Blog

per-la-corte-dappello-di-firenze-la-consapevolezza-dei-rischi-della-condotta-in-presenza-di-una-particolare-intensita-dellelemento-intenzionale-integra-la-giusta-causa-di-licenzia
Era passata al c.d. onore delle cronache per la particolarità dei fatti e, non ultimo, il fatto che nella fattispecie si incrociava il diritto del lavoro (nel suo istituto forse più rappresentativo: la tutela contro il licenziamento per una giusta causa – ritenuta – illegittima) e la passione sportiva. E non da meno era il titolo dato al commento di quella sentenza emessa dal Tribunale di Arezzo (n. 64 del 7 marzo 2023) dato da Vincenzo Antonio Poso (O Fiorentina, di ogni squadra ti vogliam regina». Il lavoratore tifoso, assente dal servizio perché affetto da lombosciatalgia, che va allo stadio per assistere alla partita non può essere licenziato se il datore di lavoro non riesce a provare la simulazione della sua malattia, in Labor, 14 aprile 2023, al quale si rinvia anche per i riferimenti ulteriori). Un lavoratore aretino il 21 maggio 2022 si recò, da spettatore (tifoso), ad una partita di calcio allo stadio “Artemio Franchi” di Firenze pur assente dal lavoro per malattia, nello specifico a causa di una fastidiosa lombosciatalgia, documentata da certificazione medica. Avendo avuto la circostanza, come detto, ampio rilievo mediatico, il lavoratore, all’esito del procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti dall’azienda datrice di lavoro, fu licenziato per giusta causa (essendo stato detto comportamento in contrasto con le disposizioni aziendali, atteso che il fatto aveva costituito un grave atto di insubordinazione alle disposizioni dell’azienda, con evidente lesione del vincolo fiduciario che esisteva tra datore di lavoro e lavoratore) e il Tribunale di Arezzo, con un’ordinanza sommaria ne aveva disposto la reintegrazione in servizio con la conseguente condanna al risarcimento dei danni. L’ordinanza sommaria, ritualmente opposta dal datore di lavoro, è stata confermata con una successiva decisione di merito (pronunciata dallo stesso Giudice). Premesso che recarsi ad un evento sportivo in costanza di malattia non è qualificabile alla stregua di un grave inadempimento e pertanto non giustifica l’adozione di una sanzione espulsiva, ciò non necessariamente implica l’aggravarsi della malattia lamentata. Ad avviso del giudice aretino (ma, sul punto, si tratta di un principio ampiamente consolidato) non esiste per il lavoratore subordinato un obbligo di riposo assoluto in pendenza di malattia, qualora non sia in tal senso soggetto da specifica prescrizione medica e fatto salvo il parallelo obbligo di reperibilità alla visita fiscale (richiedibile dal datore di lavoro ovvero effettuabile ex officio dall’Inps), fuori dalle relative “fasce orarie” deve essere, comunque, garantita, la libertà di circolazione, che è un diritto assicurato a ogni cittadino che non sia destinatario di provvedimenti restrittivi adottati dall’autorità giudiziaria. Sul punto, la sentenza di prime cure recita testualmente: «la durata di una partita si estende per un arco temporale ben più breve rispetto all’intera giornata lavorativa e, a fronte di un eventuale accentuarsi del dolore,  in quel ristretto frammento temporale, […] avrebbe potuto reagire anche tramite l’assunzione di un unico antidolorifico»; e ancora:  «assistere ad una partita non richiede particolari sforzi (essendo visionabile anche assumendo una posizione seduta)», mentre « l’attività di affilatore espletata da […] richiedeva il maneggio di carichi a mani»; risultando, nel caso specifico, del tutto irrilevante il richiamo da parte dell’azienda convenuta ad altre e diverse mansioni lavorative esercitabili, eventualmente da proporre. All’epoca della redazione del commento di Vincenzo Antonio Poso, la sentenza emessa nella fase di cognizione piena non era stata reclamata, cosa che è stata poi fatta e a cui ha fatto seguito la decisione di riforma emessa dalla Corte d’Appello di Firenze, la n. 432 del 9 giugno 2023, qui commentata. Al momento di redazione del presente commento non risulta, a quanto consta, proposto ricorso per cassazione, i cui termini risulterebbero allo stato scaduti. Nel reclamo della società datrice di lavoro veniva messo in rilievo che: a) il giudice di prime cure avrebbe dovuto applicare l’art 2729, co. 2, cod. civ sulla sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti, indizi che avrebbero portato ad accertare la responsabilità del lavoratore (avendo sul punto il datore di lavoro assolto al suo onere probatorio); b) il lavoratore si era comportato secondo malafede, laddove aveva negato in sede di audizione orale di essersi recato allo stadio (circostanza ammessa solo in fase di opposizione, all’esito della produzione della relazione investigativa) e non aveva prestato quella collaborazione richiestagli nella contestazione, di fornire documentazione medica a chiarimento, documentazione non prodotta neppure in giudizio; c) come da relazione investigativa (su cui il Tribunale non aveva speso alcuna parola), il lavoratore si era messo alla guida della sua autovettura per andare a Firenze, era stato visto correre a piedi dopo avere parcheggiato la macchina e aveva acquistato il biglietto per andare alla partita il 13 maggio per il giorno 22 maggio (una domenica in cui, dall’aprile, sapeva di non dovere lavorare), ma la partita era poi stata anticipata (in data 16 maggio) al 21 maggio, giorno in cui era in turno, onde il carattere artefatto della malattia; d) la certificazione medica non costituiva un atto pubblico ex art 2699 cod. civ. ed era contestabile dal datore di lavoro nella sua correttezza formale e sostanziale oltre che nella congruità prognostica, diversamente dalla posizione sul punto assunta dal Tribunale; e) era errata  l’affermazione del Tribunale sul fatto che, successivamente, il lavoratore era rientrato al lavoro e quindi non vi era stato un aggravamento della malattia, trattandosi all’evidenza di un giudizio che andava effettuato ex ante, in relazione al tipo di patologia e alla condotta tenuta dal lavoratore. Nel suo percorso logico-argomentativo la Corte territoriale parte dalla disamina di quanto emerge dai tre punti della contestazione disciplinare a suo tempo mossa al lavoratore e, più nello specifico: sulle questioni relative alla esistenza o meno di una vera e propria malattia; sulla idoneità o meno della condotta dallo stesso tenuta con riguardo a un potenziale aggravamento della lamentata patologia; sulla possibilità, sempre per lo stesso (e con riferimento quanto meno al giorno in cui era andato allo stadio), di svolgere le sue mansioni in azienda. Una valutazione questa che presuppone l’esame dei principi che la giurisprudenza di legittimità ha elaborato nel corso degli anni e che sono stati ulteriormente e recentemente precisati nella pronuncia della Cassazione n. 13063/2022, secondo la quale: a) nel nostro ordinamento “…non sussiste …. un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, in costanza di assenza per malattia, sicché ciò non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera (ab imo, Cass. n. 2244 del 1976, con un postulato mai smentito dalla giurisprudenza successiva; tra molte: Cass. n. 1361 del 1981; Cass. n. 2585 del 1987; Cass. n. 381 del 1988; Cass. n. 5833 del 1994; Cass. n. 15621 del 2001; più di recente, v. Cass. n. 6047 del 2018, la quale osserva che il lavoratore assente per malattia “non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un’attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona”), con la precisazione che la nozione di malattia ricomprende “…..le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale – sebbene transitoria – incapacità al lavoro del medesimo (cfr., tra tutte, n. 14065 del 1999), per cui, anche laddove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività….”; b) pur tuttavia la possibilità di svolgere attività lavorative o extralavorative non può comunque escludere la rilevanza disciplinare del fatto in sé (così potendosi arrivare anche a giustificare la sanzione del licenziamento) “……..in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifichi obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. Tale principio può dirsi consolidato nel diritto vivente (tra molte: Cass. n. 1747 del 1991; Cass. n. 9474 del 2009; Cass. n. 21253 del 2012; Cass. n. 17625 del 2014; Cass., n. 24812 del 2016; Cass. n. 21667 del 2017; Cass. n. 13980 del 2020). Invero, durante il periodo di sospensione del rapporto determinato dalla malattia permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi non inerenti allo svolgimento della prestazione; tra gli altri, anche gli obblighi di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., oltre che gli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. (cfr. Cass. n. 7915 del 1991)….” ; c) in tale contesto, assume rilievo il dovere di “…..osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati, sia che si intenda tale dovere quale riflesso preparatorio e strumentale dello specifico obbligo di diligenza, sia che lo si collochi nell’ambito dei più generali doveri di protezione scaturenti dalle clausole di correttezza e buona fede in executivis, evitando comportamenti che mettano in pericolo l’adempimento dell’obbligazione principale del lavoratore per la possibile o probabile protrazione dello stato di malattia…..”. Per il ché la valutazione del giudice di merito sull’incidenza sulla guarigione di altra attività svolta deve essere effettuato “…secondo un giudizio ex ante, riferito al momento in cui il comportamento contestato si è tenuto ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio, con la conseguenza che, ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante (per tutte, v. Cass. n. 14046 del 2005; conf., Cass. n. 24812 del 2016; Cass., n. 21667 del 2017; Cass. n. 3655 del 2019; Cass. n. 9647 del 2021, con la precisazione che l’attitudine a pregiudicare, anche solo potenzialmente, il rientro in servizio “…non potrà che essere effettuata ex post in giudizio, eventualmente con l’ausilio di una consulenza di tipo medico-legale (cfr. Cass. n. 4237 del 2015)…”. L’accertamento sia sulla fraudolenta simulazione della malattia ovvero dell’idoneità della diversa attività contestata a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche “…si risolve in un giudizio di fatto, che dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, come tale riservato al giudice del merito, con i consueti limiti di sindacato in sede di legittimità (ad ex., Cass. n. 3142 del 1983; Cass. n. 2585 del 1987; più di recente, ex multis, Cass. n. 17625 del 2014; Cass. n. 21667 del 2017)”. Orbene, mentre da un lato il datore di lavoro dovrà quindi dimostrare con particolare rigore tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato, non bastando la prova di avere svolto altra attività astrattamente consentita, da parte sua il giudice è chiamato a valutare ogni circostanza del caso concreto, esercitando un potere istruttorio anche d’ufficio al fine di superare l’incertezza istruttoria: “…..in particolare, occorrerà valutare modalità, tempi e luoghi della diversa attività svolta dal dipendente in costanza di malattia, attribuendo rilievo, anche ai fini dell’elemento soggettivo, alla circostanza che si tratti di attività ricreativa o ludica ovvero prestata a favore di terzi; occorrerà poi esaminare le caratteristiche della patologia diagnosticata per certificare l’assenza per malattia; infine, occorrerà verificare se da tali elementi, eventualmente con l’ausilio peritale, scaturisca la prova che la malattia fosse fittizia ovvero che la condotta tenuta dal lavoratore fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al lavoro…”. Ancora più recentemente la giurisprudenza di legittimità ha ribadito alcuni dei suindicati principi (v. Cass n. 12994/2023), laddove ha confermato l’insussistenza di un obbligo del lavoratore in stato di malattia di astenersi da attività, anche lavorative, con esso compatibili, purché con le cautele idonee a non ritardarne la guarigione, nel rispetto dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, arrivando ad affermare che deve giustificarsi il recesso datoriale nel caso in cui la medesima attività -con valutazione ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte- possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro, con irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia, spettando al lavoratore l’onere della prova della suddetta compatibilità, non pregiudicante, né ritardante la guarigione. Fatto questo ragionamento in diritto, la sentenza in commento passa poi all’analisi dei punti nodali della fattispecie da essa esaminata. Sulla genuinità della certificazione e della malattia del lavoratore la Corte rileva come si fosse trattato di una situazione -relativa ad un processo infiammatorio in fase acuta, con conseguenti contratture e sintomi dolorosi- all’apparenza effettivamente incompatibile con il fatto che, soltanto due giorni dopo detta diagnosi, il lavoratore fosse in grado di mettersi alla guida di una automobile, percorrere un tratto stradale non breve, posteggiare l’auto, “correre” per entrare nello stadio, raggiungere il posto assegnato presumibilmente salendo e scendendo scale e/o gradinate, trattenersi seduto per l’intera durata dell’incontro, e poi nuovamente compiere tutte le azioni in senso inverso fino a rientrare nella propria abitazione dopo oltre cinque ore. Sulla idoneità della condotta ad aggravare la patologia, la sentenza in commento rileva che, in ogni caso, anche assumendo la sussistenza della patologia, non vi è tuttavia dubbio alcuno sul fatto che il lavoratore con tale condotta ebbe a mettere a repentaglio la possibilità della sua pronta guarigione, anche in ragione del fatto che, come emerso dalla precedente lettura degli interventi di legittimità, la valutazione sulla possibilità di aggravamento deve essere fatta ex ante (ossia al momento della condotta) e che il danno richiesto deve essere meramente potenziale, sì che -diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure– è irrilevante che il lavoratore, terminato il periodo di malattia, riprese l’attività lavorativa senza alcun problema e senza compromissione della sua guarigione. Del resto, al fine di valutare la potenzialità di una condotta a compromettere la ripresa, deve valutarsi anche la tipologia di malattia in rapporto alla tipologia di condotta tenuta: nella specie, non si trattava di una patologia (ad es. sindrome depressiva) in cui una attività ludica – come quella svolta dal reclamato – poteva apportare benefici alla salute, costituendo una vera e propria distrazione. Sulla possibilità di svolgimento delle mansioni in azienda, la sentenza in commento rileva che, laddove il lavoratore fosse stato in grado di andare allo stadio sotto l’effetto di analgesici, il miglioramento ottenuto gli avrebbe certamente consentito anche di potere riprendere l’attività lavorativa, seppur con l’adozione di eventuali cautele suggerite dalla necessità di non pregiudicare ulteriormente il suo stato. Con riguardo, infine, alla sussistenza della giusta causa argomentata per la risoluzione del rapporto di lavoro, il collegio fiorentino non nutre dubbi che il fatto sia stato sussistente e che il medesimo sia stato di particolare gravità, a prescindere dalla contestata. A ben vedere, infatti, la Suprema Corte ha ritenuto che la giusta causa di licenziamento è nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti – al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo – le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore (v. Cass n. 8231/2023), oltre al fatto che, per costante orientamento nel tempo, in giurisprudenza di legittimità è stato affermato che la valutazione sulla giusta causa deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo. Da qui, pertanto, “nella specie, è indubbio che la condotta del lavoratore debba essere valutata alla luce del fatto che lo stesso ebbe a svolgere un’attività ludica (non necessitata) e soprattutto controindicata per le ragioni esposte; che il P. non poteva, si ribadisce, non avere la consapevolezza dei rischi della condotta tenuta, evidenziandosi una particolare intensità dell’elemento intenzionale a fronte di una mancata valutazione dell’interesse del datore di lavoro alla prestazione lavorativa.” Luigi Pelliccia, avvocato in Siena e professore a contratto di diritto della sicurezza sociale nell’Università degli Studi di Siena Visualizza il documento: App. Firenze, 9 giugno 2023, n. 432 Scarica il commento in PDF L'articolo Per la Corte d’Appello di Firenze, la consapevolezza dei rischi della condotta, in presenza di una particolare intensità dell’elemento intenzionale, integra la giusta causa di licenziamento sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

Gestionali per studi e uffici professionali

Hai bisogno di nuovi strumenti per aumentare la produttività del tuo studio?
Chiamaci a questi numeri 0815374534 o 3927060481 (anche via whatsapp)
Lo staff di Safio ti aiuterà ad individuare la soluzione più adatta alle tue esigenze

    Accetta la Privacy Policy

    Please prove you are human by selecting the house.