Continuazione dell’attività di impresa dopo perdita del capitale sociale e ritorno in bonis
Tribunale di Catania, Sentenza n. 1962 del 10 maggio 2019
Parole chiave: società di capitali – società a responsabilità limitata – perdita capitale sociale – riduzione del capitale sociale – riduzione al di sotto del minimo legale
Massima: “Ai fini della responsabilità degli amministratori, pur deducendosi la prosecuzione dell’attività sociale in violazione dell’obbligo di operare secondo le modalità di liquidazione, deve comunque essere individuato un inadempimento o un’operazione da parte dell’amministratore astrattamente in grado di porsi come causa di un danno ovvero si deve indicare per quale ragione non fosse stato possibile individuare un preciso nesso causale fra il danno e una condotta”.
Disposizioni applicate: artt. 2482 ter c.c. – 146 l. fall.
La pronuncia in commento decide un’azione di responsabilità promossa ex art. 146 l. fall. dalla curatela di un fallimento nei confronti di diversi amministratori di una S.r.l.. A questi viene contestato, tra le altre cose, di avere continuato l’attività sociale nonostante si fosse verificata, in un periodo antecedente al fallimento, una condizione di perdita del capitale sociale oltre al terzo previsto all’art. 2482 ter c.c..
La disciplina codicistica in materia di società prevede infatti, all’art. 2482 ter, che“Se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dal numero 4) dell’articolo 2463 [ossia al disotto di euro 10.000], gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo”.
La disposizione fa riferimento a quelle perdite che, dopo avere esaurito il valore delle riserve, portino all’erosione della quota di patrimonio netto rappresentata dal capitale sociale, riducendolo in misura superiore ad un terzo e portandolo al di sotto del minimo legale (che, quanto alle S.r.l., oggi è indicato dall’art. 2463, n. 4, in euro 10.000,00). Sorge allora in capo agli amministratori l’obbligo di convocare, senza indugio, l’assemblea ove deliberare, contemporaneamente: (i) la riduzione del capitale al di sotto di detto minimo e (ii) la sua ricostruzione, ossia un aumento del medesimo per ripristinare la perdita e riportare il capitale ad una cifra pari o superiore ai due terzi del capitale.
D’altra parte, nel caso in cui non abbia luogo l’adozione di tale delibera, la perdita del capitale sociale ex art. 2482 ter integra una causa di scioglimento e liquidazione della società e, specificamente, quella prevista al n. 4 co. 2 ex art. 2484 c.c., secondo cui la società a responsabilità limitata si scioglie “per la riduzione del capitale al disotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dagli articoli 2447 e 2482 ter”.
In questo contesto gli amministratori sono chiamati ad accertare il verificarsi della causa di scioglimento o liquidazione della società e, finché permangono in carica, a porre in essere esclusivamente gli atti necessari ai fini della conservazione dell’integrità del valore del patrimonio sociale, restando responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti od omissioni commessi per scopo diverso.
Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, la contestazione principale mossa dalla Curatela a sostegno della propria richiesta risarcitoria si incentrava sulla illegittimità della condotta degli amministratori che, in completa inosservanza del quadro normativo sopra richiamato, hanno portato avanti, per un intero esercizio, l’attività sociale in regime di integrale erosione del capitale sociale.
La circostanza, tuttavia, non è stata da sola sufficiente ad orientare la decisione del Tribunale di Catania nel senso auspicato dalla curatela, e ciò per due ordini di ragioni:
(i) il primo, legato al fatto che la società, dopo avere operato in condizioni di erosione del capitale sociale, era tornata in bonis.
A questo riguardo nella decisione si legge che, mentre da un lato l’attività sociale era stata condotta in condizione di perdita del capitale sociale oltre il terzo ed aveva sconfinato i limiti del compimento di atti meramente conservativi, dall’altro, la stessa attività aveva comunque portato, nell’esercizio successivo, al ripristino del capitale sociale; evidenzia su questo aspetto il Tribunale che “se è vero che la perdita di capitale sociale impone l’adozione dei provvedimenti ex art. 2482 ter c.c. è anche vero che, dal punto di vista sostanziale, l’utile riportato a nuovo ha eliso la situazione che aveva cagionato la perdita del capitale sociale”.
(ii) il secondo, legato alla mancata allegazione di una specifica condotta cui possa dirsi eziologicamente connesso il danno lamentato.
Il Tribunale ha osservato sul punto che pur deducendosi la prosecuzione dell’attività sociale in violazione del divieto di operare secondo le modalità di liquidazione, è pur sempre necessario individuare un inadempimento o un’operazione da parte dell’amministratore astrattamente in grado di porsi come causa di un danno, ovvero indicare per quale ragione non fosse stato possibile individuare un preciso nesso causale fra il danno e una condotta.
Si tratta a ben vedere dell’applicazione del principio sancito dalla nota sentenza n. 9100 del 6 maggio 2015, richiamata dallo stesso Tribunale, con cui le Sezioni Unite hanno osservato che “In tanto, allora, ha senso parlare dell’individuazione del danno, del nesso di causalità che deve sussistere tra il danno medesimo e la condotta illegittima ascritta all’amministratore, della liquidazione del quantum debeatur e degli oneri di prova che gravano in proposito sulle parti del processo, in quanto si sia prima ben chiarito quale è il comportamento che si imputa all’amministratore di aver tenuto e quale violazione, tra i molteplici doveri gravanti sul medesimo amministratore, quel comportamento ha integrato”.
Sembrerebbe dunque potersi concludere che la mera prosecuzione dell’attività imprenditoriale in un contesto in cui risulti necessario operare secondo la modalità della liquidazione non costituisca di per sé motivo sufficiente a fondare una richiesta risarcitoria, laddove a posteriori venga accertato che la società sia in un momento successivo tornata in bonis. Resta in ogni caso valido l’insegnamento della giurisprudenza secondo cui, nell’azione di responsabilità promossa dal curatore, l’individuazione e la liquidazione di un danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha sempre l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento (Cass. Civ. SS.UU. n. 9100, del 6 maggio 2015).
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