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Con la sentenza n. 38 dell’8 marzo 2024 la Corte Costituzionale dichiara inammissibili le questioni di legittimità dell’art. 7 co. 5 della l. 23 luglio 1991, n. 223 con riferimento ai precetti dell’art. 3 co. 2 Cost. e art. 41 co. 1 Cost.; dichiara, invece, non fondate le questioni con riferimento all’art. 3 co.1 Cost. Diremo subito che la sentenza riveste interesse per la parte in cui dichiara l’infondatezza delle questioni giacché la inammissibilità scaturisce dalla mera genericità delle argomentazioni del rimettente. Prima dell’abrogazione disposta dall’art. 2, comma 71, lettera b), della legge n. 92 del 28 giugno 2012, gli artt. 7, 8 e 9 della legge n. 223 del 1991 disciplinavano l’indennità di mobilità. La misura era prevista in caso di perdita del lavoro in conseguenza dell’impossibilità da parte dell’impresa di reimpiegare tutti i lavoratori sospesi con un intervento di c.i.g.s.; oppure per il caso di licenziamento collettivo, indipendentemente dall’intervento di integrazione salariale, per riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. Tralasciando le altre caratteristiche, va detto che l’indennità sostituiva ogni altra prestazione di disoccupazione (destinata ad operare nelle diverse ipotesi di perdita involontaria del lavoro) ed era strutturata dal legislatore in due modalità: quella della liquidazione mensile (art. 7, comma 1) e quella della liquidazione in unica soluzione per chi volesse intraprendere un’attività autonoma, cancellandosi dalle liste di mobilità (art. 7, comma 5). La funzione della misura appariva di impronta marcatamente politico-sociale: lo scopo, infatti, era alleviare le imprese in odore di fallimento dal peso dei lavoratori cd. eccedentari, ovvero quei lavoratori per i quali sarebbe stato difficile il riassorbimento, consentendo per questi la risoluzione dei rapporti agevolata con il pagamento di una indennità volta ad attenuare le conseguenze economiche e sociali della disoccupazione. L’abrogazione ad opera dell’art. 2, comma 71 cit. è da inquadrare nella volontà legislativa di riorganizzare l’intero sistema degli ammortizzatori sociali (sia in costanza di rapporto di lavoro sia alla cessazione di esso). Soprattutto, l’intenzione del legislatore era quella di evitare l’esborso improduttivo di denaro della collettività e per far ciò occorreva, innanzitutto, espungere dal sistema degli ammortizzatori le imprese in stato di decozione, non in grado, cioè, di ritornare sul mercato e riassorbire le maestranze sospese con l’intervento di c.i.g.s. La riorganizzazione degli ammortizzatori sociali, in gran parte, è stata realizzata con la legge di delega n. 183 del 10 dicembre 2014 (cd. “Job act”) e con i successivi decreti delegati. Il sistema, strutturato “a regime”, con l’art. 21 del Decreto legislativo del 14 settembre 2015, n. 148 (di riordino degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro) non ha più previsto, tra le causali integrabili, le procedure concorsuali. Il sistema “a regime” avrebbe fatto a meno anche dell’indennità di mobilità del 1993 perché una volta cessato il rapporto di lavoro, al lavoratore sarebbe stato possibile accedere solo alla misura della NASpI, introdotta col Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (altro decreto delegato dalla l. 183/2014). Questa nuova misura, infatti, avrebbe dovuto sostituire ogni altra forma di sostegno al reddito in casi di perdita o cessazione involontaria del lavoro; inoltre, simmetricamente al contenuto della disposizione abrogata dell’art 7 cit., il d.lgs. 22/2015 ha previsto, all’art. 8, una misura denominata “incentivo alla autoimprenditorialità” secondo cui il lavoratore avente diritto alla NASpI può richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell’importo complessivo del trattamento spettantegli ma non ancora erogato, a titolo di incentivo all’avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale. Per amore di completezza, va precisato che già la l. n. 92/2012 (art. 2 co. 19) aveva previsto, in via sperimentale, per gli anni dal 2013 al 2015, che il lavoratore avente diritto alla AsPI (che, per pochi anni, ha preceduto la NASpI, con le medesime finalità) potesse richiedere una somma una tantum al fine di intraprendere un’attività di lavoro autonomo, in forma di auto impresa o di micro impresa o per associarsi in cooperativa. Alla luce di questa premessa, la pronuncia della Consulta incide su una disposizione del passato ma ci offre una chiave di lettura anche per la nuova disposizione prevista dal d.lgs. n. 22/2015. Il Tribunale di Ravenna ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 7, co. 5, della l. n. 223/1991, ovvero della disposizione prevedente l’indennità una tantum. Il caso esaminato vedeva un lavoratore, licenziato per giustificato motivo oggettivo e iscritto nelle liste di mobilità, fruire dell’indennità mensile ma, durante il periodo di percezione, si era iscritto nella gestione commercianti come coadiutore di impresa familiare, svolgendo in essa attività di collaborazione e perciò, l’ente previdenziale gli aveva intimato la restituzione dell’indennità percepita mensilmente e non richiesta in unica soluzione. Per il rimettente, sarebbe «un non senso» postulare di potere ottenere legittimamente l’anticipazione di una somma alla quale non si avrebbe diritto se fosse corrisposta ratealmente. Inoltre, il rimettente ricordava anche che se il lavoratore avesse avuto un’attività autonoma già da prima dell’iscrizione nelle liste di mobilità, l’indennità dell’art. 7 sarebbe stata erogabile anche in ratei mensili (viene citata la pronuncia di Cass. 11 marzo 2020, n. 6943). La lettura del rimettente è, per la Consulta, erronea perché assimila le due ipotesi di indennità che sono invece diverse per presupposti e soprattutto per funzione. La Corte, infatti, richiama il suo precedente n. 194 del 14 ottobre 2021 (in GCost 2021, 5, 1989) che ebbe ad oggetto i sospetti di costituzionalità sull’incentivo all’autoimprenditorialità previsto dall’art. 8 del d.lgs. n. 22/2015. In quella occasione, con riferimento al caso di un lavoratore che dopo avere optato per l’incentivo aveva anche instaurato un nuovo rapporto di lavoro subordinato, la Consulta precisò che l’obbligo restitutorio delle somme percepite a titolo di incentivo è coerente con la finalità antielusiva della disposizione censurata, che è quella di evitare che il trattamento corrisposto in via anticipata non sia realmente utilizzato per intraprendere e poi proseguire un’attività di lavoro autonomo, di impresa o in forma cooperativa. A pochi mesi di distanza dalla pronuncia in commento, la Corte è intervenuta nuovamente sull’art. 8 cit. ribadendo la finalità della disposizione con la sentenza 20 maggio 2024, n.90, con la quale ha dichiarato l’illegittimità della disposizione nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio quando il lavoratore non possa proseguire, per causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione gli è stata erogata. Quest’ultima sentenza si può leggere in Labor, www.rivistalabor.it, con nota di commento di Luigi Pelliccia, Per la Corte costituzionale se la prosecuzione dell’attività imprenditoriale “finanziata” con l’anticipazione della Naspi diviene impossibile per cause non imputabili al percettore, la restituzione non è integrale, ma è proporzionale alla durata dell’instaurato rapporto di lavoro subordinato, alla quale si rinvia anche per gli ulteriori riferimenti. La Corte sostiene che la finalità perseguita dal legislatore del 1991 e del 2015 è sempre quella di favorire il reimpiego del lavoratore “disoccupato” in un’attività diversa da quella di lavoro subordinato, allo scopo di ridurre la pressione sul mercato del lavoro e soprattutto, i costi sociali di esso. Si tratterebbe, quindi, di una sorta di finanziamento destinato ad incentivare l’avvio di un’attività autonoma facendo sì che il lavoratore in mobilità fuoriesca dal mercato del lavoro dipendente. In buona sostanza, il pagamento anticipato e in un’unica soluzione non è più funzionale al sostegno dello stato di bisogno che nasce dalla disoccupazione, cosicché l’indennità perde la connotazione di prestazione di sicurezza sociale, per assumere la natura di contributo finanziario, destinato a sopperire alle spese iniziali di un’attività che il lavoratore in mobilità svolgerà in proprio. L’indennità di mobilità dell’art. 7 cit. quindi, avrebbe una duplice ratio: la forma rateale costituirebbe una misura di sostegno al reddito e quindi un ammortizzatore sociale; la forma con pagamento unico e anticipato, invece, costituirebbe una forma di contributo pubblico con la specifica finalità di decongestionare il mercato del lavoro subordinato ed il sistema della finanza pubblica di sostegno al reddito. Per tale motivo, nel caso di anticipazione una tantum, l’indennità può essere richiesta da chi provveda alla cancellazione dalle liste di mobilità. Una volta intrapreso un lavoro autonomo, risulta, infatti, ingiustificata la permanenza dell’iscrizione nelle liste, dalla quale conseguono, oltre alla percezione rateale dell’indennità, altri benefici come la contribuzione figurativa, le preferenze e le riserve nelle assunzioni. Interessante rilevare che la Corte non ha inteso considerare come tertium comparationis, per la sua specificità, il peculiare caso del lavoratore in mobilità che già svolgesse, in costanza di lavoro subordinato, anche un lavoro autonomo con esso compatibile ed abbia continuato a svolgerlo anche dopo il collocamento in mobilità. Un caso assai peculiare non in grado di scalfire la correttezza del ragionamento basato su una differenza di presupposti e funzioni delle due indennità previste dall’art. 7 citato. Si aggiunga, poi, che la legge n. 223/1991 non fa alcuna eccezione rispetto all’ipotesi di un lavoratore in mobilità che già aveva un lavoro autonomo compatibile. A ben osservare, alla luce della lettura costituzionale, l’orientamento espresso da Cass. n. 6943/2020 – che, con ogni probabilità ha anche fuorviato il pensiero del rimettente – si presta ad una critica fatale per la sua sopravvivenza, anche in riferimento al recente incentivo di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 22/2015. Il riconoscimento dell’indennità, in questo caso, troverebbe la sua giustificazione nel fatto che la perdita del lavoro subordinato provoca, anche nel caso di lavoratore che già presti attività autonoma con esso compatibile, la perdita della retribuzione e la decurtazione del reddito percepito prima del licenziamento e destinato alle esigenze di vita. Questo ragionamento, però, parrebbe contrastare proprio con le finalità delineate dalla Corte: se l’indennità di cui all’art. 7 co. 1, in forma rateale, ha una funzione di ammortizzatore, questa verrebbe meno nel caso di lavoratore autonomo che, sebbene licenziato, potrebbe continuare a svolgere la sua attività non dipendente, non avendo più lo scopo di far cessare lo stato di bisogno connesso alla disoccupazione. Nel caso in cui il medesimo lavoratore chiedesse l’indennità in unica soluzione (art. 7 co. 5), la funzione di tale indennità non corrisponderebbe a quella descritta dalla Corte ma risulterebbe, francamente, ultronea perché sarebbe diretta a consentire l’avvio di una nuova e diversa attività d’impresa, senza un ragionevole fondamento, in favore di chi già ha un’attività autonoma ed è già fuori dal mondo del lavoro subordinato. Nicola Di Ronza, avvocato in Napoli Visualizza il documento: C. cost., 8 marzo 2024, n. 38 Scarica il commento in PDF L'articolo Una sentenza sulla abrogata indennità di mobilità ma ancora utile per l’incentivo all’autoimprenditorialità sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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