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il-periodo-di-comporto-puo-essere-discriminatorio-tra-discriminazione-indiretta-e-accomodamenti-ragionevoli-la-cassazione-puntualizza
Massima Costituisce una discriminazione indiretta sottoporre al medesimo periodo di comporto lavoratori non disabili e lavoratori disabili, i quali sono statisticamente più esposti al rischio di malattia, senza considerare che una parte delle assenze potrebbero essere dovute a malattie causate dallo stato di disabilità. Il fatto La pronuncia in commento (Cass. 31 marzo 2023, n. 9095) prende le mosse dal ricorso presentato da un lavoratore, dipendente di una società a controllo pubblico, il quale era stato licenziato per superamento del comporto. L’uomo, impiegato come spazzino e giudicato comunque idoneo a mansioni manuali che comportano un certo sforzo fisico, era stato precedentemente riconosciuto da una commissione medica come portatore di handicap, con capacità lavorativa ridotta del 75%. A seguito di una serie di periodi di malattia, in parte causati dallo stato di disabilità, il ricorrente ha superato il periodo di comporto breve individuato dall’art. 42, lett. B) CCNL Federambiente applicato al rapporto di lavoro, corrispondente a 365 giorni di malattia nel periodo mobile di 1095 giorni di calendario. Di conseguenza, a seguito di un avvertimento per iscritto, la società ha licenziato il lavoratore per giusta causa. Il lavoratore aveva quindi proposto ricorso presso il Giudice del lavoro competente, il quale in primo grado aveva ravvisato una discriminazione diretta basata sulla disabilità, in quanto le assenze per malattia che avevano portato a superare il periodo di comporto si sarebbero dovute imputare alla disabilità del lavoratore, assegnato a mansioni incompatibili con il suo stato di salute. Nel secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello aveva nuovamente dato ragione al lavoratore licenziato, modificando tuttavia l’impianto argomentativo: non vi sarebbe stata, infatti, una discriminazione diretta, consistente nella sovrapposizione tra disabilità e malattia del lavoratore, bensì una discriminazione indiretta, in quanto il datore di lavoro non aveva distinto tra assenze per malattie e assenze per patologie correlate alla disabilità. Contro la sentenza di Appello ha dunque proposto ricorso per cassazione la società condannata nei primi due gradi di giudizio, sostenendo che l’art. 42, lett. B) del CCNL applicato non contiene in realtà alcuna previsione discriminatoria con riferimento alle condizioni di licenziamento del disabile. La nozione di discriminazione indiretta e il comporto La questione dirimente sottoposta alla Corte di Cassazione riguarda dunque la possibilità di considerare discriminatoria, come avevano fatto entrambe le corti di merito, l’applicazione a un lavoratore disabile del termine di comporto ordinario, senza distinguere le normali assenze per malattia dalle assenze per patologie correlate alla disabilità. Si tratta di una questione che, in anni recenti, ha acceso un importante dibattito in seno alle Corti di merito e che ha ottenuto, essenzialmente, due risposte: da un lato, la giurisprudenza maggioritaria, seguendo i precedenti della Corte di Giustizia, ha affermato che un medesimo termine di comporto che non distingua dalle altre le assenze per malattie collegate alla disabilità costituisce discriminazione indiretta (v. tra le molte App. Milano, 3 settembre 2021; App. Brescia, 29 ottobre 2019; Trib. Bologna, 15 aprile 2014, come in Guarini, Licenziamento del lavoratore disabile per superamento del comporto e discriminazione indiretta, Il Giuslavorista, 6/4/2023); dall’altro lato, alcune decisioni hanno ritenuto sufficiente a escludere la discriminazione che fosse previsto dal CCNL un termine di comporto prolungato (v. App. Torino, 3/11/2021, n. 604, De Jure; Trib. Rovereto, 8 marzo 2022, De Jure). La Cassazione ricostruisce prima di tutto il panorama normativo e giurisprudenziale applicabile ai casi di discriminazione sulla base della disabilità. L’art. 2 della direttiva 2000/78/CE stabilisce che “sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio (…) le persone portatrici di un particolare handicap”. L’identica formulazione viene ripresa dall’art. 2, c. 1 del d. lgs. 216/2003, che attua la direttiva nell’ordinamento italiano. Nei casi di discriminazione indiretta, tuttavia, il trattamento diseguale risulta comunque legittimo a condizione che sia giustificato da una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Sulla base di tale definizione, la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è trovata in passato a decidere alcuni casi di discriminazione nei confronti di lavoratori disabili licenziati a causa della propria malattia. In primo luogo, per poter applicare la normativa antidiscriminatoria al caso concreto è necessario intendere con precisione cosa si intenda per disabilità, una condizione non definita dalla direttiva, che pure la assume come fattore protetto. Dopo una prima fase in cui era stato dato maggior risalto al dato strettamente medico delle “minorazioni fisiche, mentali o psichiche” (v. sentenza dell’11 luglio 2005 nella causa C-13/05, Chacón Navas, par. 43), a seguito dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2007 (CDPD), la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha preferito valorizzare, nelle decisioni più recenti, una definizione sociale e relazionale di disabilità largamente tratta dalla CDPD. Con la sentenza 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark, la Corte di Giustizia ha infatti chiarito che la nozione di disabilità valida ai sensi della direttiva 2000/78/CE coincide con “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata”. Il concetto di disabilità inteso ai sensi della direttiva, dunque, non coincide necessariamente con la definizione data dai singoli Stati membri, solitamente in materia di assistenza sociale, ma va interpretato anche alla luce della CDPD come un concetto in evoluzione, risultato dell’interazione tra persone affette da menomazioni fisiche, mentali o psichiche con l’ambiente di lavoro. Affrontando una questione simile a quella al centro della vicenda sottoposta alla Cassazione, la Corte di Giustizia in HK Danmark ha dunque aderito alla concezione dinamico-sociale della disabilità prospettata dalla CDPD e ha significativamente osservato (par. 67) che, rispetto a un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto non solo al normale rischio di malattia, ma anche a un ulteriore rischio riguardante quelle malattie causate dalla disabilità che, sul piano statistico, generalmente determinano una maggiore morbilità. Per questa ragione, un periodo di preavviso ridotto in caso di licenziamento per superamento del comporto, come previsto dalla legislazione danese, costituirebbe una discriminazione indiretta nei confronti dei lavoratori disabili: la stessa disposizione, apparentemente neutra, finisce per penalizzare le persone affette da disabilità. La sentenza HK Danmark, apripista in materia di rapporto tra morbilità e discriminazione basata sulla disabilità, aveva lasciata aperta la possibilità di una giustificazione di tale disparità di trattamento: avendo infatti riconosciuto (par. 83) che la legge danese perseguiva una finalità legittima di flessibilità del mercato del lavoro e di incentivo all’assunzione di lavoratori con un alto rischio di assenze per malattia, rimaneva da verificare se la disposizione sul preavviso ridotto costituisse uno strumento appropriato e necessario per raggiungere tale finalità: se così fosse stato, infatti, avrebbe trovato applicazione l’eccezione di cui all’art. 2(2), lett. b, i) della direttiva, con cui si sarebbe potuta giustificare la disparità di trattamento. Per questa ragione, peraltro, la Corte di Giustizia aveva lasciato al giudice del rinvio, la Corte Marittima e Commerciale danese, il compito di operare un giudizio di proporzionalità, ovvero di decidere se la disposizione danese sul preavviso breve non andasse al di là di quanto necessario per conseguire gli obiettivi dichiarati. Con la sentenza 18 gennaio 2018, nella causa C-270/16 Ruiz Conejero, la Corte di Giustizia si è infine pronunciata su una questione del tutto analoga a quella affrontata dalla Cassazione con la sentenza in commento: il ricorrente, infatti, affetto da una condizione di disabilità, era stato licenziato per superamento del numero di assenze massime previste dalla legge spagnola e aveva sostenuto che una parte di tali assenze fossero direttamente riconducibili alla sua disabilità. Secondo la Corte di Giustizia, costituisce discriminazione indiretta il licenziamento di un lavoratore in ragione di assenze dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre, in quanto un lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di assenze ulteriori dovute a malattie collegate alla disabilità. Anche in questo caso, la Corte di Giustizia lascia al giudice nazionale il compito di riscontrare se tale trattamento diseguale è necessario a perseguire l’obiettivo, considerato legittimo, di lotta all’assenteismo, suggerendo tuttavia implicitamente che un simile giudizio di proporzionalità debba essere particolarmente rigoroso. Le due decisioni europee richiamate dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento sono quindi concordi su alcuni dati fondamentali. Innanzitutto, entrambe le decisioni condividono una definizione di disabilità molto vicina a quella stabilità dalla CDPD, che utilizza un approccio dinamico-funzionale e sociale e non tiene conto solamente del dato medico della minorazione, ma considera la relazione tra la persona disabile e l’ambiente in cui lavora. In secondo luogo, entrambe le sentenze postulano come presupposto logico della decisione sulla discriminazione quanto affermato al par. 67 delle conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott per la causa HK Danmark, ovvero che “I lavoratori disabili presentano di regola un rischio molto più elevato di ammalarsi di una malattia collegata al loro handicap dei lavoratori non disabili. Questi ultimi possono essere colpiti solo da una «generica» malattia. In più, però, di una siffatta malattia possono ammalarsi anche i lavoratori disabili”. È sicuramente vero che il rischio di malattia dei lavoratori disabili è statisticamente più alto di quello dei lavoratori non disabili. Tuttavia, proprio facendo ricorso alla definizione di disabilità condivisa dalle due sentenze della Corte di Giustizia, si potrebbe sostenere che tale giudizio valga nella generalità dei casi, ma non in tutti: all’interno della categoria della disabilità, infatti, convivono situazioni estremamente eterogenee che potrebbero dar luogo, nel concreto, a differenti situazioni di disparità. Da un lato, è ben possibile che alcune situazioni particolari di disabilità non comportino, di per sé, un aumento del rischio di malattia, proprio in relazione alla condizione individuale di menomazione e allo specifico contesto lavorativo che potrebbe favorire un pieno inserimento del lavoratore, senza quindi comportare un maggior rischio di assenze dovute a malattie collegate alla disabilità Dall’altro lato, vale anche il ragionamento opposto. Poiché la Corte di Giustizia ha adottato la definizione di disabilità contenuta nella CDPD, ne consegue che non è sufficiente soffrire di una condizione medica che comporta una menomazione fisica, psichica o mentale per poter essere considerati disabili, ma è anche necessario che l’interazione con barriere di diversa natura ostacoli la “piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori”. È quanto ha ribadito la stessa Corte di Giustizia quando le è stato sottoposto un caso di trattamento sfavorevole nei confronti di un lavoratore obeso: in questa occasione, la Corte di Lussemburgo aveva ammesso che l’obesità potesse astrattamente rientrare nella categoria della disabilità ai sensi della direttiva 2000/78/CE, ma non di per sé, bensì solamente qualora determini nel caso concreto un impedimento alla partecipazione del lavoratore alla vita professionale (sentenza del 18 dicembre 2014, causa C-354/13 Kaltoft). In altri termini, un lavoratore obeso non è per ciò stesso disabile, ma lo potrà essere in relazione allo specifico ambiente di lavoro e alle mansioni che gli sono affidate. È noto, tuttavia, come proprio una condizione di obesità, indipendentemente dall’ambiente di lavoro e delle specifiche mansioni svolta da chi ne è affetto, costituisca un fattore di rischio per numerosissime malattie croniche, in particolare del sistema cardiocircolatorio, le quali finiscono giocoforza per incidere sulle assenze per malattia del lavoratore: eppure come ammette la stessa Corte di Giustizia in Kaltoft, non vale alcun automatismo per cui l’obesità può essere sempre considerata alla stregua di una condizione di disabilità, e pertanto sarà riconosciuta solo in alcune situazioni, da valutare caso per caso, la tutela antidiscriminatoria garantita dalla direttiva 2000/78/CE. Le sentenze HK Danmark e Ruiz Conejero sono poi, naturalmente, concordi nell’ammettere che una disposizione nazionale che non considera il maggior rischio di assenze per malattia per i lavoratori disabili e che per questa ragione riserva loro un trattamento sfavorevole contrasta con il divieto di discriminazione indiretta stabilito dall’art. 2, c. 2 della direttiva 2000/78/CE, salva sempre la possibilità, lasciata al giudice nazionale, di verificare che tale disparità sia giustificata da una finalità legittima perseguita con mezzi adeguati e necessari. Partendo dai punti fermi individuati dalle due sentenze della Corte di Giustizia, la Cassazione chiarisce le incertezze giurisprudenziali e accerta che, in effetti, nel caso concreto sottoposto al suo giudizio una discriminazione indiretta ha avuto luogo. Innanzitutto, è vero che la nozione di disabilità individuata dalla direttiva sulla discriminazione sul posto di lavoro non coincide con quella di malattia individuata dall’art. 2110 c.c., che stabilisce il diritto del datore di lavoro a recedere dal contratto al termine del periodo di comporto. Come nota giustamente la Cassazione, lo stato di malattia può essere tanto la causa della disabilità, quanto il suo effetto: non tutti i lavoratori malati sono disabili, naturalmente, ma è necessario tenere conto dell’interazione tra malattia e disabilità. In secondo luogo, anche la Cassazione condivide, quasi come un fatto notorio, l’assunto per cui il lavoratore disabile “è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente” (p. 20 della sentenza in esame). Di conseguenza, una normativa, come quella prevista dal contratto collettivo applicato al ricorrente, che fissa identici periodi di comporto per lavoratori disabili e non disabili, crea una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità (p. 21). La condotta datoriale, la quale non tiene conto che determinate assenze per malattia sono riconducibili alla disabilità e applica il medesimo periodo di comporto breve per lavoratori disabili e non disabili, integra quindi una discriminazione indiretta vietata dalla legge (p. 22). La Suprema Corte chiarisce meglio la portata di questa ricostruzione nei passaggi successivi: che la condotta datoriale al centro della controversia oggetto di giudizio sia illegittima, in quanto discriminatoria, non significa certo che il diritto del disabile alla conservazione del posto di lavoro prevalga sempre e comunque sull’interesse dell’imprenditore a ottenere una prestazione lavorativa utile. Il legislatore e le parti sociali, in altre parole, possono senza dubbio prevedere un termine di comporto che si applichi anche ai lavoratori disabili. Tuttavia, nel perseguire la legittima finalità di “combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità”, si dovrà tenere conto della situazione del disabile, maggiormente a rischio di assenze, attuando quindi gli obiettivi di politica occupazionale con mezzi appropriati e necessari (p. 23 della sentenza in esame). Il ragionamento della Corte di Cassazione si può quindi riassumere così: posto che i lavoratori disabili sono mediamente sottoposti a un maggior rischio di assenze, la condotta datoriale, di applicazione indifferenziata del medesimo termine di comporto, senza eventualmente scomputare le assenze dovute a disabilità, determina una disparità di trattamento tra lavoratori disabili e non disabili. Tale disparità potrebbe rispondere a una finalità legittima di lotta all’assenteismo (o, in termini più neutri, di risposta all’interesse datoriale a ricevere una prestazione utile), tuttavia i mezzi impiegati per raggiungere tale finalità non sono proporzionati e, pertanto, si verifica una discriminazione indiretta vietata dalla legge (in senso conforme alla decisione in commento, v. la recentissima Trib. Milano, 6 aprile 2023, De Jure). Tra discriminazione indiretta e accomodamenti ragionevoli La sentenza in commento, piuttosto lineare fino a questo punto, apre poi un fronte più problematico. Al punto 25 della sentenza, la Corte afferma che l’obiettivo di tutela dei soggetti disabili comporta “l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE (…)”, il che non è avvenuto nel caso concreto sottoposto al giudizio della Corte di Cassazione. Il passaggio in questione, in cui vengono richiamati esplicitamente gli “accomodamenti ragionevoli” richiesti dall’art. 2, comma 4 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, nella struttura della sentenza chiude l’esame del primo motivo di ricorso e occupa, pertanto, una posizione di rilievo nell’argomentazione logica della Corte. I cosiddetti “accomodamenti ragionevoli” sono un istituto tipico del diritto antidiscriminatorio che impone ai datori di lavoro di prendere i “provvedimenti appropriati”, in relazione al contesto e al caso concreto, al fine di garantire ai disabili di “accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione” o di ricevere una formazione. Tale onere in capo al datore di lavoro, tuttavia, deve essere bilanciato con i suoi interessi economici: pertanto, non si possono imporre provvedimenti che richiedano, da parte del datore di lavoro, un “onere finanziario sproporzionato” (art. 5 della direttiva 2000/78/CE). Esempi di accomodamenti ragionevoli si possono rinvenire al ventesimo considerando della direttiva medesima che, all’art. 5, introduce questo istituto nel diritto comunitario: in particolare, tra le misure che tipicamente possono essere richieste al datore di lavoro vi sono la sistemazione dei locali, l’adattamento delle attrezzature e dei ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti specifici mezzi di formazione o di inquadramento. Si tratta, in sostanza, di un istituto caratterizzato da un’ampia varietà di applicazioni pratiche, che possono consistere tanto in interventi materiali sul luogo di lavoro, che rimuovano le barriere architettoniche e consentano al disabile di lavorare in sicurezza, quanto in soluzioni tecnico-organizzative, come una certa organizzazione in turni che consenta un recupero delle energie spese adeguato alla condizione di disabilità del singolo lavoratore. La direttiva 2000/78/CE non è esplicita sulle conseguenze della mancata adozione degli accomodamenti ragionevoli da parte del datore di lavoro e, allo stesso modo, il decreto 216 del 2003, con cui l’Italia ha attuato la direttiva, si limita a prevedere all’art. 3, comma 3-bis, che “datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli (…)”. È tuttavia ampiamente condivisa in dottrina e in giurisprudenza la ricostruzione per cui la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli da parte del datore di lavoro costituisce una forma di discriminazione nei confronti del lavoratore disabile, il quale vede così violato il proprio diritto alla parità di trattamento e il proprio diritto a beneficiare di misure di inserimento sociale e professionale, stabilito dall’art. 26 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha già qualificato nei paragrafi precedenti la condotta datoriale del caso concreto come una discriminazione indiretta: tanto basterebbe per dirimere la questione di diritto al centro del primo motivo di ricorso. Il comportamento della società è di per sé discriminatorio, in quanto, nonostante sia apparentemente neutro, mette in una posizione di “particolare svantaggio” il lavoratore disabile senza che sia rispettato il criterio della proporzionalità dei mezzi. L’accenno fatto dal p. 25 della sentenza al tema degli accomodamenti ragionevoli, se non elaborato in maggiore ampiezza, appare allora di difficile collocazione nella logica della decisione: il legame logico tra accomodamenti ragionevoli e discriminazioni indirette è innegabile; tuttavia, occorre tenere a mente che si tratta di due profili diversi, che non possono essere utilizzati indifferentemente nell’argomentazione logica che conduce a considerare illegittima l’applicazione del comporto breve ai lavoratori disabili. Pur volendo estendere il più possibile la nozione di accomodamento ragionevole, rimane complesso immaginare come questa possa giungere a comprendere non un obbligo di adattamento del luogo di lavoro o dell’organizzazione aziendale, bensì addirittura un obbligo, strettamente giuridico, di non licenziare un lavoratore anche oltre a quanto previsto dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Alla luce di tale ricostruzione, non sembra allora rilevante la categoria dell’art. 5 per il caso al centro della sentenza qui commentata, essendo del tutto sufficiente dichiarare l’illegittimità del licenziamento per violazione del divieto di discriminazione indiretta accertata nei paragrafi precedenti al 25. Vero è che nella sentenza HK Danmark, più volte citata dalla Cassazione e tenuta come stella polare del giudizio in esame (parr. 10-14), si faceva riferimento alla mancata adozione di “provvedimenti appropriati” nei confronti di lavoratori disabili (sentenza 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11, parr. 65-68). Tuttavia, nel caso sottoposto alla Corte di Giustizia era stata proprio la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli a causare alcune delle assenze dei lavoratori successivamente licenziati e a determinare questo esito discriminatorio. Nella sentenza in commento, al contrario, la Cassazione parrebbe suggerire non tanto che il datore di lavoro non avrebbe adottato gli accorgimenti necessari per rendere meno gravose le mansioni del lavoratore disabile, bensì che proprio un diverso termine di comporto applicabile ai disabili costituirebbe un accomodamento ragionevole. Si deve allora immaginare che la Corte abbia voluto accennare ad abundantiam a un altro argomento a favore dell’individuazione di una discriminazione indiretta, pur senza volerlo sviluppare fino in fondo e volendo comunque considerare come dirimente quanto già esposto nei paragrafi precedenti, forse anche in parziale risposta alle esigenze di un orientamento, per ora minoritario ma comunque presente nella giurisprudenza di merito, che valorizza il tema degli accomodamenti ragionevoli (v., tra le altre, App. Napoli, 17 gennaio 2023,n. 168, con nota di Ogriseg, Licenziamento per superamento del comporto e disabilità: nascoste sotto la cenere le braci della discriminazione indiretta, Labor, www.rivistalabor.it, 29 maggio 2023, a cui si rinvia anche per l’esame della giurisprudenza rilevante, fra cui Trib. Parma, 9 gennaio 2023,n.1 e App. Milano, 9 dicembre 2022, n. 1128, anche queste oggetto di commento da parte dell’A.). Eppure, in attesa di una più ampia argomentazione sul tema da parte della Suprema Corte, appare comunque opportuno ribadire come la nozione di accomodamento ragionevole, per quanto collegata al concetto di discriminazione indiretta, non vada con questa confusa e che casi simili a quello di specie possano pacificamente essere decisi con l’accertamento di una semplice discriminazione indiretta, senza scomodare l’art. 5 della dir. 2000/78/CE. Alcune proposte conclusive La sentenza in esame esprime un principio di diritto chiaro: è discriminatorio trattare ugualmente il caso del lavoratore disabile e quello del lavoratore non disabile quando si tratta di calcolare il periodo di comporto. Allo stesso tempo, tuttavia, la Corte di Cassazione rimane in silenzio riguardo alle soluzioni che, concretamente, devono adottare i datori di lavoro per evitare di attuare una discriminazione nei confronti dei lavoratori disabili. L’autonomia collettiva può indubbiamente predisporre una regolazione del comporto idonea a tenere conto della situazione di maggiore svantaggio a cui sono sottoposti i lavoratori disabili, per esempio prevedendo un termine di comporto più lungo per il lavoratore disabile. Tuttavia, va notato come il divieto di discriminazione indiretta opera a prescindere dal quadro giuridico in cui agisce il datore di lavoro: in concreto, anche nel caso al centro della decisione della Cassazione qui commentata il datore di lavoro aveva l’obbligo giuridico di tenere una condotta diversa da quella che ha condotto alla discriminazione, poi accertata in tutti e tre i gradi di giudizio. La Corte di Cassazione, dunque, ha espresso un principio di diritto sostanzialmente neutro riguardo alle misure che devono essere adottate dai datori di lavoro per evitare la discriminazione Ad avviso di chi scrive, la soluzione più ragionevole e lineare, che senza dubbio escluderebbe ogni discriminazione, è quella che conduce allo scomputo di quelle assenze che sono dovute a malattie direttamente collegate alla disabilità di cui il lavoratore è affetto. Certamente, si pone in questo caso un tema di conoscibilità del fattore protetto: se il divieto di discriminazione opera in senso oggettivo, e quindi prescinde dalla volontà datoriale di discriminare, essendo sufficiente accertare la produzione di conseguenze discriminatorie, è pur vero che non sempre il datore di lavoro conosce o può conoscere lo stato di disabilità di un proprio dipendente, né, a maggior ragione, la causa della malattia, dovendosi accontentare di un certificato medico di cui non può conoscere la diagnosi (Mortillaro, Comporto e disabilità. Alcune riflessioni a partire da alcune recenti pronunce milanesi, Labor, www.rivistalabor.it, 21 marzo 2023, alla quale si rinvia anche per alcune decisioni rilevati sul tema). Il tema è senz’altro complesso, dovendosi operare un non semplice bilanciamento tra gli interessi del lavoratore disabile e quelli dell’imprenditore, che potrebbe non essere in grado di stabilire per quali casi deve adottare una determinata condotta fino al momento in cui la discriminazione è già avvenuta. Pur condividendo le obiezioni di chi (v., tra gli altri, Tarquini, Corte di Cassazione 9905/2023: un uguale periodo di comporto costituisce discriminazione per disabilità, Italian Equality Network, aprile 2023) individua nella soluzione dello scomputo delle assenze dovute alla disabilità il rischio di un onere eccessivamente gravoso per il datore e, soprattutto, una seria minaccia per le naturali esigenze di certezza del diritto, alcuni accorgimenti potrebbero rendere il meccanismo più equilibrato. Potrebbe, in questo senso, essere utile valorizzare la prassi, diffusa in numerosi contratti collettivi, per cui deve essere data per tempo debito comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi dell’esaurimento del comporto: così si consentirebbe alle parti del rapporto di lavoro di instaurare utilmente un dialogo e si potrebbe da un lato chiarire quali assenze non vanno considerate ai fini del comporto, e dall’altro compiere eventuali accertamenti e prendere le misure necessarie per evitare ogni discriminazione. In questo modo al solo lavoratore, il quale è l’unico soggetto in grado di conoscere quali assenze sono riconducibili alla disabilità, sarebbe rimessa la scelta se soddisfare l’onere informativo ai fini di ottenere una miglior tutela (lo scomputo delle assenze legate alla disabilità), oppure se dare priorità al diritto alla riservatezza riguardo ad alcuni aspetti della propria malattia, e così tuttavia esporsi al rischio di un licenziamento per superamento del comporto. Allo stesso modo, applicando questa soluzione il datore di lavoro verrebbe messo a parte della potenziale discriminazione non a licenziamento già avvenuto, ma, valorizzando la clausola generale di buona fede nell’esecuzione del contratto, anche di lavoro, in un momento antecedente, quando ancora è possibile evitare esiti pregiudizievoli per il lavoratore (sul difficile bilanciamento di interessi e sulla necessaria valorizzazione della clausola di correttezza e buona fede, v. Ogriseg, Licenziamento per superamento del comporto e disabilità: nascoste sotto la cenere le braci della discriminazione indiretta, nota sopra citata). In questo senso, potrebbe essere valorizzato il ruolo del medico competente, il quale potrebbe esercitare le necessarie verifiche su quanto dichiarato dal lavoratore, fungendo al contempo da “filtro” nei confronti del datore di lavoro, che otterrebbe così solo le informazioni strettamente necessarie ad evitare di mettere in pratica condotte discriminatorie. Filippo Bordoni, dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca Visualizza il documento: Cass., 31 marzo 2023, n. 9095 Scarica il commento in PDF L'articolo Il periodo di comporto può essere discriminatorio. Tra discriminazione indiretta e accomodamenti ragionevoli: la Cassazione puntualizza sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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