Licenziamento per ritorsione
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 3 dicembre 2019, n. 31527
Licenziamento – Natura ritorsiva – Nullità – Condizioni
MASSIMA
Il licenziamento per ritorsione costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni: ne consegue che è legittima la sentenza che dispone la reintegra del dipendente laddove la Corte di appello ha fatto ricorso alla prova per presunzioni onde risalire, dalla sequenza dei fatti accertati, all’accertamento del fatto ignoto, costituito dal motivo ritorsivo come l’unico determinante del recesso, vale a dire la mancata sottoscrizione di un accordo che prevede la riduzione del complessivo trattamento economico.
COMMENTO
Nel caso de quo, una lavoratrice impugnava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogatole nell’ambito di una riorganizzazione aziendale finalizzata a rendere più efficiente ed economica la gestione dell’ufficio del personale al quale la stessa era addetta. Secondo la ricorrente la vera ragione del recesso era però da rinvenirsi nel suo rifiuto di sottoscrivere, il giorno precedente al licenziamento, un verbale di conciliazione con cui l’azienda proponeva ai dipendenti una riduzione del compenso per due anni. Secondo la Corte d’Appello – in riforma della sentenza di primo grado – il ricorso era da accogliere in quanto era stata accertata integralmente la natura ritorsiva del provvedimento espulsivo; nella missiva di licenziamento la società aveva fatto riferimento ad una più efficiente ed economica gestione dell’ufficio del personale al quale la ricorrente era addetta e alla decisione di sopprimere – al fine di contenere i costi aziendali a causa del notevole calo del fatturato – la posizione organizzativa dalla stessa occupata, con una redistribuzione delle relative mansioni tra altri dipendenti. Ciò premesso, la Corte osservava che ciò che pareva mancare nel provvedimento espulsivo era, in particolare, la dimostrazione della sussistenza del nesso causale tra la motivazione della modifica organizzativa disposta dal datore (contrazione del fatturato in un ambito di crisi) e la soppressione della posizione lavorativa, essendo inoltre emerso dalla prova testimoniale che alcune delle mansioni erano state assegnate non ad altri lavoratori già in forza nell’azienda, ma ad un consulente esterno. Considerata l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento, la Corte d’appello osservava come vi fosse viceversa la prova dell’intento ritorsivo proprio perché il licenziamento era intervenuto a distanza di un solo giorno dalla mancata sottoscrizione, da parte della lavoratrice, del verbale di conciliazione. Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso; in particolare, con il secondo motivo, l’azienda denuncia la violazione dell’art. 1418 cod. civ. e dell’art. 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., proprio per avere la Corte di appello desunto la natura ritorsiva del licenziamento dal solo rifiuto della lavoratrice di sottoscrivere il verbale di. Secondo il Supremo Collegio – che preliminarmente evidenzia come la censura svolta nel secondo motivo di ricorso non presenta i connotati di una valida censura di diritto riguardante la correttezza del ragionamento presuntivo, ove si consideri che con il ricorso per cassazione ci si duole che la Corte di appello abbia assunto come elemento decisivo la contiguità temporale del licenziamento al rifiuto opposto dalla lavoratrice di sottoscrivere l’accordo sulla riduzione temporanea del trattamento economico, “senza però inserire questo indizio nel generale contesto della complessiva situazione aziendale e della posizione della lavoratrice stessa e senza considerare il complessivo risultato della ricca attività istruttoria e probatoria espletata dal tribunale” – è onere del lavoratore provare che il motivo ritorsivo sia stato l’unico fattore determinante che ha indotto la società ad irrogare il provvedimento. Tale prova può essere fornita anche mediante presunzioni che presentino il carattere della gravità, precisione e concordanza. Nel caso di specie, secondo i giudici di legittimità, detta prova risulta ampiamente fornita proprio a fronte della collocazione temporale dei fatti (consegna della lettera di licenziamento il giorno successivo al rifiuto della dipendete di firmare il verbale teso alla riduzione del compenso) e della mancata dimostrazione da parte dell’azienda di un nesso fra la ristrutturazione imposta dalla crisi e l’eliminazione della posizione lavorativa. Per tutto quanto sopra la Corte Suprema ha rigettato il ricorso.
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