L’opposizione agli atti esecutivi: forma dell’atto introduttivo e rito applicabile
L’atto introduttivo del giudizio di merito nell’opposizione agli atti esecutivi proposta ai sensi dell’art. 617, comma 2, c.p.c. viene attratto, quanto alla forma da seguire, dal rito cui va usualmente soggetto il giudizio di merito.
La riforma attuata con l. n. 52 del 2006, innovando rispetto al passato, ha rimodulato il giudizio di opposizione agli atti esecutivi introdotto dopo l’inizio a struttura bifasica. Si prevede una prima fase avanti al G.E. c.d. sommaria (autonoma, cautelare e necessaria, come stabilito dalla Corte di cassazione con sentenza del 12/11/2018, n. 28848; in dottrina v. A. Auletta, Sulle conseguenze dell’omissione della fase sommaria e sulla possibilità di una sanatoria di tale vizio, in www.inexecutivis.it), che si svolge con il rito camerale richiamato dall’art. 185 disp. att. c.p.c. (anche questo sostituito dalla L. n. 52 del 2006) e si conclude con l’ordinanza che, ai sensi del novellato art. 618 c.p.c., comma 2, sospende la procedura o dà i provvedimenti indilazionabili, comunque non idonea al giudicato. Ad essa segue (eventualmente) un giudizio di merito a cognizione piena, che non è affidato al giudice dell’esecuzione in quanto tale poiché, svolgendosi secondo il rito di cognizione ordinario, fatte salve le deroghe di cui allo stesso art. 618, comma 2 (ovvero secondo il rito del lavoro nei casi previsti dall’art. 618 bis c.p.c.), è esterno al processo esecutivo e si conclude con una sentenza idonea al giudicato; l’instaurazione di tale fase deve avvenire, a pena di inammissibilità, entro il termine perentorio indicato dall’art. 618 c. 2 c.p.c.
Il collegamento fra le due fasi è dato dalla fissazione da parte del G.E. del termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito.
Con riferimento a tale ultimo aspetto e per l’opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 2, c.p.c., la stessa Suprema Corte già in precedenza aveva ribadito come a norma dell’art. 616 c.p.c., l’introduzione del giudizio di merito nel termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione, all’esito dell’esaurimento della fase sommaria dovesse avvenire con la forma dell’atto introduttivo richiesta in riferimento al rito con cui l’opposizione deve essere trattata quanto alla fase di cognizione piena in relazione alla materia del contendere e al rapporto da cui scaturisce il credito azionato in executivis; pertanto, ove la causa fosse soggetta al rito ordinario, il giudizio di merito va introdotto con citazione da notificare alla controparte entro il termine perentorio fissato dal giudice, mentre l’eventuale concessione di un ulteriore termine per tale notifica o una nuova citazione ad iniziativa spontanea della parte sono ammissibili solo a condizione che venga rispettato il termine perentorio a suo tempo fissato dal giudice dell’esecuzione (così Cass. 07-11-2012, n. 19264).
Quanto detto con riguardo all’art. 616 c.p.c può essere esteso anche all’opposizione agli atti esecutivi.
Invero, l’art. 618, comma 2, c.p.c., anche se non fa riferimento espresso all’introduzione del giudizio di merito secondo le modalità previste in ragione della materia e del rito, alla stregua di quanto invece risulta dall’art. 616 c.p.c., pur tuttavia ribadisce che debbano essere osservati i termini a comparire di cui all’art. 163 bis c.p.c., o altri se previsti, ridotti della metà: la norma da ultimo richiamata induce a ritenere che anche la fase di merito dei giudizi di opposizione agli atti esecutivi debba essere introdotta con citazione, salvo che non sia previsto il rito del lavoro, come è per l’art. 618 bis c.p.c.
La scelta del rito da seguire non resta priva di conseguenze: l’eventuale errore da parte dell’opponente può tradursi in una violazione del termine perentorio fissato dal G.E., determinando l’inammissibilità dell’opposizione.
Possono verificarsi due distinti casi. Da un lato, l’ipotesi in cui il giudizio di merito sia retto dal rito ordinario: in tale caso, l’errato deposito del ricorso non determina in alcun modo la pendenza del processo, che necessiterà invece della notifica alla controparte unitamente al decreto di fissazione dell’udienza emesso dal giudice.
Ove, invece, il rito applicabile sia quello del lavoro e la parte notifichi (erroneamente) un atto di citazione, occorrerà procedere con il deposito del ricorso che, nel caso di specie potrà essere compiuto in via equipollente mediante deposito della copia dell’atto di citazione notificato al momento dell’iscrizione a ruolo.
In entrambi i casi, ove l’attività rimediale, prescritta dal rito applicabile ex lege alla materia controversa, venga compiuta oltre il termine fissato dal G.E., ciò non potrà comportare il venir meno di eventuali decadenze processuali già compiutesi né dar luogo a rimessioni in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c., non rientrando fra le cause non imputabili l’errore sulla forma dell’atto compiuto dal difensore.
Come noto, per ammettere la rimessione in termini deve trattarsi di errore non imputabile, perché cagionato da un fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte, che presenti il carattere dell’assolutezza e non della mera difficoltà, in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza (da ultimo Cass. 6 luglio 2018, n. 17729). Sul punto, infatti, recentemente la Corte a Sezioni Unite (Cass., Sez. Unite, sent. 12/02/2019, n. 4135) ha ribadito che alla nozione di “causa non imputabile” debba ritenersi estraneo l’errore derivante dalla scelta processuale della parte, seppure determinata da una difficile interpretazione di norme processuali nuove o di complessa decifrazione, risolvendosi in un errore di diritto che, di regola, non può giustificare la rimessione in termini per evitare o superare la decadenza da un termine processuale e per giustificare impugnazioni tardive.
L’unica possibilità concessa per ovviare all’inammissibilità dell’opposizione, ove la parte abbia proposto ricorso in luogo della citazione potrebbe essere data dal fatto che il ricorso contenga tutti gli elementi indicati dall’art. 163 c.p.c. e venga notificato alla controparte, sì da costituire valido equipollente dell’atto di citazione in forza del principio del raggiungimento dello scopo tenendo conto, tuttavia, che ciò potrà valere esclusivamente a patto che l’errato ricorso sia notificato nel termine indicato dal G.E.
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