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Abstract

Il giudizio d’appello può aver per oggetto la qualificazione giuridica operata dal primo giudice, sulle domande e sulle eccezioni proposte in causa, che non sia condivisa dall’appellante il quale pretende di ritrarre un effetto favorevole alle proprie tesi dalla diversa configurazione giuridica.

Una delle questioni più dibattute in giurisprudenza è se il giudice d’appello possa procedere ad una diversa qualificazione giuridica della fattispecie in difetto di proposizione di rituale motivo di appello, alla stregua del principio iura novit curia, o se, invece, tale operazione sia preclusa per la formazione di un vero e proprio giudicato interno sul punto.

Il presente contributo analizzerà le argomentazioni a fondamento dei contrapposti orientamenti alla luce della più recente giurisprudenza.

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L’appello è il più ampio mezzo di impugnazione ordinaria e costituisce l’unico gravame in senso stretto idoneo ad investire la decisione, oggetto di impugnazione, attraverso un nuovo esame della causa, sia pure, nei limiti proposti dall’appellante.

Rappresenta, quindi, una fase del processo nella quale il giudizio può essere rinnovato, non con il semplice e globale riesame della sentenza di primo grado, ma con un nuovo esame della causa nei limiti delle specifiche censure contenute nella domanda d’appello o meglio, a seguito delle modifiche apportate all’art 342 c.p.c. – dall’art 54 del d.l. 22 giugno 2012 n. 83 – nei limiti dei motivi che sono in essa esplicitati.

L’impugnazione in appello può aver per oggetto la qualificazione giuridica delle domande (o delle eccezioni) proposte in causa operata dal primo giudice e non condivisa dall’appellante, il quale pretende di ritrarre un effetto favorevole alle proprie tesi dalla diversa configurazione giuridica di domande ed eccezioni.

Una delle questioni più controverse è se, in difetto di proposizione di rituale motivo, il giudice di appello possa procedere ad una diversa qualificazione giuridica della fattispecie alla stregua del principio iura novit curia, o se, invece, tale operazione sia preclusa per la formazione di un vero e proprio giudicato interno sul punto.

La giurisprudenza della Suprema Corte oscilla fra due posizioni, affermando, ora l’uno ora l’altro principio.

Secondo un primo orientamento (Cass., 13 dicembre 2017 n. 29978, Cass. 3 luglio 2014, n. 15223; Cass. 1° dicembre 2010, n. 24339; Cass. 30 luglio 2008, n. 20730; Cass. 11 luglio 2007, n. 15496), si formerebbe, in difetto di specifico motivo di appello, un giudicato interno sulla qualificazione giuridica con la conseguente impossibilità per il giudice di riconfigurare giuridicamente la fattispecie in maniera diversa.

Infatti, in mancanza di una specifica impugnazione, la decisione inerente la qualificazione giuridica della domanda è suscettibile di acquiescenza parziale e soggetta, quindi, alla formazione del giudicato implicito ex art. 329, comma 2, c.p.c.

Secondo questo orientamento, avallato anche in dottrina (MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile, Nozioni introduttive e disposizioni generali, vol I, Torino, 2015, p. 112 nota 43; LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1992, pag. 298; MENCHINI, II giudicato civile, Torino, 1988, pag 255 ss; A.A. ROMANO, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui presupposti processuali, in Giur. It. 2001, pag 1292; POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002, spec. 153 ss; RASCIO, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, pag 110 ss) il giudice d’appello, di conseguenza, non può mutare la qualificazione giuridica compiuta dal primo giudice se non in presenza di una specifica impugnazione o contestazione delle parti.

Tale impostazione fa leva, altresì, sulla previsione secondo cui il potere di qualificazione del rapporto giuridico nei gradi successivi al primo va coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni. Solo il giudice di primo grado ha potere-dovere incondizionato di interpretazione e qualificazione della domanda mentre al giudice d’appello non è permesso mutare ex officio la qualificazione operata dal primo giudice a meno che questa non abbia formato oggetto di impugnazione esplicita, o quanto meno, implicita, nel senso che una diversa qualificazione giuridica costituisca la necessaria premessa logico-giuridica di un motivo di impugnazione espressamente formulato.

Un secondo orientamento giurisprudenziale (Cass., 6 giugno 2016, n. 11805; Cass. 5 aprile 2011, n. 7789; Cass. 25 marzo 2010, n. 7190; Cass. 11 settembre 2007, n. 19090), invece, afferma che, pur in difetto di motivo di appello, il giudice ha il potere di procedere ad una diversa configurazione giuridica della fattispecie.

Secondo questa impostazione trova applicazione, anche in appello, il principio iura novit curia di cui all’art 113 c.p.c., principio che attribuisce al giudice d’appello il potere-dovere di procedere alla corretta qualificazione giuridica fermi i fatti sottoposti al suo esame.

Il giudice d’appello, infatti, può conferire al rapporto in contestazione una qualificazione giuridica diversa da quella data dal giudice di primo grado o prospettata dalle parti, avendo egli il generale potere-dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti e i fatti che formano oggetto della controversia, anche in mancanza di una specifica impugnazione e indipendentemente dalle argomentazioni delle parti, purché nell’ambito delle questioni riproposte con il gravame e con il limite di lasciare inalterati il petitum e la causa petendi e di non introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto.

Infatti, alla stregua del principio iura novit curia, il giudice d’appello sarebbe libero di qualificare i fatti allegati a fondamento della domanda attribuendo al rapporto controverso una qualificazione giuridica difforme da quella data dal giudice di prime cure o prospettata dalle parti, anche in assenza di una specifica impugnazione, con l’unico limite di non attribuire un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato.

Secondo questo orientamento, infine, la natura strumentale della qualificazione giuridica dei fatti costitutivi rispetto alla decisione della domanda comporta che l’impugnazione della “parte di sentenza” che statuisce su quest’ultima devolve al giudice dell’impugnazione anche il generale potere di riqualificare la domanda stessa.

Si esclude, infatti, la formazione di giudicato interno sulla qualificazione in iure se il giudizio di impugnazione ha ad oggetto le conseguenze giuridiche dei fatti stessi e, di conseguenza, se viene impugnata la parte di sentenza che decide sulla domanda permane in capo al giudice d’appello il potere-dovere di applicare alla fattispecie le norme che ritiene più opportune ex art. 113 c.p.c (Cass., 6 giugno 2016, n. 11805; Cass., 8 maggio 2015, n. 9294; Cass., 20 ottobre 2010, n. 21561; in dottrina v. LIEBMAN, «Parte» o «capo» di sentenza, in Riv. dir. proc., 1964, 56 ss).

La questione dei limiti al potere di riqualificazione delle domande in sede di gravame è una tra le più controverse in giurisprudenza.

Partendo dalla logica e nota premessa che compito del giudice d’appello è quello di interpretare e qualificare la domanda introdotta nel processo la questione spinosa è se, in assenza di impugnazione specifica, egli abbia il potere di dare una diversa qualificazione giuridica pur mantenendo lo stesso petitum e la stessa causa petendi in assenza di uno specifico motivo di impugnazione.

Atteso il contrasto tra le due linee interpretative, la questione è ancora aperta e vivacemente dibattuta pertanto sabebbe auspicabile un intervento risolutorio e chiarificatore delle Sezioni Unite.

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