Invalida per derivazione la clausola contrattuale che risulta legata funzionalmente ad altra nulla
Cass. civ., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16907 – Pres. Travaglino – Rel. Cricenti
Parole chiave: Contratto di leasing – Clausola di adeguamento del canone – Rinvio a elementi esterni al contratto – Incertezza nell’individuazione del criterio di calcolo – Indeterminatezza dell’oggetto della clausola – Sussistenza – Nullità della clausola
[1] Massima: La clausola del contratto di leasing avente per oggetto l’adeguamento del canone mediante rinvio a dati o criteri di calcolo esterni al contratto che non siano facilmente individuabili o che non conducano a un risultato univoco è nulla per indeterminatezza ovvero indeterminabilità dell’oggetto.
Disposizioni applicate: cod. civ., art. 1346.
Parole chiave: Contratto – Clausola nulla per indeterminatezza dell’oggetto – Richiamo della clausola nulla da parte di altra clausola – Nullità derivata – Sussistenza
[2] Massima: Quando il contenuto di una clausola contrattuale è determinato da quello di un’altra, in modo tale che la prima opera in funzione di quanto previsto dalla seconda, la nullità per indeterminatezza dell’oggetto di quest’ultima si comunica anche all’altra, che deve, quindi, essere dichiarata invalida.
Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1346, 1418, 1419.
CASO
L’istituto di credito con cui una società aveva stipulato un contratto di leasing per finanziare l’acquisto di un immobile da edificare prevedente un piano di ammortamento composto da 96 rate mensili, veniva citato in giudizio perché fosse accertato che le due clausole di indicizzazione del canone (una prima legata al tasso di interesse cosiddetto Libor; una seconda legata al tasso di cambio tra euro e franco svizzero) costituissero, in realtà, strumenti derivati di investimento, incidenti sulla causa concreta del contratto, che il loro contenuto non era né determinato né determinabile e che il tasso di interesse risultante dalla loro applicazione era usurario.
La sentenza di primo grado – la quale, pur accogliendo la doglianza relativa alla natura di derivati delle due clausole, non ne aveva ravvisato l’invalidità – veniva ribaltata in appello, dal momento che il giudice di secondo grado riteneva nulle entrambe le clausole per indeterminatezza dell’oggetto.
La banca proponeva, quindi, ricorso per cassazione, svolgendo due motivi di censura: con il primo, veniva lamentata l’erroneità dell’affermazione secondo cui l’oggetto della prima clausola di indicizzazione del canone (che faceva riferimento al Libor) era indeterminato, mentre, con il secondo, veniva contestato il ragionamento che aveva indotto la corte di appello a ritenere nulla per invalidità derivata anche la seconda clausola di indicizzazione (legata al tasso di cambio tra euro e franco svizzero e applicabile una volta effettuato l’adeguamento del canone in base al Libor).
SOLUZIONE
[1] La Corte di cassazione ha respinto il ricorso, affermando che l’impossibilità di individuare in modo certo e univoco il tasso di interesse al quale faceva riferimento la prima clausola di indicizzazione del canone rendeva l’oggetto di quest’ultima indeterminato ovvero indeterminabile, sicché correttamente ne era stata dichiarata la nullità.
[2] I giudici di legittimità hanno pure ritenuto condivisibile l’affermazione per cui, una volta accertato che la seconda clausola di indicizzazione del canone era strettamente e funzionalmente collegata alla prima, la nullità di questa si comunicava anche all’altra.
QUESTIONI
[1] La sentenza che si annota ha risolto le questioni sottoposte al suo esame facendo esclusivo riferimento alla validità o meno delle clausole contrattuali denunciate sotto il profilo della determinatezza o determinabilità del loro oggetto; è rimasta sullo sfondo, invece, la problematica relativa alla loro natura effettiva di strumenti derivati di investimento (che pure era stata sollevata dalla società attrice in primo grado).
In effetti, l’ampia e apprezzabile ricostruzione del contenuto e del significato delle clausole del contratto di leasing operata dai giudici di legittimità avrebbe reso ancora più interessante un pronunciamento esplicito sul punto, anche se il passaggio motivazione secondo cui “Le parti si danno atto però che tale clausola ha natura aleatoria, in quanto il guadagno dell’una o dell’altra dipende da elementi di incertezza che stanno alla base dei rapporti di cambio tra le due monete e che quei rapporti fanno variare imprevedibilmente. Si può intuire una conclusione, intanto: che pur essendo queste clausole formalmente qualificate come di adeguamento del canone, di fatto non lo sono, o lo sono solo in modo affatto particolare”, lascia in qualche maniera trasparire quale sarebbe stata la decisione.
Come detto, la prima clausola di indicizzazione era legata al Libor, nominato in franchi svizzeri e assunto a tre mesi, mentre la seconda era legata al tasso di cambio tra euro e franco svizzero.
Come puntualizzato nella sentenza, il Libor (acronimo di London Interbank Offered Rate) è un tasso di interesse indicativo medio al quale alcune banche selezionate si concedono reciprocamente prestiti nel mercato londinese e che non si riferisce a transazioni effettive: intorno alle ore 11 di ogni giorno lavorativo, infatti, le banche interessate dichiarano a quale tasso prevedono di potere ottenere in un determinato periodo un prestito nel mercato monetario interbancario. Il Libor costituisce il tasso medio risultante sulla base di tali dichiarazioni e può essere nominato in cinque diverse valute correnti, nonché rilevato a periodicità diverse (per esempio, ogni giorno, settimanalmente, mensilmente e via dicendo).
La particolarità di questa prima clausola del contratto di leasing oggetto di contenzioso risiedeva nel fatto che le variazioni (in aumento o in diminuzione) del Libor non andavano a incrementare o a diminuire l’entità nominale del canone, ma venivano conteggiate a parte, mediante accredito o addebito sul conto dell’utilizzatore della somma corrispondente alla variazione.
In virtù di quanto previsto dalla seconda clausola di adeguamento del canone, invece, una volta effettuata l’indicizzazione con riferimento al Libor, veniva calcolato un ulteriore aggiornamento in aumento o in diminuzione, a seconda che il rapporto di cambio tra euro e franco svizzero fosse aumentato o diminuito rispetto a quello dichiarato e accettato in contratto; anche in questo caso, peraltro, tali variazioni non influivano sull’entità nominale del canone, ma venivano regolate in conto, analogamente a quanto visto in precedenza.
Fatta questa premessa, la Corte di cassazione ha condiviso l’assunto del giudice di appello (fondato sulle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio espletata in corso di causa) secondo cui, stante il contenuto della clausola contrattuale che richiamava il Libor, risultava obiettivamente difficile determinare il criterio di calcolo del tasso di riferimento per l’adeguamento del canone, essendo praticabili diverse formule per arrivare al risultato del calcolo, ciascuna delle quali portava a risultati differenti (indipendentemente dal fatto che gli scostamenti fossero consistenti oppure minimi, posto che ciò che interessa, ai fini della variabilità del criterio di calcolo e quindi della sua indeterminatezza, è che una differenza, sia pure contenuta, vi sia); tant’è vero che la stessa banca, dopo l’emissione di una serie di fatture, aveva ravvisato un errore nei calcoli effettuati (segno della non univocità del criterio di calcolo) ed emesso conseguenti note di credito a favore dell’utilizzatore.
Sulla scorta di ciò, i giudici di legittimità hanno dato continuità all’orientamento secondo cui, onde ritenere sussistente il requisito della determinabilità dell’oggetto del contratto ai sensi dell’art. 1346 c.c., il tasso di interesse applicabile deve essere desumibile dal testo negoziale, senza alcun margine di incertezza o di discrezionalità, anche quando venga individuato per relationem, ossia rinviando a dati esterni conoscibili a priori, dettati per eseguire un calcolo matematico il cui criterio di esecuzione risulti con esattezza dallo stesso contratto; ciò che conta, dunque, non è la facilità o la difficoltà del calcolo, ovvero la perizia necessaria per la sua esecuzione, ma la facile e certa individuabilità (in base a quanto previsto dalla clausola contrattuale) dei dati e dei criteri necessari per effettuarlo (vengono richiamate, tra le altre, Cass. civ., sez. VI, 30 marzo 2018, n. 8028; Cass. civ., sez. III, 27 novembre 2014, n. 25205; Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2317; Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2005, n. 22898).
[2] Nell’affrontare il secondo motivo di censura, inerente all’invalidità della clausola di indicizzazione che faceva riferimento al rapporto di cambio tra euro e franco svizzero, la Corte di cassazione conferma la sussistenza di uno stretto collegamento tra essa e quella che, sempre in tema di adeguamento del canone, rimandava al Libor, dal momento che quest’ultimo adeguamento fungeva da presupposto e da condizione di operatività dell’altro.
Respingendo la tesi – propugnata dalla banca ricorrente – secondo cui il problema della determinabilità del contenuto di una clausola va risolto con esclusivo riferimento alla clausola stessa ovvero al suo interno, i giudici di legittimità rilevano che la prima clausola di indicizzazione determinava il contenuto della seconda, che presupponeva un calcolo previamente fatto sulla base del tasso Libor (la cui individuazione, come accertato, non era univoca), sicché tra le due clausole vi era un evidente rapporto di derivazione funzionale (non solo cronologico, ma logico).
L’affermazione si pone in perfetta coerenza con quanto evidenziato relativamente al primo motivo di ricorso: se una clausola contrattuale rinvia a un’altra clausola, ovvero la richiama o, comunque, implica o presuppone l’applicazione di quanto in essa previsto, l’invalidità della clausola richiamata non può che comunicarsi anche a quella richiamante, analogamente a quanto avviene allorquando una clausola negoziale rimandi a elementi esterni al contratto (essendo indifferente, a tali fini, che l’elemento di incertezza sia interno o esterno al contratto).
Sotto questo profilo, una conclusione diversa da quella fatta propria dalla sentenza che si annota non sarebbe predicabile invocando la regola dettata dall’art. 1419 c.c., secondo cui l’invalidità di singole clausole non importa la nullità dell’intero contratto se, anche in loro assenza, le parti lo avrebbero nondimeno concluso o se dette clausole sono sostituite di diritto da norme imperative, sia pure tenendo conto del fatto che il principio di conservazione del negozio giuridico affetto da nullità parziale è la regola, mentre l’estensione all’intero contratto della nullità che affligge una sua parte costituisce l’eccezione (Cass. civ., sez. I, 13 giugno 2008, n. 16017; Cass. civ., sez. II, 26 maggio 2008, n. 13561; Cass. civ., sez. III, 16 dicembre 2005, n. 27732; Cass. civ., sez. III, 27 gennaio 2003, n. 1189): nel caso esaminato dalla sentenza che si annota, infatti, non si trattava solo di espungere dal regolamento negoziale la clausola o le clausole affette da invalidità, ma del venire meno, per effetto della nullità per indeterminatezza della prima clausola di indicizzazione del canone, del substrato sostanziale che dava corpo e contenuto alla seconda (che veniva così privata di una parte senza la quale, secondo le previsioni delle parti, non poteva operare, visto il legame funzionale che univa le due clausole).
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