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DL. 34/19 CONVERTITO IN LEGGE 58/19, art. 19 bis:

Il quarto periodo del comma 5 dell’articolo  2  della  legge  9 dicembre 1998, n. 431, si interpreta nel senso che, in mancanza della comunicazione ivi prevista, il contratto è rinnovato tacitamente, a ciascuna scadenza, per un ulteriore biennio.

La durata dei contratti di locazione.

E’ noto che la materia delle locazioni immobiliari ad uso abitativo ha attraversato “epocali” trasformazioni, che hanno interessato principalmente le vicende legate alla durata del contratto.

L’originario “blocco contrattuale” rappresentato dal regime vincolistico della legge 392/78 (c.d. legge dell’equo canone), ha visto il graduale superamento, dapprima ad opera della disciplina della L.359/92 c.d. “dei patti in deroga” e da ultimo ha trovato compimento nella L.431/98, che oramai da circa venti anni, costituisce il nucleo centrale delle locazioni abitative, accompagnata dalle norme del codice civile, per quanto di competenza e, soprattutto, dalle c.d. “norme superstiti” della L.392/78, ancora applicabili ed in quanto non abrogate dall’articolo 14 L.431/98.

Per quanto oggetto di trattazione nel presente contributo dottrinario, la L.431/98 ha regolamentato ex novo la disciplina inerente la durata dei contratti abitativi, prevedendo nei due distinti commi 1 e 3 dell’articolo 2), differenti regimi contrattuali.

Il comma 1) consente alle parti in totale autonomia di stipulare contratti abitativi a “canone libero”, ossia non regimentato e vincolato al rispetto dei parametri sul valore del canone, della durata di 4 anni + 4 ed ulteriormente rinnovabili di eguale  periodo, secondo le disposizioni di cui al comma 1) dell’articolo.

Invece, il comma 3), disciplina i contratti c.d. “ a canone concordato”, ossia quelli in cui il canone è stabilito e predeterminato in base a quanto definito da appositi “accordi locali” e comunque, sottratto alla libera autonomia delle parti.

Ora, mentre per i contratti a canone libero, la chiarezza semantica operata dal legislatore nella redazione dell’articolo 2) ed in ordine alla durata dei medesimi, al momento della scadenza del primo blocco contrattuale di anni otto (4+4), non ha mai lasciato adito a dubbi interpretativi, viceversa per i contratti a canone concordato, il legislatore ha difettato radicalmente nel lessico, creando all’interprete non poche difficoltà, laddove al comma 5) ha indicato che: “il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni”.

Il legittimo dubbio insorto all’interprete, che ha occupato pagine di commenti, profusione di inchiostro e, sinanche differenti interpretazioni della giurisprudenza di merito, ha riguardato la corretta applicazione del “rinnovo” al termine del primo periodo di scadenza, ovvero se dovesse intendersi un rinnovo di anni tre, ossia pari alla prima durata del contratto, di tre più due, pari all’intera durata comprensiva anche della proroga biennale, oppure infine se dovese intendersi una scadenza di soli due anni, pari ed uguale a quella della proroga.

Chi scrive si occupò di commentare criticamente una sentenza del Tribunale di Bologna, aderendo ad una interpretazione corrispondente alla volontà del legislatore di operare una distinzione lessicale tra i termini: rinnovo e proroga.[1]

Le interpretazioni delle corti di merito e l’evoluzione giurisprudenziale.

Primo in ordine temporale, il Tribunale di Torino[2], risolse la questione interpretativa sulla durata contrattuale dei contratti a canone concordato, successivamente alla prima scadenza di 3 + 2, rilevando come:

“al termine del biennio di proroga le parti possono attivare la procedura per il rinnovo a nuove condizioni o la rinuncia al rinnovo del contratto, vale a dire la disdetta dello stesso; in assenza di una delle due predette iniziative, che sono vincolate alla forma scritta…il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni, vale a dire ad uguale canone e durata pari a quella originariamente pattuita nella misura non interiore ai tre anni”.

La curia piemontese valorizzò, per prima, la congruità di un periodo di rinnovo non inferiore al triennio, rilevando che differentemente dai contratti a canone libero, il legislatore avesse inteso predeterminare per quelli a canone concordato, un differente meccanismo di rinnovo, distinguendo – solo per questi ultimi – il rinnovo dalla proroga e per l’appunto prevedendo l’applicazione della proroga – inteso quale istituto eccezionale e differente dal rinnovo – soltanto una volta e quindi solo alla prima scadenza contrattuale e non alle scadenze successive.

In ragione della ridetta interpretazione, i contratti a canone concordato, in assenza di un comportamento attivo delle parti (consistente nella disdetta del contratto) si sarebbero rinnovati tacitamente, dopo il primo periodo contrattuale di 3 + 2, di ulteriori tre anni.

Tuttavia, differentemente da quanto sostenuto dalla curia piemontese, a distanza di pochissimo tempo, con la sentenza n.3151/09[3], il tribunale felsineo, giungeva ad una conclusione opposta.

Pur convenendo sull’incertezza del dato letterale (art. 2, comma 5, L.431/98), il Tribunale di Bologna, riteneva dare una lettura complessiva della durata del rapporto, sostenendo che: “il contratto va riguardato come sequenza unitaria, di complessivi cinque anni (tre più due), con facoltà per il locatore di esercitare motivatamente la disdetta dopo tre anni e liberamente dopo i cinque”; con il che al termine del primo rinnovo di 3+2 il contratto, in assenza di disdetta si rinnoverebbe di ulteriori cinque anni.

A tale incerto quadro di riferimento giurisprudenziale, variamente articolato, facevano seguito altre pronunce delle corti di merito di Genova  e  Bari,[4] che con alterne sentenze, si contraddistinguevano per “abbracciare” ora l’una ora l’altra tesi: durata limitata al periodo iniziale di riferimento “non inferiore al triennio”, ovvero intero periodo, quale “sequenza unitaria di tre anni più due”.

D’altronde, l’auspicabile intento dell’interprete di pervenire ad una soluzione concordata ed unitaria, corrispondente ad una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione con intento nomofilattico, risultava nei fatti vanificata da un semplice calcolo aritmetico, calzante alla fattispecie in esame, e derivante dalla mera circostanza che l’esaurimento di tre gradi di giurisdizione, con i cronici ritardi della giustizia italiana, sarebbe risultata di gran lunga più lenta, delle scadenze contrattuali, quali che fossero in considerazione.

L’interpretazione autentica del legislatore.

Nel dibattito mai sopito tra dottrina e giurisprudenza di merito e valutate le considerazioni in ordine ad un remoto raggiungimento di una decisione nomofilattica, si è inserito il legislatore che nell’ambito di tutt’altra materia di riferimento – ma a questo il giurista è ormai avvezzo… – ha ritenuto inserire  nel DL 34/19, poi convertito in L. 58/19, l’articolo 19 bis, con il quale ha operato la modifica legislativa del comma 5^ dell’articolo 2 L.431/98.

Certo, il giurista attento potrebbe “esasperare” il ragionamento, interrogandosi sulla scelta legislativa e se essa sia semplicemente frutto di un mero calcolo aritmetico o di opportunità, specie laddove si considerino i ragionamenti di cui alle sentenze citate.

Innanzitutto, nell’operazione legislativa di interpretazione autentica si apprezza il dato lessicale, attraverso l’indicazione che il contratto è “rinnovato”, venendo ad allinearsi alla medesima espressione adoperata al comma 1 dell’articolo 2 L.431/98, per i contratti a canone libero ed evitando confusioni e commistioni con la parola proroga, che tanto aveva generato incertezze.

Ciò nondimeno l’interprete può nutrire riserve riguardo la scelta di limitare la durata del rinnovo al biennio, dopo la prima scadenza e quindi i successivi taciti rinnovi di biennio in biennio, in quanto forse sarebbe stato preferibile, predeterminare una durata di rinnovo maggiore, allineandola ad un termine non inferiore al triennio.

Invece il legislatore pare avere optato per un rinnovo limitato al biennio tout court, senza tener conto di diversi argomenti e/o forse soprattutto per adeguare le scadenze dei contatti a canone concordato, i quali com’è noto hanno un periodo minimo di durata “non inferiore ai tre anni” e due di proroga in prima scadenza, ma che in realtà – non essendo impedito – possono avere anche periodi più lunghi di durata minima, quali  4+ 2, 5+2 e così via, tutte variabili contrattuali consentire ed anzi assentite dalle parti, in relazione alla circostanza sull’incidenza  dei parametri sul valore del canone di cui agli Accordi Territoriali.

Proprio in ragione di tali distinzioni, il legislatore può avere immaginato un periodo fisso di due anni, applicabile in qualunque ipotesi di rinnovo tacito alla prima scadenza e prescindendo quindi da un “rinnovo alle medesime condizioni”, di cui al comma ora modificato, che aveva disorientato l’interprete.

Ad onor del vero, occorre menzionare che autorevoli commentatori[5], avevano chiarito, come il termine “medesime condizioni”, fosse da intendere circoscritto alle sole condizioni economiche e non a quelle di durata, in quanto comunque l’esigenza di bilanciamento degli interessi delle parti ed il mutato atteggiamento della L.431/98, in ordine alla valorizzazione dell’autonomia rispetto alla precedente legge vincolistica (L.392/78), avessero comportato il rigido superamento degli schemi precedenti .

Il procedimento attivabile dal locatore per il rilascio dell’immobile  alle scadenza successive alla “prima”.

Il dato normativo da cui occorre operare il ragionamento sulla concreta applicazione del ricorso ex articolo 30 L.392/78, come richiamato dal comma 4 dell’articolo 3 L.431/98, ovvero sull’intimazione di sfratto  o licenza per finita locazione ex art. 657 cpc e segg.ti, in ipotesi di rilascio dell’immobile al termine della seconda scadenza contrattuale, risulta essere l’articolo 3, comma 1^, laddove prevede che: “alla prima scadenza dei contratti ai sensi  del comma 1 articolo 2 e alla scadenza dei contratti stipulati ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, il locatore può avvalersi della facoltà di diniego del rinnovo del contratto, dandone comunicazione al conduttore con preavviso di almeno sei mesi, per i seguenti motivi…”.

L’intenzione del legislatore è quella di garantire una stabilità del rapporto di locazione e preservare le ragioni della parte conduttrice, con il che si impedisce al locatore di determinare la conclusione anticipata del contratto prima della scadenza minima di legge, ora per i contratti a canone libero al termine dei primi 4 anni e per quelli a canone concordato al termine dei primi tre, attraverso un semplice recesso/disdetta ad nutum; ancorando e bilanciando le rispettive esigenze delle parti contrattuali, all’esercizio di una disdetta motivata del locatore, ossia  a specifiche condizioni individuate dalla legge ed in assenza delle quali il rapporto continua sino a scadenza finale e senza possibilità di interruzioni anticipate.

Nell’ambito del ridetto ragionamento occorrerà quindi interrogarsi se la disdetta motivata opera SOLO in presenza della “prima scadenza” contrattuale ovvero anche per tutte le scadenze successive e quindi, allorquando il rapporto si sia rinnovato tacitamente, anche successivamente alla prima INTEGRALE scadenza contrattuale, normalmente coincidente con i primi quattro anni più quattro, in ipotesi di canone libero e tre più due, in quello concordato.

Tra le norme abrogate dall’art. 14, l.431/98 vi è sicuramente l’articolo 3 della L.392/78 (rinnovo tacito), risultando in vigore – per quanto non altrimenti regolamentato – la norma codicistica, articolo 1597 c.c. (rinnovazione tacita del contratto), che al comma 3^ fa esplicito riferimento alla “licenza”: “ se è stata data licenza, il conduttore non può opporre la tacita rinnovazione, salvo che consti la volontà del locatore di rinnovare il contratto”.

La rigida interpretazione letterale dell’articolo, unita all’espressione “licenza”, che per l’appunto evoca il procedimento sommario di cui agli articoli 657 e segg.ti cpc, ha persuaso alcuni commentatori[6] a ritenere che a tali scadenze, il locatore possa agire con il procedimento sommario, non ritenendolo strictu sensu estendibile al di fuori della PRIMA E SOLO LA PRIMA scadenza del contratto.

La dottrina citata in nota ha acutamente argomentato che: “ la rinnovazione obbligatoria del rapporto alla prima scadenza e l’obbligo di disdetta motivata hanno caratteristiche straordinarie (se non eccezionali)”; se ne deduce che l’intento del legislatore di garantire una durata minima ed impedire abusi del locatore, risulta limitato solo al termine del primo periodo e non in tutte altre ipotesi di scadenza del contratto successive alla prima.

Ogni differente e cieca interpretazione vanificherebbe l’intento del legislatore di “liberalizzazione del mercato abitativo” che ha costituito la ratio portante della disciplina delle locazioni abitative ed il superamento del precedente regime vincolistico dell’equo canone.

Peraltro, anche l’interpretazione letterale dell’art. 3 L.431/98, nella parte in cui riferisce: “alla prima scadenza dei contratti stipulati a sensi…”, non solo lascerebbe intendere che la stipula coincida SOLO con l’originaria sottoscrizione e non con rinnovi taciti successivi, ma laddove si volesse diversamente argomentare, il legislatore  altresì avrebbe potuto e dovuto ivi prevedere che oltre che alla prima scadenza la disdetta motivata potesse estendersi anche in caso di rinnovo tacito, SIC !

D’altronde autorevole dottrina[7] ha correttamente individuato come: “il punto della reale novità del rapporto tacitamente rinnovatosi è notoriamente controverso,  di tal chè riesce complicato immaginare se il rapporto rinnovatosi tacitamente possa configurarsi come nuovo contratto o prosecuzione del negozio precedente; in questo ultimo senso recente sentenza di merito della corte d’appello felsinea[8] ha ritenuto: “la rinnovazione come prosecuzione del rapporto originario” e quindi optato per una rinnovazione del contratto di un immobile ad uso diverso per anni sei al termine del primo dodicennio, senza necessità di applicazione di diniego motivato oltre la prima scadenza.

D’altro canto si è rilevato che una siffatta interpretazione letterale delle norme, non contrasterebbe né con l’articolo 12 delle preleggi e tantomeno, con la specifica previsione dell’art. 13 L. 431/98 (patti contrari alla legge), in quanto non investirebbe alcuna pattuizione volta a derogare i limiti di durata del contratto stabiliti dalla legge.

Vero è che da un punto di vista squisitamente processuale, i due tipi di procedimento individuati dall’art. 30 L.392/78 e dagli art. 657 cpc e segg.ti, sono molto simili, in quanto salva la differente vocatio in ius, rispettivamente ricorso e citazione per convalida, entrambi sono rivolti all’ottenimento di un titolo veloce e rapido in assenza di opposizione dell’intimato ed entrambi, scontano della possibilità di un mutamento del rito, in ipotesi di errata introduzione del procedimento, comportando solo una mera irregolarità formale.[9]

[1] Saverio Luppino, Archivio locazione condominio, Tribuna, nota a sentenza 2/2010, pag.194.

[2] Tribunale Torino, Sezione 8^, 26.6.2018 n.4655, giudice unico dott. Nigra.

[3] Tribunale di Bologna, Sezione 2^, n.3151/09, estensore dott.ssa Rossi.

[4] Trib Genova, 4.12.2009, in Tribuna archivio 2010,3; Trib. Bari, sez.III^, 29.10.2012, in banca dati Cedam Utet.

[5] Corrado Sforza Fogliani, www.confedilizia fine contratto rinnovo; Augusto Cirla, Guida alle locazioni abitative e a suso diverso 2007, 1.10.2007, banca dati sole 24 h.

[6] Alberto Bucci, La disciplina delle locazioni abitative dopo le riforme, Giappichelli.

[7] Antonio Scarpa, dossier il Sole 24, repertorio, luglio/agosto 2011.

[8] Corte appello Bologna, 1.8.07 n.739; in senso conforme alla sentenza, anche Grasselli, “Le locazioni di immobili nel codice civile e nelle leggi speciali”, Padova, 1999.

[9] Cass. civ. 22 maggio 1990, n.4610

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