Compravendita di terreno gravato da servitù sottaciuta dai venditori e risarcimento del danno
Cass. civ., sez. III, 29 febbraio 2024, n. 5380 – Pres. Travaglino – Rel. Iannello
Parole chiave: Contratto – Annullamento per vizio del consenso – Dolo incidente – Danno risarcibile – Minore vantaggio o maggiore aggravio economico – Risarcibilità dei danni ulteriori – Presupposti
[1] Massima: Nell’ipotesi di dolo incidente ex art. 1440 c.c., il danno risarcibile corrisponde al minore vantaggio o al maggiore aggravio economico rispetto alle diverse condizioni alle quali sarebbe stato concluso il contratto in mancanza della condotta dolosa, nonché agli ulteriori pregiudizi correlati alla lesione dell’interesse positivo sotteso all’accordo, ove discendenti dalla suddetta condotta alla stregua dell’art. 1223 c.c.
Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1223, 1440, 2043, 2056
CASO
Gli acquirenti di un immobile agivano in giudizio nei confronti dei venditori, lamentando che questi avevano sottaciuto l’esistenza di servitù di passaggio pedonale e carraio gravante sul bene e sostenendo che, per tale motivo, erano stati indotti a concludere il contratto a condizioni diverse rispetto a quelle che avrebbero accettato se fossero stati a conoscenza della servitù.
Chiedevano, pertanto, che i venditori fossero condannati al risarcimento dei danni subiti, che il Tribunale di Savona liquidava nell’importo richiesto, successivamente ridotto dalla Corte d’appello di Genova, che ne limitava l’entità alla differenza tra il prezzo dell’immobile corrisposto in esecuzione di quanto previsto dal contratto stipulato e quello che i venditori avevano a loro volta corrisposto al precedente proprietario, sul presupposto che a tale differenza poteva correttamente parametrarsi la minore convenienza dell’affare determinata dagli artifici e raggiri dei quali erano rimasti vittima gli acquirenti.
Questi ultimi impugnavano la sentenza di secondo grado con ricorso per cassazione, contestando l’assunto secondo cui non potevano essere risarcite anche le spese sostenute in relazione a un accordo transattivo raggiunto con i vicini per ovviare all’esistenza della servitù.
SOLUZIONE
[1] La Corte di cassazione ha respinto il ricorso, rilevando che le spese dei quali gli acquirenti chiedevano il risarcimento non costituivano danni eziologicamente riconducibili alla condotta reticente dei venditori, dal momento che avrebbero dovuto essere sostenute comunque, trattandosi di esborsi collegati alle caratteristiche del bene che non sarebbero mutate, quand’anche fosse stata resa nota l’esistenza della servitù, sicché non potevano considerarsi, neppure in via mediata e indiretta, effetti normali del comportamento illecito serbato dai venditori.
QUESTIONI
[1] Il contratto, oltre che per errore e violenza, può essere annullato per dolo, che consiste in qualsiasi forma di raggiro che altera la volontà contrattuale.
Si distingue, tuttavia, il dolo determinante del consenso (preso in considerazione dall’art. 1439 c.c.), perché induce il soggetto a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe stipulato, dal dolo incidente (disciplinato dall’art. 1440 c.c.), che, al contrario, non influisce sulla prestazione del consenso, nel senso che non determina la vittima del raggiro a prestarlo, ma incide sul contenuto del contratto, inducendo a concluderlo a condizioni meno favorevoli rispetto a quelle che si sarebbe potuto altrimenti conseguire.
Proprio perché il dolo incidente non influisce sulla prestazione del consenso, esso, a differenza di quello determinante, non è causa di annullamento del contratto, ma, costituendo un illecito, obbliga il contraente in mala fede a risarcire il danno provocato all’altra parte.
Il dolo incidente può ravvisarsi a fronte di una condotta insidiosa idonea a ingannare un soggetto normalmente diligente e può assumere anche carattere omissivo, sotto forma di reticenza: da questo punto di vista, le false od omesse indicazioni di fatti la conoscenza dei quali è indispensabile per una corretta formazione della volontà contrattuale possono comportare l’obbligo per il contraente mendace o reticente di risarcire il danno, se la controparte si sarebbe comunque determinata a concludere l’affare a condizioni diverse, salvo che non venga dimostrato dal primo che la seconda era comunque a conoscenza dei fatti maliziosamente occultati o che avrebbe potuto conoscerli usando l’ordinaria diligenza (in questi termini, Cass. civ., sez. II, 5 febbraio 2007, n. 2479).
Per quanto riguarda il danno risarcibile in caso di dolo incidente (questione precipuamente esaminata e trattata nell’ordinanza annotata), l’art. 1440 c.c. nulla specifica in ordine al criterio di selezione delle conseguenze pregiudizievoli da prendere in considerazione.
In termini generali, si è affermato che occorre fare riferimento a un criterio analogo a quello valevole per l’inadempimento, sicché il danno risarcibile viene a identificarsi nella minore convenienza dell’affare, cioè nel minore vantaggio o nel maggiore aggravio economico conseguenti alla diversa determinazione assunta per effetto e in conseguenza della condotta dolosa serbata dalla controparte.
Trattandosi di condotta illecita, come tale fonte di responsabilità extracontrattuale, è applicabile, per effetto del richiamo contenuto nell’art. 2056 c.c., la disposizione di cui all’art. 1223 c.c., a mente del quale il risarcimento del danno deve comprendere tanto la perdita subita quanto il mancato guadagno, in quanto si tratti di conseguenze immediate e dirette dell’evento dannoso.
La norma in questione pone la regola causale che presiede all’identificazione dei danni risarcibili, indicando il nesso che deve intercorrere tra l’evento lesivo (che si identifica nella lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento derivante dalla condotta dell’agente) e le sue conseguenze pregiudizievoli.
Il giudizio sul danno da risarcire, funzionale a individuare il nesso tra questo e l’evento che l’ha prodotto e di carattere pur sempre ipotetico, assume il valore di criterio idoneo a individuare compiutamente il pregiudizio patrimoniale, onde evitare che il debito risarcimento spettante al danneggiato si traduca in indebito arricchimento.
In tale prospettiva, attraverso la regola dettata dall’art. 1223 c.c., l’ordinamento limita il risarcimento alla perdita subita e al mancato guadagno (che conseguono tipicamente, in base all’id quod plerumque accidit, al fatto per come verificatosi), quali conseguenze immediate e dirette dell’inadempimento o dell’altrui condotta dannosa; non qualsiasi ripercussione patrimoniale, dunque, è meritevole di essere risarcita, ma solo quella che, attraverso un giudizio di natura ipotetica e differenziale tra condizione dannosa attuale e condizione del danneggiato quale sarebbe risultata in assenza del fatto dannoso, si ponga rispetto a quest’ultimo in rapporto di causalità non necessariamente materiale, bensì giuridica (nel senso che le singole conseguenze dannose vanno individuate sulla base di un giudizio ipotetico e controfattuale).
Ciò, all’evidenza, non esclude che anche i danni indiretti e mediati possano essere compresi tra quelli oggetto di risarcimento, in quanto, secondo un rapporto di causa ed effetto, rientrino tra le conseguenze pregiudizievoli che ordinariamente e normalmente si ricollegano all’evento lesivo.
Nella fattispecie decisa dalla Corte di cassazione, il danno identificabile nelle spese sostenute dagli acquirenti dell’immobile per ovviare all’esistenza della servitù di passaggio, attraverso la conclusione di un accordo con i titolari del corrispondente diritto, era stato escluso dal novero di quelli risarcibili perché, secondo i giudici di merito, non causalmente collegato – nemmeno in via mediata o indiretta – al comportamento dei venditori, ovvero alla loro condotta dolosamente reticente, ma riconducibile a una precisa e libera scelta degli acquirenti medesimi.
Sotto questo profilo, tenuto conto dell’insegnamento per cui quando, come nell’ipotesi prefigurata dall’art. 1440 c.c., il danno deriva da un contratto valido ed efficace, ma sconveniente, l’interesse positivo che deve formare oggetto del risarcimento coincide con il diritto del deceptus di essere collocato nelle stesse condizioni nelle quali si sarebbe trovato qualora non fosse stato indotto in errore dall’altrui comportamento doloso, commisurandosi al minore vantaggio o al maggiore svantaggio economico rispetto alle condizioni diverse alle quali sarebbe stato stipulato il contratto senza l’interferenza del comportamento scorretto della controparte, pare effettivamente indubbio che le spese sostenute per individuare una soluzione alternativa che riducesse al minimo i disagi conseguenti all’esistenza di una servitù di passaggio pedonale e carraio non possano in alcun modo considerarsi esborsi causalmente dipendenti dalla reticenza serbata dai venditori.
A riprova di ciò, i giudici di legittimità evidenziano che se la condotta truffaldina non fosse stata posta in essere, la condizione fattuale e giuridica dell’immobile non sarebbe stata diversa, poiché l’oggetto della compravendita sarebbe stato pur sempre un bene gravato da servitù di passaggio, mentre ciò che sarebbe mutato sarebbe stata (solo) la posizione più consapevole degli acquirenti ai fini dello svolgimento della trattativa e dell’assunzione delle determinazioni in ordine al contenuto del contratto.
In altre parole, l’esigenza di trovare soluzioni alternative per porre rimedio all’esistenza della servitù non si poneva quale conseguenza del dolo incidente, perché sarebbe comunque venuta in rilievo, a prescindere dalla consapevolezza o meno degli acquirenti, trattandosi di un dato di fatto, seppure non conosciuto al momento della conclusione del contratto: il vero e proprio danno, quindi, era rappresentato dalla diversa ponderazione del valore del bene ai fini della determinazione del prezzo e della conclusione dell’affare, essendo ragionevole ritenere che si sarebbero prese in considerazione le spese preventivabili per approntare le soluzioni alternative poi concretamente poste in essere per ovviare alla presenza del gravame.
Poiché il risarcimento accordato dai giudici di merito – che gli acquirenti avevano ritenuto insufficiente, motivo per cui avevano proposto ricorso per cassazione – era stato commisurato proprio al minore valore di scambio che sarebbe stato attribuito al bene se non fosse stata taciuta l’esistenza della servitù, è evidente che l’importo liquidato identificava esattamente il (solo) pregiudizio causalmente riferibile alla condotta dolosa; tenuto conto di ciò, è altrettanto evidente che se agli acquirenti fosse stato riconosciuto il diritto di percepire pure le somme delle quali avevano chiesto il rimborso, si sarebbe trattato, a tutti gli effetti, di un’indebita duplicazione della (sostanzialmente) medesima posta risarcitoria, cui sarebbe conseguito un altrettanto indebito arricchimento a danno dei venditori.
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