazione quantitativa e qualitativa al fine di capire se il caso in esame rientrava nelle ipotesi di cui all’articolo 153 cpc (rimessione in termini).
Approfondendo il merito di quanto proposto e sviluppato nelle censure del ricorrente, la Suprema Corte afferma che le valutazioni operate dalla Corte d’appello sulle deduzioni e sul documento allegato alla memoria conclusiva (il contratto preliminare di vendita con data successiva all’introduzione della causa e di pochi mesi anteriore il rilascio dell’immobile) erano errate, poiché con la memoria conclusiva non si è allargato il thema decidendum, in quanto era e continuava ad essere unicamente, l’accertamento del lucro cessante, conseguenza dell’inadempimento di parte conduttrice.
Di tal chè, gli argomenti introdotti dalla parte locatrice, con memoria conclusiva, avevano come unico scopo il rafforzamento della prova, determinando una mera modifica quantitativa/qualitativa della domanda, e non un allargamento dell’oggetto della causa.
Gli ermellini, nell’accogliere la censura della ricorrente, evidenziano come la domanda di risarcimento del danno non deve essere valutata unicamente con riferimento alla data di introduzione del giudizio, tanto più che nella fattispecie in esame, ciò che era sopravvenuto non risultava la domanda di liquidazione da lucro cessante, bensì la prova di detto danno, in quanto collegata ad allegazione prodotta non ab initio; più chiaramente: “il danno lamentato dall’Immobiliare…era rimasto il medesimo ab initio, e cioè la perdita economica per non avere potuto locare l’immobile a condizioni più vantaggiose, per tutto il tempo in cui rimase nella detenzione del conduttore”
Il principio secondo il quale il mutamento del danno o del fatto costitutivo vuol dire ampliamento inammissibile del “cognoscere” richiesto al giudice non è assunto inderogabile[4], tale principio viene meno quando:
a) l’attore chiede la riduzione del risarcimento conseguente al danno subito;
b) il risarcimento richiesto è incrementato, sempre che derivi dal medesimo fatto;
c) si verifichino danni ulteriori anche aventi natura diversa, chiaramente derivanti dallo stesso fatto generatore.
Pertanto, la riduzione della domanda, la domanda di danni incrementali e i fatti sopravvenuti risultano essere le tre ipotesi in cui è permesso all’attore domandare il risarcimento di danni diversi per quantità o qualità rispetto a quelli originariamente prospettati con la domanda introduttiva.
Pare opportuno chiarire che nel caso in esame, i fatti costitutivi della domanda di danno da lucro cessante sono rimasti immutati, anche rispetto alla nuova prospettazione offerta dal ricorrente – passato dapprima dal non avere potuto accettare l’offerta di un terzo a prendere in locazione l’immobile a causa del ritardato rilascio del conduttore e dappoi all’avere trovato un potenziale conduttore interessato alla conduzione e con una specifica offerta ridotta rispetto a quella iniziale – esistenza inadempimento colpevole; perduta possibilità di locare a terzi, in conseguenza dell’inadempimento.
Facendo propri gli stessi orientamenti maggioritari della dottrina processual civilistica[5], la Cassazione afferma: ”offrire nuove prove del medesimo fatto costitutivo non costituisce inammissibile mutamento della domanda”[6].
SULLA RIMESSIONE IN TERMINI
La previsione di termini perentori per la produzione dei documenti nel processo e la sua improrogabilità trova riferimento nell’articolo 153 cpc.
Il secondo comma, [7] consente alla parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabili di essere rimessa in termini il giudice poi provvede ai sensi dell’art. 294, comma secondo e terzo.
Riportando la regola al caso in esame, ove si considerasse che la decisione della Corte d’Appello sul tema fosse considerata corretta, l’art. 153 Cpc risulterebbe svuotato della sua essenza; in quanto risulterebbe che: “la richiesta di rimessione in termini per fornire la prova (nuova) di un fatto già dedotto in giudizio non potrebbe mai essere accolta, perché tale prova costituirebbe sempre una inammissibile mutatio libelli.
Cosicchè, giustamente il principio secondo il quale, la domanda introduttiva non può essere modificata, subisce delle deroghe e se, come nel caso in esame, subentrino danni ulteriori, la prova di questi interverrà chiaramente oltre i termini per produrla e dunque sarà tardiva, salvo il caso in cui l’allegazione postuma è addebitabile alla negligenza della parte interessata, così come avviene se il documento è antecedente la chiusura dell’istruttoria ed a maggior ragione se questa ne è in possesso.
Anche se all’apparenza, immaginare che nel processo dispositivo, lasciato quindi al contraddittorio indicato dalle parti, possa apparire distonico, fare riferimento a “implicita” richiesta di rimessione in termini, e quindi all’introduzione di nuove prove nel rito del lavoro, ove ciò sarebbe precluso, si ritiene che quel limite possa essere superato, nel pieno rispetto ed in applicazione delle regole del processo, ogniqualvolta la circostanza che un documento o altra fonte di prova sia venuta ad esistenza dopo il maturare delle preclusioni istruttorie, cosicchè si legittima la rimessione in termini della parte che non abbia potuto produrlo precedentemente e, il solo fatto di allegare quel documento agli atti costituisce di per sé implicita richiesta di rimessione in termini”[8]. Proprio in ragione di tale argomento la Cassazione ha previsto l’ammissibilità che il documento nuovo – ma che presenti le caratteristiche – dianzi citate, possa essere introdotto e il fatto costituisca implicita richiesta di rimessione in termini, anche se la parte non lo deduca espressamente.
[1] Luppino S.: “ Locazioni immobiliari: redazione e impugnazione del contratto, II^ edizione , Maggioli 2019.
[2] A. Scarpa, “Le locazioni nella pratica del contratto e del processo”, a cura di Carrato e Scarpa, Milano, 2005, 134.
[3] Ex plurimis: Cass. civ. n. 5051/2009; Cass. civ. n. 7499/2007; Trib. Roma 16 luglio 2009; App. Roma 9 maggio 2007.
[4] Corte di Cassazione, sent. n. 10045/1996; Corte di Cassazione, sent. n. 3621/1980
[5] Chiovenda, Redenti, Mandrioli.
[6] Ex multis, Cass. Civ. 18.2.2000 n.1814
[7] L. 69/09 abrogazione articolo 184 bis cpc
[8] Ex multis, Cass. Civ. 14.3.2006 n.5465; Cass. Civ. 22.5.2006 n.11922.
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