Non ha diritto al mantenimento il coniuge separato che rifiuta lavori non consoni al suo titolo di studio
Cassazione civile sez. VI n. 5932 del 4 marzo 2021
Assegno di mantenimento – capacità lavorativa coniuge richiedente
(art. 156 c.c. – art. 115 c.p.c.)
In tema di mantenimento al coniuge separato, il rifiuto di proposte lavorative considerate inferiori rispetto al titolo di studio deve essere valutato dal giudice ai fini dell’attribuzione dell’assegno. E’ necessario accertare l’effettiva possibilità di svolgimento di un’attività retribuita, anche acquisendo professionalità diverse o ulteriori rispetto a quelle già possedute dal richiedente l’assegno.
CASO
La Corte di appello di Trieste, decidendo una causa relativa alla separazione personale dei coniugi, aveva confermato l’attribuzione in favore della moglie di un assegno di mantenimento quantificato nella misura di 1.000 euro.
Il marito aveva dedotto nel giudizio la circostanza del rifiuto della donna di accettare alcune occasioni lavorative che lo stesso le aveva procurato.
La donna, di 48 anni e in possesso di laurea in farmacia, non aveva accettato alcune proposte lavorative considerate non adeguate al suo profilo individuale, sia per età che per istruzione (badante, barista …).
I giudici di Trieste avevano affermato il diritto del coniuge richiedente di rifiutare le proposte non “pertinenti ed adeguate”, ritenendo svilente che una persona laureata, avendo goduto di un certo livello di vita, possa essere in seguito “condannata al banco di mescita o al badantato”.
Su questo ed altri punti della sentenza, il marito ricorre in Cassazione eccependo la violazione o falsa applicazione dell’art. 156 c.c., essendosi la Corte territoriale limitata ad affermare il divario economico dei redditi delle parti, mentre l’assegno di mantenimento nella separazione sarebbe finalizzato ad assicurare un contributo al coniuge economicamente più debole, sempre che questo si sia attivato per la ricerca di un lavoro, e non sia invece rimasto del tutto inattivo, rifiutando le numerose possibilità lavorative proposte dal marito, e aggravando così ingiustificatamente la sua posizione debitoria.
Soluzione e percorso argomentativo seguito dalla Cassazione
La Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso.
La decisione della Corte territoriale, secondo la Cassazione, si pone in contrasto con l’art. 156 c.c. poiché ai fini dell’attribuzione di assegno in favore del coniuge, l’attitudine al lavoro e le potenzialità di guadagno sono elementi indispensabili da valutare.
Il giudice di merito deve accertare la capacità lavorativa in concreto e quindi rileva, ad esempio, la possibilità di acquisire professionalità diverse e ulteriori rispetto a quelle possedute.
La sentenza di merito, al contrario, aveva confermato il diritto al mantenimento sulla base di rilievi del tutto astratti, arrivando a negare dignità al lavoro manuale o di assistenza alla persona, ignorando elementi rilevanti, ossia se la donna fosse in grado di procurarsi redditi adeguati.
La Corte avrebbe dovuto, pertanto, compiere una valutazione specifica sulle proposte dei lavori ricercati o reperiti, non limitandosi ad un giudizio generico di inadeguatezza in base al titolo di studio.
QUESTIONI
L’assegno di mantenimento è riconosciuto al coniuge che non abbia adeguati redditi propri per provvedere al proprio mantenimento o disponga di un reddito che non gli consenta di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva durante il matrimonio.
Rileva a tale scopo anche la capacità lavorativa dei rispettivi coniugi.
Con la decisione in esame, la Cassazione conferma il recente orientamento giurisprudenziale secondo cui l’attitudine del coniuge al lavoro deve essere valutata in termini di effettiva possibilità di svolgere un’occupazione in considerazione di ogni fattore individuale e ambientale, e con esclusione di valutazioni astratte e ipotetiche.
L’assegno di mantenimento può essere escluso pertanto se il coniuge richiedente con concrete potenzialità di svolgere un’occupazione retribuita, abbia rifiutato immotivatamente proposte di lavoro (Cass. Civ. n. 5817/2018 e Cass. Civ. n. 28938/2017).
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