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sulla-nullita-in-senso-protettivo-del-licenziamento-disciplinare-basato-su-prove-raccolte-da-un-investigatore-privato-non-indicato-nominativamente-tra-privacy-riservatezza-e-diritto-alla-difesa
La Suprema Corte, nella sentenza qui commentata (11 ottobre 2023, n. 28378), ha sancito il principio per cui la violazione dei codici deontologici relativi al trattamento dei dati personali, di cui al d.lgs. n. 196 del 2003, dà luogo all’inutilizzabilità dei dati così raccolti, la quale, nel periodo anteriore alla novella introdotta dal d.lgs. n. 101 del 2018, è da intendersi come “assoluta”, quindi rilevante in sede sia processuale che extraprocessuale, e determina l’impossibilità sia per il datore di lavoro di avvalersi dei predetti dati ai fini di una contestazione disciplinare – e, poi, di produrli in giudizio come mezzo di prova -, sia per il giudice di merito di porli a fondamento della sua decisione. Da tale assunto deriva la nullità in senso protettivo del licenziamento disciplinare basato su prove raccolte da un investigatore privato non indicato nominativamente. Ad un dipendente, a seguito di un complesso procedimento disciplinare, era stato intimato il licenziamento. Il dipendente impugnava il licenziamento, deducendone la nullità del motivo, ovvero per il suo carattere discriminatorio rispetto alla sanzione conservativa applicata al collega per vicenda disciplinare coeva e identica; in subordine l’illegittimità per manifesta insussistenza del fatto posto a base del recesso ovvero perché il fatto rientrava fra le condotte punibili con sanzione conservativa; in ulteriore subordine l’illegittimità per sproporzione tra infrazione e sanzione, con conseguente tutela indennitario-risarcitoria. Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale di Milano, a conclusione della fase sommaria, accoglieva la domanda principale e ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. L’opposizione proposta da spa era rigettata ed il Tribunale condannava altresì la società a risarcire al ricorrente il danno liquidato in misura pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento all’effettiva reintegrazione sulla base della retribuzione mensile. Proposto reclamo dalla società, la Corte d’Appello accoglieva il gravame, respingeva tutte le domande dell’ex dipendente e lo condannava a restituire quanto in ipotesi percepito in esecuzione della sentenza di primo grado. La Corte territoriale affermava: a) che il dipendente nel periodo in esame era inquadrato nel V livello Ccnl telefonia, con mansioni di tecnico “on field” impianti e servizi, aveva come base la centrale in , operando nella zona di quale tecnico “on field”, egli non faceva riferimento ad una specifica sede di lavoro, ma partiva dal proprio domicilio e dalla centrale di ricovero dell’automezzo sociale e poi iniziava l’attività presso il cliente o sul primo impianto sul quale era chiamato ad operare; b) che la contestazione disciplinare aveva ad oggetto la falsa attestazione di tempi e modi di esecuzione delle attività lavorative a lui assegnate, lo svolgimento di un complessivo orario di lavoro inferiore a quello contrattualmente dovuto senza alcuna riduzione corrispondente della retribuzione, l’essersi dedicato durante l’orario di lavoro ad incombenze legate alla sfera personale di interessi e comunque estranee all’attività lavorativa; nella contestazione sono analiticamente riportati i giorni e gli episodi in cui tali condotte sono state tenute; c) i motivi di impugnazione, da esaminare congiuntamente, erano, in concreto, volti a contrastare la tesi – accolta dal Tribunale – della sussistenza di plurimi e concordanti elementi presuntivi idonei a provare la ritorsività del licenziamento, quali: la volontà di punire il lavoratore che aveva avviato un terzo contenzioso nei confronti della società; l’abusivo ricorso a controlli investigativi disposti nei suoi confronti, con conseguente inutilizzabilità dei fatti emersi al loro esito; il differente e ingiustificato trattamento subito dal rispetto al collega punito con sanzione conservativa, nonostante l’identità delle posizioni e delle contestazioni disciplinari. La Corte ha ribadito che il sospetto – oggettivamente sussistente e giustificato – consente l’avvio delle indagini investigative e la loro legittimità, ma non ne limita affatto l’oggetto. Questo, secondo la medesima Corte,  non può sconfinare in controlli sulla prestazione lavorativa, che non possono essere affidati a terzi estranei all’organizzazione datoriale (art. 3 L. n. 300/1970). Ma nel caso in esame – secondo il consesso – non si sarebbe verificato tale sconfinamento, atteso che i comportamenti scoperti a seguito delle predette indagini hanno avuto ad oggetto prestazioni rese in favore di terzi (non in concorrenza, non durante l’orario di lavoro o, comunque, per scopi estranei all’attività di impresa datoriale). Quindi gli esiti delle indagini sono stati utilizzati dalla datrice di lavoro non per controllare la prestazione lavorativa (anche sotto il profilo della sua esattezza), bensì per accertare prima e dimostrare poi le falsità integranti “artifici e raggiri” tipici di un vero e proprio reato, quale quello di truffa. La Corte d’appello, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto la legittimità del provvedimento espulsivo, dando rilievo decisivo agli elementi raccolti da un’agenzia investigativa, su incarico del datore di lavoro, nel corso di una serie di pedinamenti. In cassazione, il lavoratore aveva contestato, tra gli altri, l’utilizzabilità degli esiti dell’indagine investigativa in quanto svolta da agenti dipendenti da un’agenzia diversa da quella incaricata. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, osserva che: (i) dagli atti del giudizio emerge incontestabilmente che l’agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro aveva subappaltato l’esecuzione dei pedinamenti a investigatori privati esterni alla propria struttura; (ii) dai medesimi atti emerge altresì che il mandato investigativo, pur autorizzando l’agenzia investigativa ad avvalersi della collaborazione di soggetti esterni, prevedeva che, in tal caso, essa avrebbe dovuto indicare i relativi nominativi in calce all’atto di incarico, indicazione che è invece mancata nel caso di specie; (iii) si ravvisa dunque un contrasto con l’art. 8 del Codice di deontologia per i trattamenti di dati personali effettuati per lo svolgimento di indagini difensive (all. A.6, d.lgs. 196/03), secondo cui “l’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico”; (iv) la violazione di tale regola deontologica – alla quale va riconosciuta valenza normativa e che può pertanto essere individuata e applicata dal giudice anche d’ufficio – comporta l’inutilizzabilità dei dati raccolti nel corso dei pedinamenti, stante il disposto dell’art. 11, co. 2, d.lgs. 169/03, che, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti, prevedeva che “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”; (v) si tratta, nello specifico, di una inutilizzabilità assoluta, vincolante anche per il giudice. La Suprema Corte ha ribadito che l’indicazione dei nominativi degli investigatori è mancata sia ab origine, sia ex post in calce al mandato ricevuto. Tale mancanza inficia il mandato e comporta, di conseguenza, l’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 11, co. 2, d.lgs. n. 196/2003, dei dati raccolti da soggetti non legittimati a farlo. In tal senso è l’autorizzazione n. 6/2016 del Garante per la protezione dei dati personali, registro dei provvedimenti n. 528 del 15/12/2016, invocata dal ricorrente, in cui è previsto che “l’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e non può avvalersi di altri investigatori non indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico”. Nello stesso senso, ancora più in generale, è l’art. 8, co. 4, del provvedimento del garante n. 60 del 06/11/2008, allegato A. 6 al d.lgs. n. 196/2003. In particolare, l’art. 8 cit. dispone: “l. L’investigatore privato organizza il trattamento anche non automatizzato dei dati personali secondo le modalità di cui all’articolo 2, comma 1. 2. L’investigatore privato non può intraprendere di propria iniziativa investigazioni, ricerche o altre forme di raccolta dei dati. Tali attività possono essere eseguite esclusivamente sulla base di apposito incarico conferito per iscritto e solo per le finalità di cui al presente codice. L’atto d’incarico deve menzionare in maniera specifica il diritto da esercitare in sede giudiziaria, ovvero il procedimento penale al quale l'”investigazione è collegata, nonché i principali elementi di fatto che giustificano l’investigazione e il termine ragionevole entro cui questa deve essere conclusa. L’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico. Restano ferme le prescrizioni relative al trattamento dei dati sensibili contenute in atti autorizzativi del Garante. Nel caso in cui si avvalga di collaboratori interni designati quali responsabili o incaricati del trattamento in conformità a quanto previsto dagli artt. 29 e 30 del Codice, l’investigatore privato formula concrete indicazioni in ordine alle modalità da osservare e vigila, con cadenza almeno settimanale, sulla puntuale osservanza delle norme di legge e delle istruzioni impartite. Tali soggetti possono avere accesso ai soli dati strettamente pertinenti alla collaborazione a essi richiesta. Il difensore o il soggetto che ha conferito l’incarico devono essere informati periodicamente dell’andamento dell’investigazione, anche al fine di permettere loro una valutazione tempestiva circa le determinazioni da adottare riguardo all’esercizio del diritto in sede giudiziaria o al diritto alla prova”. Sulla valenza “normativa” delle prescrizioni contenute nei codici deontologici non può esservi dubbio. Essa è conferita dall’art. 12 d.lgs. n. 196/2003, che ne prevede anche un regime di pubblicità sulla Gazzetta Ufficiale (co. 2) e prescrive il relativo rispetto come “condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali effettuato da soggetti privati e pubblici” (co. 3). La qualificazione giuridica in termini di “illiceità” del trattamento qualora non rispettoso delle regole conformative dettate dai predetti codici, infatti, implica necessariamente la natura normativa (e inderogabile) della fonte violata. La medesima forza normativa è ora riconosciuta ai, più volte richiamati, codici dall’art. 2-quater, co. 4, d.lgs. n. 196/2003 introdotto dal d.lgs. n. 101/2018 contenente “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)”. Dall’art. 12 d.lgs. n. 196/2003 – e oggi dall’art. 2 quater, co. 4 del medesimo decreto legislativo – si desume allora la natura normativa di tali codici, che vanno qualificati esattamente come “fonti normative integrative”. La Suprema Corte prende le mosse da un prevalente filone giurisprudenziale (Cass. 06/06/2014, n. 12834 in materia di conflitto tra riservatezza, attività giornalistica e diritto di cronaca “fotografica”). Ne consegue che per tali codici in tema di privacy vale il principio iura novit curia, sicché il giudice deve individuarli e farne applicazione a prescindere dalla loro invocazione dalla parte interessata. Ulteriore conseguenza è la loro invocabilità con ricorso per cassazione sub specie di “violazione o falsa applicazione di norma di diritto”, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. Sul piano delle conseguenze, la violazione di tali codici determina l’inutilizzabilità dei dati in tal modo raccolti. In tal senso dispone l’art. 11, co. 2, d.lgs. n. 196/2003, vigente ratione temporis: “I dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”. Tale norma è stata poi abrogata dal d.lgs. 10/08/2018, n. 101, che, con l’art. 2, l’ha sostituita con l’art. 2-decies contenente identica formulazione, con l’unica aggiunta della salvezza di quanto previsto dall’art. 160 bis d.lgs. n. 196 cit. (quest’ultimo pure introdotto nell’anno 2018). A sua volta l’art. 160 bis dispone: “La validità, l’efficacia e l’utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di Regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali”. Orbene, secondo la Corte, a differenza del codice di procedura penale (ad esempio artt. 33 nonies, 62, 64, 141 bis, 191, 195, 203, co. 1 bis, 357, co. 3 ter etc.), quello di rito civile non prevede espressamente la categoria giuridica della “inutilizzabilità” della prova o di un atto processuale. Da questa lacuna potrebbe dedursi che nel processo civile la predetta clausola (contenuta nell’art. 2-decies d.lgs. n. 196 cit.) implicherebbe la salvezza del potere discrezionale del giudice di decidere caso per caso se il dato (rectius la sua valenza rappresentativa del fatto da provare) sia utilizzabile oppure no ai fini della decisione e, ab imis, se il relativo mezzo di prova chiesto dalla parte sia ammissibile oppure no, prescindendo del tutto dalla illiceità della formazione del dato e del suo trattamento. D’altro canto, potrebbe obiettarsi che, sebbene non espressamente prevista, la categoria della “inutilizzabilità” della prova o dell’atto processuale sarebbe comunque evincibile dal complessivo sistema processuale civile, in quanto desumibile sia dal regime delle preclusioni istruttorie (art. 183 c.p.c. nella formulazione anteriore alla riforma di cui al d.lgs. n. 149/2022), sia più in generale da quello della nullità degli atti processuali ex art. 157 c.p.c. (secondo cui l’atto nullo non può produrre alcun effetto e, pertanto, non può essere utilizzata. La Corte prende le mosse da una giurisprudenza civile di legittimità, che ricorre sovente alla categoria dell’inutilizzabilità della prova (Cass. ord. n. 22915/2023, secondo cui l’inosservanza del termine ordinatorio per ottemperare all’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. non comporta “l’inutilizzabilità” a fini probatori della relativa produzione documentale; Cass. ord. n. 2397/2022, secondo cui il disconoscimento della scrittura privata prodotta in giudizio, ove non sia raggiunta la prova della sua provenienza dalla parte che l’ha disconosciuta, determina “l’inutilizzabilità” del documento ai fini della decisione, anche soltanto in termini di fonte di indizi). Tuttavia, in questa sede non occorre esaminare funditus la questione, poiché la portata della novella del 2018 non rileva ratione temporis nel caso in esame. Pertanto, trova applicazione l’art. 11 d.lgs. n. 196 cit. nella sua formulazione originaria ed assoluta, ossia senza limiti né clausole di salvezza, sicché deve ritenersi che il legislatore abbia inteso imporne un’accezione rilevante sia in sede processuale, sia in sede extraprocessuale. La tesi, pur sostenuta da parte della dottrina, secondo cui la disciplina del trattamento dei dati sarebbe (anche prima della novella del 2018) “irrilevante” nell’ambito del processo civile, che resterebbe soggetto alle regole sue proprie, non può essere condivisa. La sua conseguenza, infatti, sarebbe l’utilizzabilità di quei dati sia dalle parti per adempiere i propri oneri probatori, sia dal giudice per la sua decisione. Ma in tal modo si finirebbe per porre l’ordinamento in contraddizione con sé stesso, poiché da un lato qualificherebbe quel trattamento dei dati come “illecito”, dall’altro permetterebbe la produzione di quei dati in un giudizio civile, ossia una diffusione altrimenti vietata, ed inoltre consentirebbe alla parte di trarre, in tal modo vantaggio, da un’attività illecita (con pericolosi effetti incentivanti di tale illecito), ciò che è contrario ai principi generali, fra i quali quello del “giusto processo” ex art. 111 Cost. Pertanto, l’art 11 d.lgs. n. 196 cit., nella sua formulazione originaria, va inteso nel senso assoluto. Ne consegue che sul piano processuale tale norma preclude non solo alle parti di avvalersi dei predetti dati come mezzo di prova, ma pure al giudice (nella controversia diversa da quella avente ad oggetto il provvedimento del Garante relativo al trattamento dei dati personali) di fondare il proprio convincimento sulla scorta dei fatti dimostrati dal dato acquisito in modo non rispettoso delle regole dettate dal legislatore e dai codici deontologici. D’altronde, questa assolutezza si spiega in chiave “funzionale”: la ratio della norma è quella di scoraggiare la ricerca, l’acquisizione e più in generale il trattamento “abusivi” di dati personali e per realizzare questa funzione il rimedio previsto dal legislatore è quello di impedirne la realizzazione dello scopo (id est la successiva utilizzazione di quei dati). Nel caso in esame, precisa la Corte di Cassazione, non essendo stati indicati neppure successivamente (in calce alla lettera di incarico) i nominativi degli investigatori “esterni” di cui si è avvalsa – come accertato in fatto dalla Corte territoriale -, viene meno l’utilizzabilità (in senso assoluto) della relazione investigativa e dei dati da essa evincibili. Ne deriva un’ulteriore conseguenza: viene meno la possibilità del raffronto di quei dati con quelli dichiarati dal sistema WFM utilizzato e, quindi, la possibilità di verificarne la veridicità e, in ultima analisi, di contestarne la falsità mediante il procedimento disciplinare. In tal senso l’inutilizzabilità, proprio perché “assoluta” (ratione temporis), opera già in fase extraprocessuale e, quindi, sul piano sostanziale nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato come limite al potere datoriale. Il giudice di rinvio dovrà pertanto trarne le relative conseguenze, anche sul piano degli oneri probatori, alla luce del seguente principi di diritto: «1) i codici deontologici di cui al d.lgs. n 196/2003 hanno natura normativa e pertanto possono e devono essere individuati ed applicati anche d’ufficio dal giudice (iura novit curia); 2) la violazione dei predetti codici deontologici può essere fatta valere con ricorso per cassazione ex art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. e determina l’inutilizzabilità dei dati così raccolti; 3) l’inutilizzabilità dei dati raccolti in violazione dei codici deontologici di cui al d.lgs. n. 196/2003, nel periodo anteriore alla novella introdotta dal d.lgs. n. 101/2018, è da intendersi come “assoluta”, quindi rilevante in sede sia processuale che extra processuale; 4) tale inutilizzabilità “assoluta” determina l’impossibilità sia per il datore di lavoro di porli a fondamento di una contestazione disciplinare e poi di produrli in giudizio come mezzo di prova, sia per il giudice di merito di porli a fondamento della sua decisione». La Suprema Corte cassa la sentenza della Corte territoriale e rinvia la causa alla medesima Corte, in diversa composizione, affinché decida il merito alla luce dei principi di diritto sopra formulati. Giuseppe Maria Marsico, dottorando di ricerca in diritto privato e dell’economia e funzionario giuridico-economico-finanziario Visualizza il documento: Cass., 11 ottobre 2023, n. 28378 Scarica il commento in PDF L'articolo Sulla nullità in senso protettivo del licenziamento disciplinare basato su prove raccolte da un investigatore privato non indicato nominativamente: tra privacy, riservatezza e diritto alla difesa sembra essere il primo su Rivista Labor - Pacini Giuridica.

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